Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 45840 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 45840 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
De NOMECOGNOME nato a Castrovillari il 30/04/1962
avverso la sentenza del 27/03/2024 della Corte di appello di Catanzaro letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il difensore di NOME Domenico COGNOME ha proposto ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza emessa il 25 settembre 2020 dal Tribunale di Castrovillari, che, all’esito di giudizio ordinario, aveva dichiarato l’imputat responsabile dei reati di peculato e numerosi falsi materiali in atto pubblico per essersi appropriato, in qualità di custode nominato nella procedura di espropriazione immobiliare, promossa dal Banco di Napoli nei confronti del debitore COGNOME AngeloCOGNOME nelle more deceduto, della somma di 162.957,41 euro,
versando agli eredi del debitore solo la somma di 113.608,57 euro r anziché quella loro spettante di 276.565,98, residuata dalla vendita del bene immobile, dopo la distribuzione del ricavato ai creditori: appropriazione realizzata mediante la formazione di false autorizzazioni rilasciate dal Giudice dell’esecuzione.
Ne chiede l’annullamento per dieci motivi di seguito sinteticamente illustrati.
1.1. Con il primo motivo deduce la violazione degli artt. 16 cod. proc. pen. e dell’art. 81 cod. pen., 25 e 11 Cost. e la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di applicazione della continuazione.
Eccepisce la violazione delle norme che regolano la competenza per connessione, essendo pendente nella stessa fase a carico dell’imputato un altro processo per 6 episodi di peculato commessi in qualità di Presidente dell’Ordine dei Commercialisti in Castrovillari dal 2010 al 2015, mentre il procedimento in oggetto riguarda l’episodio commesso in Castrovillari il 30 ottobre 2013, sicché / trattandosi di condotte omogenee, commesse nello stesso arco temporale ed essendo quello in oggetto il reato più grave, quest’ultimo determina la competenza per connessione, altrimenti individuata secondo le ipotesi gradate previste dall’art.16 codice di rito. La questione, rigettata dal primo giudice, è stata riproposta al giudice di appello, che ha erroneamente fatto riferimento alla riunione o separazione dei procedimenti, senza affrontare il tema della competenza per connessione e della continuazione.
1.2. Con il secondo motivo eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 178 lett. a) codice di rito anche in relazione agli artt. 25 Cost. e 47 dell Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in tema di precostituzione del giudice con riferimento alla composizione del collegio di primo grado /per essere stato il procedimento definito da un collegio diverso da quello iniziale e integrato da un giudice onorario. L’eccezione è stata respinta in entrambi i gradi di giudizio, ma non è spiegato per quali ragioni fosse stato adottato il provvedimento di sostituzione del giudice professionale con il giudice onorario, specie considerando che il primo collegio aveva svolto attività istruttoria non rinnovata innanzi al nuovo.
1.3. Violazione dell’art. 192 codice di rito e plurimi vizi della motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato di peculato.
La sentenza di appello si limita a riprodurre la decisione di primo grado senza rispondere alle censure difensive e fonda l’affermazione di responsabilità sui documenti acquisiti, sulle dichiarazioni degli eredi COGNOME e del loro avvocato, ma nel corso del dibattimento solo COGNOME è stato sentito e ha reso dichiarazioni de relato, sicché non è dato comprendere da quale fonte la Corte territoriale abbia tratto le date e le circostanze indicate in motivazione / né come possa desumersi dalla mancata risposta alla richiesta di restituzione delle
somme dovute la sussistenza del reato di peculato. La Corte di appello non affronta né risolve le numerose censure difensive, riprodotte nel ricorso, riguardanti la credibilità delle persone offese, la circostanza che il legale delle parti offese non avesse mai chiesto il controllo del giudice dell’esecuzione sulle presunte inerzie del delegato, il riferimento ad atti di indagine sui quali non hanno deposto gli operanti, l’estraneità ai fatti del COGNOME, ricavabile dalla testimonianza del direttore di banca e dalla impossibilità di prelievi precedenti all’autorizzazione del Giudice dell’esecuzione in data 21 febbraio e 19 aprile 2013.
1.4. Con il quarto motivo deduce la violazione di legge e vizi della motivazione relativamente alla mancata qualificazione giuridica del reato di peculato in truffa aggravata con conseguente dichiarazione della prescrizione.
Si sostiene che il ricorrente non aveva il possesso e la disponibilità delle somme delle quali si sarebbe appropriato se non in forza dei falsi decreti autorizzativi, indispensabili per le progressive appropriazioni, altrimenti risultando i falsi del tutto inutili, e la contestazione dell’aggravante del nesso teleologico dimostra che, senza il falso, l’appropriazione non sarebbe stata possibile. Si sottolinea che il libretto è vincolato all’ordine del giudice e richiamata la giurisprudenza di legittimità sul discrimine tra le due fattispecie da individuarsi nelle modalità di acquisizione del possesso del denaro, si ribadisce che il ricorrente, mero delegato alla vendita e non custode, non aveva il possesso né materiale né giuridico del denaro depositato sul libretto bancario. Ritenuto, pertanto, ravvisabile solo il reato di truffa, l’azione penale è improcedibile per mancanza di querela; in ogni caso, avuto riguardo all’epoca delle singole appropriazioni, sarebbe maturato il termine massimo di prescrizione.
1.5. Con il quinto motivo denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata qualificazione del reato di peculato in peculato mediante profitto dell’errore altrui, ormai estinto per prescrizione, per non avere la Corte di appello considerato che il prelevamento delle somme è stato possibile per la scarsa diligenza e l’errore dei funzionari di banca, che non avevano avuto dubbi sulla genuinità della firma del soggetto che disponeva il prelievo e della legittimazione ad operare sul conto. Dalla qualificazione del reato ai sensi dell’art. 316 cod. pen. deriva l’estinzione per prescrizione delle singole truffe.
1.6. Con il sesto motivo si denuncia la violazione della legge processuale per mancata applicazione degli artt. 521-521-bis, 522 cod. proc. pen. f in relazione alla contestazione suppletiva del reato di cui agli art. 61 n.2, 81 e 476 cod. pen. per il quale è prevista l’udienza preliminare, nella specie non tenuta, nonché la mancanza di motivazione.
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L’eccezione difensiva è stata elusa dalla Corte di appello, limitatasi ad affermare che la contestazione riguardava reati connessi a quelli oggetto del giudizio, che erano state rispettate le prescrizioni in tema di deposito di atti dell’attività integrativa di indagine svolta dal P.m. e notificata la nuova contestazione all’imputato assente, sostanzialmente disapplicando l’art. 521-bis, comma 1, codice di rito.
1.7. Con il settimo motivo deduce la violazione degli artt. 438, comma 6ter, 442, 458, comma 2, cod. proc. pen. e la mancata assunzione di una prova decisiva per non avere la Corte di appello applicato la diminuente per il rito abbreviato condizionato alla derubricazione del reato di peculato in quello di truffa aggravata o di peculato mediante profitto dell’errore altrui e all’acquisizione degli atti specificamente indicati, non ammesso dal GUP e dal Tribunale, che non aveva chiarito per quale ragione fosse superflua l’acquisizione della documentazione richiesta dall’imputato, poi oggetto delle indagini integrative del P.m. e poste a base della contestazione suppletiva.
1.8. Con l’ottavo motivo denuncia la violazione degli artt. 76 e 482 cod. pen. e vizi della motivazione per avere la Corte di appello reso una motivazione manifestamente illogica, anche in relazione ai principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n.35814 del 28 marzo 2019 / con riferimento alle false autorizzazioni al prelievo del giudice dell’esecuzione / costituite da fotocopie di un documento originale inesistente. La Corte di appello si è limitata a recepire le argomentazioni del Tribunale sulle caratteristiche degli atti incompatibili con documenti aventi parvenza di atti originali e, quindi, inidonei a trarre in inganno i funzionari di banca.
1.9. Con il nono motivo deduce la violazione degli artt. 482-476 cod. pen., l’errata qualificazione giuridica della condotta e plurimi vizi della motivazione, non essendo le fotocopie di autorizzazioni inesistenti del Giudice dell’esecuzione atti di fede privilegiata. Avendo il Tribunale riconosciuto la corretta qualificazione dei fatti ai sensi degli art. 482-476 cod. pen., la Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare la prescrizione per decorrenza del termine massimo in assenza di atti interruttivi.
1.10. Con l’ultimo motivo denuncia la violazione degli artt. 132,133,317-bis cod. pen. e la mancanza di motivazione in relazione alla determinazione della pena ! per essersi la Corte di appello limitata a ritenere adeguato il trattamento sanzionatorio alla gravità dei fatti, ritenendo erroneamente non formulati motivi di appello con i quali, invece, si richiedeva l’eliminazione dell’aumento per la continuazione per l’esclusione del reato satellite, la diminuente per il rito e il beneficio della sospensione condizionale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato, ai limiti della inammissibilità f nella misura in cui ripropone ed alterna motivi processuali e di merito, replicando censure respinte sin dal primo grado con motivazione corretta nonché riproponendo la tesi della insussistenza del peculato per essere configurabile il reato di truffa aggravata, disattesa con valutazione conforme dai giudici di merito e con motivazioni, che si saldano ed integrano, atteso che la sentenza impugnata rimanda alla motivazione della sentenza di primo grado, più ampia e puntuale, che dà conto delle prove assunte in dibattimento e contiene una più dettagliata ricostruzione dei fatti.
In ordine logico è preliminare l’esame delle questioni processuali formulate dal ricorrente.
2.1. Il primo motivo è inammissibile, in quanto diretto a sollecitare la riunione di due procedimenti pendenti a carico dello stesso imputato per il medesimo titolo di reato nella stessa fase dinanzi a giudici diversi dello stesso ufficio giudiziario per connessione derivante, nella prospettazione difensiva, dalla continuazione tra i reati: istanza, invece, respinta sia dal GUP che dal Tribunale per mancanza dei presupposti.
Correttamente la Corte di appello ha ritenuto inammissibile la censura del rigetto dell’istanza, non essendo impugnabili i provvedimenti di riunione o separazione dei procedimenti, in quanto meramente ordinatori (Sez. 3, n.37378 del 09/07/2015, COGNOME, Rv. 265088) 1 né potendo generare incompatibilità o violazioni dei principi che regolano la competenza. In proposito, si è affermato che nella ipotesi in cui il giudice abbia respinto la richiesta di riunione di più procedimenti, ritenendo non sussistente il vincolo della continuazione tra i rispettivi reati, la sentenza che definisce il giudizio non può essere impugnata con ricorso per cassazione sotto il profilo della mancata applicazione dell’istituto della continuazione, in quanto la natura ordinatoria dei provvedimenti in tema di riunione comporta che questi siano sottratti ad impugnazione poiché può sempre chiedersi al giudice dell’esecuzione di applicare la continuazione tra i reati, ai sensi dell’art.671 cod. proc. pen., non ostandovi la sentenza del giudice di merito che, proprio per la mancata riunione dei processi, non ha potuto pronunciare sulla sussistenza dell’unico disegno criminoso (Sez. 3, n. 39952 del 03/10/2006, COGNOME e altri, Rv. 235496; conf. Sez. 1, n. 4794 del 28/01/1997, COGNOME, Rv. 207579).
L’obiezione difensiva secondo la quale i giudici di merito non avrebbero correttamente inteso il motivo centrato sulla competenza per connessione tenta di spostare il fuoco della censura su tale tema /senza considerare che è
preliminare l’accertamento e la verifica della esistenza della continuazione tra i reati, nella specie correttamente esclusa dai giudici di merito, non essendo sufficienti gli elementi dedotti dal ricorrente, quali l’omogeneità dei reati, la contiguità spazio-temporale e l’identità della spinta a delinquere, ma necessaria l’unicità del disegno criminoso, che postula l’attuazione di un programma preventivamente ideato e voluto, nella specie non ravvisato tra condotte commesse dal ricorrente in qualità diverse, in contesti diversi e con modalità differenti (come da ordinanze in atti).
2.2. Inammissibile è anche il secondo motivo.
L’eccepita violazione del giudice naturale per mancata specificazione del provvedimento di sostituzione del giudice professionale con quello onorario nonché della precostituzione ed immutabilità del giudice per essere il processo iniziato dinanzi ad un collegio che aveva svolto attività istruttoria non rinnovata dal nuovo collegio, è manifestamente infondata sia alla luce del contenuto dell’ordinanza emessa dal Tribunale all’udienza del 25 novembre 2020 con richiamo alle tabelle del Tribunale, che prevedevano la presenza del G.O.T. quale componente del secondo collegio, sia del motivo di appello, che individuava l’attività istruttoria svolta dal precedente collegio nel rigetto della questione della competenza per connessione e della continuazione (pag. 10 appello): decisioni queste che, come già detto, hanno natura meramente processuale, priva di valutazione di merito sulla fondatezza dell’accusa né risulta fosse stata richiesta la rinnovazione delle prove assunte con specificazione delle ragioni che la imponevano, secondo l’orientamento di questa Corte (Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019, PG c/ COGNOME, Rv. 276754-02).
L’eccezione è stata respinta dalla Corte di appello con corretta motivazione, non essendo la integrazione del collegio in qualità di supplente da parte di un giudice onorario causa di nullità e non incidendo sulle condizioni di capacità del giudice. È stato, infatti, affermato che l’integrazione del collegio del Tribunale da parte di un giudice onorario non viola l’art. 43-bis del R.D. del 30 gennaio 1941, n. 12, che si riferisce all’esercizio delle funzioni del tribunale in composizione monocratica, né è causa di nullità processuale, atteso che detta previsione normativa introduce un mero criterio organizzativo di ripartizione dei procedimenti tra i giudici ordinari e quelli onorari (Sez. 2, n. 26834 del 23/03/2018, PG in proc. Trovato e altri, Rv. 272941; Sez. 5, n. 47999 del 27/05/2016, De Curtis, Rv. 268465) 1 senza alcuna incidenza sulla capacità del giudice (Sez.3, n. 21772 del 16/02/2011, M., Rv. 250373).
2.3. Anche il sesto motivo è manifestamente infondato, risultando corretta la procedura di contestazione suppletiva del reato concorrente di falso in atto pubblico all’esito di attività integrativa di indagine, depositata in udienza dal P.m., e della disposta notificazione del verbale di udienza, contenente la
contestazione del reato connesso e l’attestazione dell’avvenuto deposito dei documenti contestati come falsi, all’imputato assente, posto così in condizioni di avere piena contezza dell’accusa e di difendersi.
2.4. Ugualmente è del tutto infondata la eccepita mancanza di motivazione in relazione all’art. 521-bis cod. proc. pen., alla quale già il giudice di primo grado aveva fornito completa e corretta risposta, escludendo che la nuova contestazione in dibattimento dovesse comportare la regressione alla fase dell’udienza preliminare, nel caso in cui questa -come nel caso di specie- si fosse già svolta per il reato originariamente contestato. E ciò in linea con l’orientamento di questa Corte, secondo il quale la disposizione dell’art. 521-bis, comma primo, cod. proc. pen., in virtù della quale se, in seguito ad una diversa definizione giuridica o alle contestazioni di una circostanza aggravante, un reato connesso a norma dell’art. 12, comma primo, lett. b), stesso codice, o un fatto nuovo, il reato risulta tra quelli attribuiti alla cognizione del tribunale pe cui è prevista l’udienza preliminare e questa non si è tenuta, il giudice dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ha carattere eccezionale, in quanto costituisce deroga al principio della non regressione del procedimento e, come tale, è di stretta interpretazione.
Ne consegue che ne è esclusa l’operatività allorché un reato concorrente sia contestato per la prima volta in dibattimento nell’ambito di un processo per il quale, in relazione agli altri reati, si è tenuta l’udienza preliminare ed è stato disposto il rinvio a giudizio (Sez.1, n. 25258 del 22/04/2004, conflitto di competenza in proc. Dotti, Rv. 228137). Lo stesso principio è affermato anche nel caso in cui la modifica della contestazione determini l’attribuzione del reato alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, dovendo in tal caso il giudice monocratico disporre la trasmissione degli atti in via orizzontale a quest’ultimo e non al pubblico ministero, anche quando, a seguito della diversa configurazione, il reato rientra fra quelli per cui è prevista l’udienza preliminare (Sez. 2, n. 42742 del 14/10/2015, Reci, Rv. 265249) e ciò in applicazione del principio di non regressione del procedimento, cui è improntato il sistema processuale per evidenti ragioni di speditezza e di economia processuale in forza del principio costituzionale della ragionevole durata del processo enunciato nel secondo comma dell’art. 111 Cost.
2.5. Inammissibile è anche il settimo motivo, con il quale si censura la mancata applicazione della riduzione di un terzo per il giudizio abbreviato, atteso che la richiesta di giudizio abbreviato, condizionato alla derubricazione del reato di peculato in truffa o in peculato mediante profitto dell’errore altrui e all’acquisizione di documentazione, era stata correttamente respinta perché esulava dalle previsioni del codice di rito, coincidendo la condizione posta con la
valutazione di merito sull’accusa e sulla diversa qualificazione del reato contestato.
Neppure può risultare fondata l’eccezione relativa alla mancata acquisizione della documentazione, che sarebbe stata poi prodotta dal P.m. e dimostrerebbe, quindi, la legittimità della originaria richiesta di accesso al rito, in quanto all’esit della contestazione suppletiva del reato concorrente di falso in atto pubblico l’imputato poteva optare per il rito alternativo solo per il nuovo reato e non per gli altri addebiti. Infatti, la contestazione suppletiva di un reato concorrente o di un nuovo reato non determina per l’imputato il recupero della facoltà di richiedere il rito abbreviato per tutti i reati originariamente contestati e rispetto ai quali egli aveva già consapevolmente lasciato spirare il termine per la relativa richiesta, avendo egli facoltà di richiedere il rito alternativo per la sola imputazione oggetto di modifica (Sez. 5, n. 3344 del 14/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 283996; Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. NOME e altri, Rv. 264627 che dichiarava manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che a seguito di contestazioni sopravvenute l’imputato possa chiedere l’ammissione al giudizio abbreviato per tutti i reati ascrittigli).
Sono invece, infondati i motivi attinenti al merito e alla qualificazione giuridica del fatto.
3.1. Il terzo motivo, con il quale si contesta la mancanza di prova del peculato e l’affermazione di responsabilità in base ad elementi probatori non acquisiti, è infondato alla luce della precisa ricostruzione della sequenza dei fatti contenuta nella sentenza di primo grado richiamata e della motivazione resa dalla Corte di appello (pag.7); peraltro, il ricorrente omette di considerare le testimonianze, la documentazione acquisita e, soprattutto, i riferimenti delle persone offese e del loro legale ai temporeggiamenti, alle giustificazioni e ai vari pretesti addotti dal ricorrente per giustificare il ritardo nella restituzione dell somme loro dovute nonché alla mancata opposizione al decreto ingiuntivo e alla tempistica delle restituzioni, affidate a falsi ordini di bonifico emessi anche dopo la chiusura del conto (v. sentenza di primo grado).
3.2. Il quarto e quinto motivo direttia contestare la qualificazione giuridica del fatto sono infondati, in quanto il ricorrente era custode del compendio pignorato, delegato alla vendita e detentore del libretto di deposito intestato alla procedura sul quale confluivano il ricavato della vendita degli immobili del debitore e gli interessi maturati, in tale qualità titolato e legittimato ad operare sul conto e, previa autorizzazione del giudice, a liquidare i creditori ed a restituire il residuo agli eredi del debitore, sicché aveva la disponibilità delle ,’
somme depositate in ragione del suo ufficio e le false autorizzazioni del giudice dell’esecuzione erano solo funzionali a mascherare la progressiva appropriazione indebita. Di ciò si ha conferma se si ha riguardo alla tempistica delle appropriazioni (precedenti ai provvedimenti del giudice del 21 febbraio 2013 e del 19 aprile 2013, rispettivamente di approvazione del piano di riparto e di autorizzazione alla liquidazione della somma spettante agli eredi del debitore), sicché ben si spiega la predisposizione dei falsi, necessari a giustificare e coprire l’appropriazione, consistendo l’elemento distintivo tra peculato e truffa aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen. nelle modalità del possesso o della disponibilità del denaro, oggetto di appropriazione, preesistenti per ragioni d’ufficio nel peculato, procurate con artifici e raggiri nella truffa (Sez. 6, n. 24334 del 04/05/2023, Verlezza, Rv. 284762; Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, COGNOME, Rv. 274282; Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, COGNOME, Rv. 273782). (Sez. 6, n. 14599 del 17/07/2013, COGNOME, Rv. 258687; Sez. 6, n. 41361 dell’11/07/2013, COGNOME).
Su analoghe argomentazioni si fonda il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità per distinguere la truffa dall’appropriazione di danaro nella disponibilità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio realizzata mediante falso: pertanto, se la falsa documentazione è funzionale esclusivamente a favorire il materiale passaggio del bene, del quale il pubblico funzionario abbia già la disponibilità giuridica, ricorrerà il peculato.
Va ricordato che il professionista delegato alle operazioni di vendita nelle esecuzioni immobiliari è un ausiliario del giudice dell’esecuzione in ragione dell’ampiezza della delega, che comprende tutte le operazioni nelle quali si articola la procedura di vendita fino alla predisposizione del decreto di trasferimento, e in tale qualità esercita una pubblica funzione giudiziaria, come da epoca risalente è stato ritenuto per il curatore fallimentare o per il commissionario alla vendita, assimilabile al professionista delegato ex art. 591bis cod. proc. civ.. E’ stato, infatti, affermato che “il commissionario per la vendita delle cose pignorate, in quanto esecutore delle disposizioni del giudice civile finalizzate alla conversione del compendio pignorato in equivalente pecuniario, esercita, quale ausiliario del giudice, una pubblica funzione giudiziaria e pertanto, riveste la qualità di pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 3872 del 14/10/2008, dep. 2009, Bisconti, Rv. 242440): ne discende l’instaurarsi di un diretto collegamento tra la funzione pubblica dell’agente ed il possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui, con la logica conseguenza che l’appropriazione da parte del pubblico ufficiale, che avrebbe dovuto, invece, in adempimento dei propri doveri, metterlo a disposizione della procedura esecutiva, integra la fattispecie incriminatrice di peculato (Sez. 6, n. 10886 del 28/11/2013, dep. 2014, Grasso Rv. 259495; nello stesso senso Sez. 6, n. 30976
del 10/07/2007, COGNOME, Rv. 237419 per il notaio delegato alla vendita), sicché è pacifica in giurisprudenza la configurabilità del delitto di peculato ogni volta che il professionista delegato alla vendita del compendio pignorato si appropri delle somme corrisposte dall’aggiudicatario. In applicazione degli stessi principi, ancora di recente, in un caso analogo è stata ritenuta corretta la qualificazione della condotta del delegato alla vendita dei beni esecutati come peculato (Sez. 6, n. 18886 del 22/01/2017, COGNOME n.m.).
A tale conclusione si giunge sulla scorta della premessa che, nell’ipotesi di delega delle operazioni di vendita ad un professionista, prevista dall’art. 591-bis cod. proc. civ., le somme che affluiscono sui libretti di deposito giudiziario (o sui conti correnti) intestati alla procedura non sono di spettanza dello Stato, bensì del creditore procedente o dell’aggiudicatario. Secondo la migliore dottrina processualcivilistica la somma ricavata dall’espropriazione forzata rimane sino all’approvazione ed esecuzione del progetto di distribuzione di proprietà del debitore, ma è gravata da un vincolo di indisponibilità, perché a disposizione della procedura esecutiva ed il delegato alla vendita ha l’obbligo di custodire, in virtù delle funzioni esercitate, tale somma e di dare tempestivo impulso alle operazioni successive, per far sì che la procedura esecutiva sia definita.
Ulteriore conferma della disponibilità delle somme da parte del professionista delegato alla vendita si trae dall’art. 591-bis, comma 3, n. 13, cod. proc. civ. che prevede espressamente che questi provveda “ad ordinare alla banca o all’ufficio postale la restituzione delle cauzioni e di ogni altra somma direttamente versata mediante bonifico o deposito intestato alla procedura dagli offerenti non risultati aggiudicatari”. Ne consegue che l’appropriazione di tali somme, di cui il professionista delegato, pubblico ufficiale, ha comunque la disponibilità in ragione dell’ufficio pubblico ricoperto, integra il reato di peculato, posto che il concetto di altruità del denaro cui fa riferimento l’art. 314 cod. pen. va inteso nel senso di assenza in capo al soggetto agente di qualsiasi diritto, reale o di obbligazione, che gli attribuisca una disponibilità del denaro e lo legittimi a compiere l’atto di appropriazione.
Alla luce di tale ricostruzione è solo suggestiva la tesi difensiva, che nega la configurabilità del reato per la necessità del delegato di ottenere l’autorizzazione del giudice, atteso che, come già detto, a fronte dei due provvedimenti del giudice dell’esecuzione in data 21 febbraio 2013 e 19 aprile 2013 – con i quali, rispettivamente, il giudice assegnava il ricavato della vendita ai creditori ad integrale soddisfo del credito- al netto delle somme prelevate per la cancellazione delle formalità pregiudizievoli e per i compensi del ricorrente-, disponendo che la somma residua venisse restituita agli eredi del debitore, ed autorizzava il prelievo della somma liquidata dal libretto intestato alla procedura e la restituzione agli eredi della somma residua-, il ricorrente aveva effettuato
progressivi prelievi precedenti e persino successivi all’estinzione del conto intestato alla procedura, esibendo false autorizzazioni e falsi bonifici persino al notaio ed è certo che la somma depositata sul conto e prelevata dal ricorrente non è mai stata versata agli eredi del debitore.
3.4. Facendo corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte, i giudici hanno respinto la richiesta di riqualificare il fatto ai sensi dell’art. 316 cod pen. per induzione in errore dei funzionari di banca mediante la esibizione di autorizzazioni false.
Il peculato mediante profitto dell’errore altrui, previsto dall’art. 316 cod. pen. è, infatti, configurabile solo nel caso in cui l’agente profitti d un errore preesistente, in cui il soggetto passivo spontaneamente versi, ed indipendente dalla condotta del soggetto attivo (Sez. 6, n. 6658 del 15/12/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 265959); ipotesi che non ricorre, pertanto, nel caso in cui l’errore sia stato, invece, determinato da tale condotta, ricadendo in tal caso l’appropriazione commessa dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio nella più ampia e generale previsione dell’art. 314 cod. pen., rispetto alla quale quella dell’art. 316 costituisce ipotesi marginale e residuale.
Infondato è anche il motivo relativo alla qualificazione giuridica dei reati di falso, atteso che nel caso di specie si è in presenza di falsificazioni realizzate utilizzando ed alterando un decreto del giudice dell’esecuzione, originale ed autentico, quale modello per realizzare i falsi decreti autorizzativi, come risulta dalla sentenza di primo grado, con conseguente inconsistenza delle obiezioni difensive. Tali atti sono risultati idonei a trarre in inganno i funzionari di banca tenuto conto del contesto, del titolo del ricorrente di custode e delegato alla vendita, nominato in una procedura esecutiva, ed unico abilitato ad operare sul conto nonché delle caratteristiche degli atti, riproduttivi di atti veri con intestazione, timbro, firma del giudice, come indicato in sentenza (pag.9), quindi, con requisiti idonei a farli sembrare originali (Sez. U, n. 35814 del 28/03/2019, PG c/Marcis, Rv. 276285).
Alla luce dei principi in precedenza indicati, l’imputato, in quanto legittimo detentore del libretto di deposito intestato alla procedura, aveva la disponibilità delle somme depositate, pur essendo la loro consegna subordinata alla verifica, meramente formale, del funzionario di banca in ordine alla sussistenza di un decreto autorizzativo, e nel caso di specie è emerso che l’istituto di credito accettava di norma delle semplici fotocopie.
Del tutto infondata è la prospettata riqualificazione dei falsi ai sensi degli artt. 476-482 cod. pen., a fronte della precisazione della Corte di appello, che ha ribadito la corretta qualificazione ai sensi dell’art. 476 cod. pen., essendo,
peraltro, l’art. 482 cod. pen. applicabile alla falsificazione commessa dal privato o dal pubblico ufficiale fuori dall’esercizio delle sue funzioni, ipotesi, questa, che all’evidenza non ricorre nel caso di specie. Parimenti è del tutto erronea la tesi dell’intervenuta prescrizione dei reati di falso, sia perché presuppone una qualificazione esclusa per la ragione appena esposta, sia perché non tiene conto delle numerose sospensioni verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, risultanti dalla sentenza del Tribunale.
E’, infine, inammissibile l’ultimo motivo relativo alla determinazione della pena, genericamente formulato in appello ed ancorato a presupposti insussistenti, quali la riqualificazione dei reati di falso e la loro estinzione per prescrizione oltre alla riduzione per il rito, non ammesso, sicché non è censurabile la valutazione della Corte di appello sul punto e sulla ritenuta adeguatezza della pena irrogata dal primo giudice, proporzionata alla gravità dei fatti.
Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, 24 ottobre 2024
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