Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 38538 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 38538 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME, nato il DATA_NASCITA a Taranto;
NOME NOME, nato il DATA_NASCITA a Pescara
avverso la sentenza del 16/12/2024 dalla Corte d’appello di L’Aquila;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; Generale NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di L’Aquila rideterminava la pena nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME, confermando la condanna a titolo di peculato (art. 314 cod. pen.) per essersi, in concorso tra loro, quali dipendenti della società “RAGIONE_SOCIALE“, concessionaria per conto del Comune
di Chieti della riscossione di tributi inerenti, tra l’altro, alla fornitura i appropriati di somme di denaro (per un totale complessivo di C 18.900) versate dagli utenti.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME, per il tramite dell’AVV_NOTAIO, deducendo i seguenti motivi.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle circostanze attenuanti generiche.
I Giudici di secondo grado hanno omesso qualunque motivazione sulla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche, pur essendo state dedotte in appello le seguenti circostanze: scarsa gravità della condotta; modalità esecutive non particolarmente allarmanti; scarsa capacità delinquenziale dell’imputato; poca pericolosità sociale; comportamento processuale improntato a collaborazione (consenso all’acquisizione di sommarie informazioni durante il processo di primo grado); incensuratezza.
2.2. Errata qualificazione del fatto come peculato anziché truffa.
L’imputato non aveva il possesso del denaro della clientela, in quanto l’ufficio ove lavorava non prevedeva la possibilità di pagamento di denaro in contante, come confermato dal Direttore di “RAGIONE_SOCIALE“, il quale confermò che presso gli sportelli non si poteva pagare in contanti. L’imputato pose dunque in essere artifizi o raggiri consistiti nel dichiarare, per un verso, il malfunzionamento ìl GLYPH il del pos e nel duplicare, per altro verso, bollettini già pagati per coprire l’ammanco. Soltanto attraverso tale escamotage conseguiva il possesso del denaro.
2.3. Insussistenza della qualifica soggettiva.
Secondo la Corte d’appello, l’attività dell’imputato non aveva carattere meramente esecutivo, essendo risultato dall’istruttoria dibattimentale che gestiva in maniera autonoma le pratiche (volture, allacci, informazioni) legate alla RAGIONE_SOCIALE, anche comunicando con gli utenti e fornendo loro informazioni.
Tuttavia, in appello era stato dedotto come il RAGIONE_SOCIALEo di sportello fosse preposto alla mera accoglienza del cliente, mediante presentazione di moduli ed indicazione dei costi predefiniti in tabelle, nonché illustrazione dei metodi di pagamento: attività sostituibili con la consultazione del sito Internet.
L’imputato, cioè, prestava mero supporto informativo agli utenti e non avrebbe potuto essere considerato incaricato di pubblico RAGIONE_SOCIALEo.
Ha presentato ricorso altresì NOME COGNOME, deducendo i seguenti quattro motivi.
3.1. Violazione delle disposizioni in tema di concorso di persone e vizio di motivazione.
Del concorso di persone difetta l’elemento soggettivo in capo a COGNOME, dalle sentenze non evincendosi in che modo l’imputato avrebbe rafforzato il proposito, agevolato l’opera o facilitato l’esecuzione del progetto criminoso di COGNOME.
La Corte d’appello ha ritenuto probanti i seguenti elementi.
Ha richiamato le dichiarazioni di una teste la quale aveva affermato di aver dato i soldi in contanti a un dipendente e poi ricevuto la quietanza di pagamento dalla email personale di COGNOME. Tale teste non è stata però in grado di riconoscere l’impiegato al quale aveva consegnato la somma in contante; inoltre, la Corte d’appello non ha considerato la mobilità dei dipendenti della “RAGIONE_SOCIALE“, chiamati all’occorrenza ad assistere NOME nell’attività di sportello (come confermato da altro teste), sicché non può affermarsi con certezza che quel giorno NOME fosse assistito proprio da COGNOME, né è sufficiente a ritenere provato il concorso il fatto che la quietanza fosse stata inviata dall’indirizzo email peraltro non personale, bensì professionale – di COGNOME, non essendo stato provato che, considerata la massiva affluenza di utenti, fosse stato proprio COGNOME ad utilizzare quel computer.
La Corte d’appello ha poi valorizzato le dichiarazioni di altro teste, che parlò di due dipendenti impiegati nel RAGIONE_SOCIALEo di sportello che gli avevano dato istruzioni di pagare in contanti, dicendo che avrebbero poi pensato loro a sistemare la pratica, e precisando di ricordare il cognome “COGNOME“. Tuttavia, la Corte ha travisato le dichiarazioni del teste, il quale aveva precisamente distinto i ruoli dei due imputati, riferendo di una prima fase informativa curata da COGNOME, e di una fase esclusivamente riscossiva, della quale si occupò NOME.
La Corte, infine, ha fatto riferimento all’individuazione fotografica nel corso della quale gli utenti avrebbero riconosciuto entrambi gli imputati come coloro cui avevano consegnato il denaro contante, trascurando però che nessuno degli utenti aveva riconosciuto COGNOME quale riscossore delle somme.
3.2. Difetto della qualifica soggettiva.
In appello si era evidenziato come l’attività di sportello – individuata peraltro erroneamente quale mansione dell’imputato – non sia un pubblico RAGIONE_SOCIALEo, a causa della carenza di autonomia e di discrezionalità decisionale, risolvendosi essa nelle attività di mera accoglienza al cliente mediante presentazione di moduli ed indicazione di costi predefiniti in tabelle, nonché illustrazione dei metodi di pagamento: attività sostituibili con la consultazione del sito Internet.
Essendo l’attività di sportello di mero supporto informativo, l’imputato non avrebbe potuto essere considerato incaricato di pubblico RAGIONE_SOCIALEo.
3.3. Errata qualificazione del fatto.
Premesso che la differenza tra peculato e truffa ai danni dello Stato risiede nel momento in cui il reo consegue il possesso del denaro, la stessa Corte d’appello, nell’escludere l’applicabilità dell’art. 323-bis cod. pen., ha affermato che gli imputati si fecero dare denaro in contante, nonostante vigesse un espresso divieto, e falsificarono per 264 volte i bollettini postali, riproducendoli al fine attestare agli utenti l’avvenuto pagamento.
La condanna si è dunque fondata su due presupposti errati: la disponibilità materiale del denaro e il suo omesso versamento nelle casse dell’ente, invero impossibile, dal momento che vigeva un divieto assoluto per tutti i dipendenti di “RAGIONE_SOCIALE” di riscuotere denaro contante dagli utenti. Utenti che potevano soltanto operare versamenti mediante bollettino postale ovvero attraverso il “pos” presente in struttura.
3.4. Vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Discostandosi dall’insegnamento di legittimità, la Corte d’appello non ha valutato le seguenti circostanze dedotte in appello: scarsa gravità della condotta; scarsa capacità delinquenziale; scarsa pericolosità sociale dell’imputato; comportamento processuale orientato alla collaborazione (consenso all’acquisizione di sommarie informazioni durante il processo di primo grado).
La parte civile “RAGIONE_SOCIALE” ha presentato note scritte in cui chiede la conferma della sentenza impugnata.
Il difensore di COGNOME ha presentato note di replica alla requisitoria del Procuratore Generale in cui insiste sul fatto che l’imputato non aveva il possesso originario del denaro della clientela, né poteva averlo, dal momento che, per prassi dell’ufficio, non si poteva utilizzare denaro in contante. L’imputato potè dunque conseguire tale denaro soltanto attraverso artifizi, che rappresentano requisito costitutivo della diversa fattispecie di truffa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Dalle sentenze di merito (le cui motivazioni si integrano reciprocamente, trattandosi di c.d. doppia conforme: per tutte, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218) emerge che diversi utenti avevano lamentato di aver ricevuto solleciti di pagamento relativi a canoni idrici, ad allacci, a volture delle utenze, nonostante avessero provveduto ad effettuare tali pagamenti presso gli uffici della società “RAGIONE_SOCIALE“, concessionaria del Comune di riferimento.
Dunque, si accertava: a) che a numerose pratiche era stata correlata una matrice di bollettino di pagamento falsa (molti bollettini riportavano identico codice di vidimazione meccanografica dell’ufficio postale, sebbene tale codice avrebbe dovuto essere unico, non ripetuto); b) che dal 2016 al 2017 erano state effettuate 264 duplicazioni, per un importo complessivo di 18.900; c) che il prezzo per l’allaccio e per la voltura delle utenze era stato pagato nelle mani dei due imputati, impiegati presso la suddetta società.
Tanto premesso sulla vicenda fattuale, i ricorsi – che possono essere trattati congiuntamente, essendo i relativi motivi per larga parte sovrapponibili – sono infondati.
Muovendo dal possesso della qualifica soggettiva (terzo motivo del ricorso di COGNOME e secondo motivo del ricorso di COGNOME), ricorrono tutti i requisiti di cui all’art. 358 cod. pen.
2.1. Non vi è, infatti, alcun dubbio – profilo nemmeno contestato dai ricorrenti – in ordine al fatto che la società “RAGIONE_SOCIALE” svolgesse un’attivit definibile come pubblico RAGIONE_SOCIALEo, in quanto concessionaria del Comune di Chieti preposta alla riscossione di tributi pubblici, tra l’altro, per le utenze relative forniture idriche, RAGIONE_SOCIALEo rilevante specificamente in questa sede (art. 358, comma 1, cod. pen.).
2.2. Alla deduzione secondo cui gli imputati erano tuttavia preposti a compiti meramente esecutivi (come tali, esclusi dall’area concettuale del pubblico RAGIONE_SOCIALEo, ai sensi dell’art. 358, comma 2, ult. parte), la Corte d’appello ha replicato come, per contro, dall’istruttoria dibattimentale fosse emerso che gli stessi gestivano in maniera autonoma le pratiche legate all’RAGIONE_SOCIALE (volture, allacci, informazioni).
Più diffusamente, già la sentenza di primo grado aveva d’altronde chiarito che questo era il compito principale degli imputati e che il ricevimento dei clienti allo sportello era, invece, eventuale, verificandosi, soprattutto nel caso di COGNOME, soltanto in caso di particolare affluenza di pubblico.
Infondato è, conseguentemente, anche il rilievo difensivo per cui i ricorrenti avrebbero svolto un’attività suscettibile di essere totalmente automatizzata (situazione nella quale si sarebbe, per contro, potuto escludere la ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 358 cod. pen., come chiarito da questa Corte in Sez. 6, n. 20127 del 30/04/2025, Casertano, Rv. 288089).
Confermata la configurabilità della qualifica soggettiva in capo ai ricorrenti, va esaminata la qualificazione della vicenda storica in termini di peculato (art. 314 cod. pen.), piuttosto che di truffa aggravata (artt. 640, 61, n. 9, cod. pen.).
3.1. I ricorrenti invocano la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata dall’abuso di poteri o dalla violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione va individuato nel rapporto tra possesso e artifizi e raggiri che, nel primo caso, sono finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res già nella sua disponibilità in ragione dell’ufficio o RAGIONE_SOCIALEo ricoperto, mentre, nel secondo caso, hanno lo scopo di procurare al soggetto agente il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, di cui non ha la disponibilità (Sez. 6, n. 24096 del 13/03/2025, Tasselli, Rv. 288297).
3.2. Quello descritto da ultimo nella massima richiamata non è, tuttavia, il caso in oggetto.
È vero che, come dedotto da entrambi i ricorrenti (secondo motivo del ricorso di COGNOME e terzo motivo del ricorso di COGNOME), da un punto di vista strettamente fattuale, essi acquisivano le somme – che, per regolamento interno dell’ente, non avrebbero potuto essere pagate in contanti dagli utenti – falsamente dichiarando che i dispositivi del pagamento “pos” erano indisponibili perché non funzionanti.
Tuttavia, deve ritenersi che l’obbligo, invalso presso l’ente concessionario, di accettare pagamenti soltanto mediante “pos” derivasse da una consuetudine organizzativa meramente “interna”, e che la prassi – concretata dal regolamento dell’ente in una sorta di linea guida ad uso dei dipendenti – non potesse essere imposta, all’esterno, alla clientela la quale, di riflesso, manteneva il diritto d effettuare il pagamento in qualunque modalità. Dunque, anche in contanti.
In altri termini, in una prospettiva squisitamente giuridica, resta del tutto indifferente la modalità con cui veniva effettuato il pagamento delle utenze e, correlativamente, perde il senso di “artifizio penalmente rilevante” il comportamento menzognero dei ricorrenti, volto ad indurre negli utenti il convincimento del non funzionamento del “pos”.
A ragione, pertanto, i Giudici di primo grado – pretermettendo questo passaggio – si erano concentrati sul fatto che l’appropriazione da parte degli imputati fosse avvenuta «dopo l’acquisizione del denaro – che non veniva riversato all’ente, finendo invece nelle tasche degli imputati – sborsato in buona fede dagli ignari utenti per debenze pienamente lecite», sul punto, essendo il caso di precisare che, per espresso disposto dell’art. 314 cod. pen. (la cui formulazione, già con la riforma del 1990, ricomprese in un’unica fattispecie di peculato anche la “malversazione ai danni di privato”, originariamente prevista dal Codice Rocco), il peculato ha ad oggetto denaro (o beni) «altrui», e quindi anche dei privati, o ,I purché ovviamente si tratti di pecunia di spettanza pubblica, in quanto – come nel caso in oggetto – versata quale corrispettivo dell’erogazione dei RAGIONE_SOCIALE pubblici.
“
Altrettanto a ragione, la Corte d’appello, nel vestire il fatto di qualificazione giuridica, ha invocato il principio secondo cui, in tema di peculato, quando una prestazione in denaro sia dovuta in favore della pubblica amministrazione, le modalità della consegna non rilevano ai fini dell’acquisizione al patrimonio dell’ente pubblico, con la conseguenza che, qualora il pubblico agente, dopo avere ricevuto direttamente la relativa somma in ragione della sua funzione istituzionale, se ne appropri ancor prima di riversarla nelle casse dell’ente, commette il reato di peculato e non invece quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9), cod. pen., né quello di appropriazione indebita (Sez. 6, n. 21986 del 21/03/2023, P., Rv. 285638, in un caso di appropriazione, da parte di una dirigente amministrativa dei RAGIONE_SOCIALE scolastici, di somme versate in contante dalle famiglie degli alunni a titolo di contributo per viaggi di istruzione e coperture assicurative).
Tale principio di diritto è perfettamente calzante nel caso in esame, non potendosi dubitare che i ricorrenti avessero ricevuto il pagamento proprio in ragione del loro RAGIONE_SOCIALEo istituzionale.
Né, a tal fine, rileva la circostanza che i ricorrenti avessero violato le disposizioni interne dell’ente (relative al divieto, nei termini precisati, di riceve denaro in contanti) o il fatto che fossero normalmente addetti a compiti diversi dalla riscossione dei pagamenti per le utenze.
In tema di peculato, questa Corte ha infatti avuto occasione di chiarire che il possesso qualificato dalla ragione d’ufficio o di RAGIONE_SOCIALEo è non solo quello rientrante nella specifica competenza funzionale dell’agente, bensì – quanto al primo profilo – anche quello derivante dall’esercizio di fatto o arbitrario di funzioni (precisando che non rileva il mancato rispetto delle disposizioni organizzative dell’ufficio e che il reato non sussiste solo se il possesso sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso. Sez. 6, n. 11741 del 27/01/2023, Abbondanza, Rv. 284578) e – sotto il secondo profilo – quello che trova nella funzione o nel RAGIONE_SOCIALEo l’occasione del suo verificarsi (Sez. 6, n. 19424 del 03/05/2022, COGNOME, Rv. 283161). Principi, peraltro, di recente ribaditi dalla sentenza Sez. U. del 25/05/2025, Prete, non mass., nel corpo della motivazione medio tempore pubblicata.
3.3. Anche i motivi in esame devono essere, in conclusione, rigettati.
Inammissibile è poi il primo motivo del ricorso di COGNOME, teso a contestare la configurabilità di un concorso di persone con il coimputato, per difetto dell’elemento soggettivo.
Le deduzioni difensive sono, infatti, versate in fatto e tendono a sollecitare una – non consentita, in sede di legittimità – rivalutazione delle risultanze probatorie motivatamente apprezzate dalla Corte d’appello la quale, in modo te’
sintetico, ma senza incorrere in omissione e tantomeno in illogicità, ha ricordato: a) che una teste aveva dichiarato che, dopo il pagamento a mani di un dipendente, ricevette quietanza di pagamento dalla email personale di COGNOME; b) che un altro teste, anch’egli richiesto di pagare in contanti, addirittura aveva precisato di ricordare il cognome del suo interlocutore (appunto, “COGNOME“); c) che gli utenti avevano riconosciuto, in sede di individuazione fotografica, oltre che COGNOME, anche COGNOME.
Non potendo dubitarsi della sussistenza del dolo in capo al ricorrente, in modo ineccepibile la sentenza impugnata ha escluso, dunque, che COGNOME avesse tenuto un comportamento meramente passivo, e quindi qualificabile in termini di mera connivenza, ravvisandone, per contro, il concorso nel reato con il coimputato COGNOME, ai sensi dell’art. 110 cod. pen., in ragione della reciproca interazione delle condotte.
Vanno infine rigettati il primo motivo del ricorso di COGNOME e il quarto motivo del ricorso di COGNOME, sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte d’appello, che ha ritenuto potesse essere applicata, alla luce della modesta entità delle somme singolarmente apprese dagli utenti, la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., seppur espressamente richiamando l’art. 323-bis cod. pen., ha svolto una valutazione omnicomprensiva, ed ha evidenziato come gli imputati, oltre ad essersi appropriati delle somme in discorso, fossero contravvenuti al divieto espresso dell’ente di appartenenza di ricevere il denaro in contanti ed avessero inoltre falsificato per ben 264 volte i bollettini postali allo scopo di attestare falsamente agli utenti il buon esito dei loro pagamenti.
Con parole diverse, ha espresso un giudizio che, pur nella sua sintesi, dà conto della non nneritevolezza delle circostanze attenuanti, per l’insussistenza dei requisiti di cui ad entrambi i commi dell’art. 133 cod. pen.
6. I ricorsi devono essere, dunque, rigettati.
Consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 09 ottobre 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente