Peculato Dopo la Cessazione della Carica: Quando si è Ancora Responsabili?
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2037/2024, affronta una questione di notevole rilevanza: la configurabilità del peculato dopo la cessazione della carica pubblica. Un ex pubblico ufficiale può essere condannato per essersi appropriato di fondi pubblici dopo la fine del suo mandato? La risposta della Suprema Corte è affermativa e si basa su un principio di continuità funzionale tra l’ufficio ricoperto e l’atto di appropriazione.
I Fatti del Caso: L’accusa di peculato all’ex consigliere
Il caso trae origine dalla condanna di un ex consigliere regionale per il reato di peculato. L’episodio contestato risaliva al 4 agosto 2010. La difesa dell’imputato ha presentato un ricorso straordinario per errore di fatto, sostenendo una tesi apparentemente ineccepibile: il mandato del consigliere era terminato il 18 marzo 2009. Di conseguenza, alla data del presunto reato, egli non rivestiva più la qualifica di pubblico ufficiale, presupposto indispensabile per il delitto di peculato. Secondo la difesa, mancando la qualifica soggettiva al momento del fatto, l’accusa non poteva sussistere.
La Decisione della Cassazione: il peculato dopo cessazione carica è possibile
La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, rigettando la tesi difensiva. I giudici hanno chiarito che il ricorso proposto non verteva su un errore di fatto (cioè una svista percettiva sugli atti processuali), ma su una questione di qualificazione giuridica della condotta. Tale questione, essendo di natura valutativa, esula dall’ambito del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p.
Nel merito, la Corte ha colto l’occasione per ribadire un orientamento consolidato, fondamentale per comprendere i confini del reato di peculato. Il punto cruciale non è il momento in cui avviene l’appropriazione, ma il motivo per cui il soggetto ha ottenuto la disponibilità del bene.
Le Motivazioni della Sentenza
La motivazione della sentenza si fonda su un principio cardine, già espresso in precedenti pronunce (in particolare, Cass. Pen. Sez. 6, n. 2230/2019). Ai fini della configurabilità del delitto di peculato, è sufficiente che il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile si siano verificati ‘per ragioni di ufficio o di servizio’.
L’articolo 360 del codice penale stabilisce che quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale come elemento costitutivo di un reato, tale qualità non viene meno se l’agente compie l’atto illecito dopo la cessazione della carica, purché l’atto sia in rapporto con le funzioni o il servizio esercitati in precedenza.
Questo significa che è irrilevante se l’appropriazione materiale avviene in un momento successivo alla cessazione della carica pubblica. Ciò che conta è che la condotta appropriativa sia ‘funzionalmente connessa’ all’ufficio o al servizio precedentemente esercitati. Nel caso specifico, l’ex consigliere aveva ottenuto la disponibilità dei fondi proprio in virtù del suo ruolo pubblico; l’essersi appropriato di tali somme dopo la fine del mandato non interrompe questo legame funzionale e, pertanto, non esclude la responsabilità penale per peculato.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche
La decisione della Cassazione ha importanti implicazioni pratiche. Essa stabilisce chiaramente che la cessazione della carica pubblica non funge da ‘scudo’ per l’ex pubblico ufficiale che si appropria di beni di cui è entrato in possesso grazie al suo precedente ruolo. Il principio del nesso funzionale tra possesso e ufficio prevale sulla mera scansione temporale degli eventi.
Questa sentenza rafforza la tutela dei beni pubblici, impedendo che manovre dilatorie o appropriazioni post-mandato possano eludere la responsabilità per uno dei più gravi reati contro la Pubblica Amministrazione. Per gli operatori del diritto, la pronuncia conferma che l’analisi del reato di peculato deve concentrarsi sull’origine del possesso del bene, piuttosto che sulla qualifica soggettiva dell’agente al momento esatto dell’appropriazione.
È possibile commettere il reato di peculato dopo aver cessato di ricoprire un incarico pubblico?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, è sufficiente che il possesso del denaro o del bene mobile sia avvenuto per ragioni di ufficio. L’appropriazione può avvenire anche dopo la cessazione della carica, purché sia funzionalmente connessa all’ufficio o al servizio precedentemente esercitati.
Perché il ricorso straordinario dell’imputato è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché contestava la qualificazione giuridica del fatto (se fosse peculato o meno), che è una questione di valutazione legale. Il ricorso straordinario per errore di fatto è ammesso solo per contestare errori di percezione su fatti materiali del processo, non su interpretazioni giuridiche.
Qual è il principio chiave stabilito dalla Corte in questa sentenza?
Il principio chiave è che, ai fini della configurabilità del delitto di peculato, è irrilevante che l’appropriazione avvenga quando la qualità di pubblico agente è cessata, se la condotta appropriativa è funzionalmente connessa all’ufficio precedentemente esercitato e il possesso del bene è stato acquisito in ragione di tale ufficio.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 2037 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 2037 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a DESULO il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 30/11/2022 della CORTE DI CASSAZIONE di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
letta la memoria di replica della difesa dell’imputato.
RITENUTO IN FATTO
La Sesta Sezione della Corte di cassazione, con sentenza in data 30 novembre 2022, annullava senza rinvio la sentenza la pronuncia della Corte di appello di Cagliari del 18 gennaio 2022 in ordine ai fatti di peculato contestati a COGNOME NOME limitatamente alle condott del 27-2-2009 e del 24-3-2009 perché estinti per prescrizione e confermava la condanna dello stesso in relazione al residuo episodio del 4 agosto 2010, disponendo la trasmissione degli atti alla stessa corte di appello per la determinazione della pena.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso straordinario per errore di fatto il difensore dell’imputato deducendo, con unico motivo qui riassunto ex art. 173 disp.att. cod.proc.pen., sussistere il presupposto di cui all’art. 625 bis cod.proc.pen. posto che, alla data consumazione dei fatti del 4 agosto 2010, il COGNOME era cessato dalla propria carica di consiglier regionale della Regione Sardegna, scaduta il 18 marzo 2009, così che essendo venuto meno la funzione di pubblico ufficiale non poteva essere ritenuto responsabile del delitto di peculato.
CONSIDERATO IN DIRITTO –
Il ricorso straordinario è proposto per motivi non deducibili e deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
Ed invero secondo l’orientamento di questa Corte di cassazione (Sez. 6, n. 2230 del 11/12/2019 Ud. (dep. 21/01/2020 ) Rv. 278131 – 01) ai fini della configurabilità del delitto d peculato, è sufficiente che il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile si sia verificati per ragioni di ufficio o di servizio, essendo irrilevante, a norma dell’art. 360 cod. che l’appropriazione sia avvenuta in un momento in cui la qualità di pubblico agente sia cessata, laddove la condotta appropriativa sia funzionalmente connessa all’ufficio o al servizio precedentemente esercitati. Ne consegue affermarsi che il ricorrente non poteva contestare nella presente fase di impugnazione straordinaria un presupposto del reato ricollegato dalla decisione della sesta sezione all’appropriazione di somme che dovevano ritenersi di pertinenza pubblica, trattandosi di doglianza che attenendo alla qualificazione giuridica della condott assume contenuto valutativo ed appare estranea all’ambito del ricorso straordinario per errore di fatto.
In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606 comma terzo cod.proc.pen.; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. cod.proc.pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in C 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Roma, 19 dicembre 2023
L CONSIGLIERE EST.
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