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Peculato continuato: la Cassazione fa chiarezza

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per peculato continuato a carico di un commissario liquidatore che si era appropriato di ingenti somme di due società in liquidazione coatta. L’appello, basato sulla presunta errata qualificazione del reato e sulla mancanza di motivazione, è stato dichiarato inammissibile perché i motivi erano una mera ripetizione di quanto già deciso in appello e manifestamente infondati.

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Pubblicato il 9 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Peculato Continuato: La Cassazione sul Ruolo del Commissario Liquidatore

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, torna a pronunciarsi sul delitto di peculato continuato, offrendo importanti chiarimenti sui requisiti della condotta e sulla qualifica del soggetto attivo. Il caso riguarda un commissario liquidatore condannato per essersi appropriato di ingenti somme appartenenti a due società cooperative affidate alla sua gestione. La decisione ribadisce principi consolidati e dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato, ritenendolo manifestamente infondato.

I Fatti del Caso: L’Appropriazione dei Fondi

Un professionista, nominato dal Ministero competente come commissario per la liquidazione coatta amministrativa di due società cooperative, veniva accusato e condannato in primo e secondo grado per il reato di peculato continuato. Nello specifico, gli era stata contestata l’appropriazione di somme di denaro per un valore complessivo di poco inferiore a 400.000 euro, prelevate dai conti correnti delle società in liquidazione.

La Corte di Appello di Roma aveva confermato la condanna a cinque anni e otto mesi di reclusione, ritenendo provata la condotta illecita del commissario, che aveva agito in virtù dei poteri conferitigli dal suo ufficio.

I Motivi del Ricorso e la Difesa dell’Imputato

Il difensore del commissario ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre motivi principali:

1. Mancanza di motivazione: Si lamentava un vizio di motivazione della sentenza d’appello riguardo alla effettiva destinazione delle somme sottratte, sostenendo che non vi fosse stato un adeguato approfondimento probatorio.
2. Errata qualificazione giuridica: La difesa sosteneva che il reato dovesse essere qualificato come truffa aggravata e non come peculato. Tale tesi si fondava sulla circostanza che l’imputato non era mai stato iscritto all’albo dei commercialisti o dei consulenti del lavoro, ritenendo che ciò escludesse la sua qualifica di pubblico ufficiale.
3. Violazione delle norme sul reato continuato: Si contestava l’errata individuazione del reato più grave per il calcolo della pena base e la mancata determinazione distinta degli aumenti di pena per i reati satellite.

La Decisione della Cassazione sul peculato continuato

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, giudicandolo manifestamente infondato in ogni suo punto. I giudici hanno sottolineato come i motivi del ricorso non fossero altro che una mera riproposizione di argomentazioni già esaminate e respinte dalla Corte di Appello, senza una critica specifica e argomentata contro la decisione impugnata.

Le Motivazioni della Corte

La Corte ha smontato le tesi difensive con argomentazioni precise. In primo luogo, ha chiarito che per la configurazione del reato di peculato sono necessari tre elementi: una condotta di appropriazione o distrazione, l’altruità del bene e il possesso di tale bene per ragioni d’ufficio o servizio. L’accertamento del vantaggio finale per l’imputato è irrilevante, salvo i rari casi in cui l’agente dimostri di aver utilizzato le risorse per finalità istituzionali. Nel caso di specie, l’imputato si era limitato a prosciugare i conti correnti senza alcuna rendicontazione, integrando così pienamente la condotta distrattiva.

In secondo luogo, la Cassazione ha definito “del tutto irrilevante” la mancata iscrizione dell’imputato a un albo professionale. Ciò che conta, ai fini della qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, è la nomina formale a commissario liquidatore. Tale incarico gli ha conferito il potere e la disponibilità dei beni, elementi che fondano la responsabilità per peculato e non per truffa.

Infine, la Corte ha ritenuto corretta l’applicazione delle norme sul reato continuato da parte del giudice di merito, che aveva operato un unico aumento di pena per i vari episodi delittuosi, peraltro già riducendo la pena complessiva in seguito alla dichiarazione di prescrizione per alcune delle condotte più remote.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

La sentenza ribadisce con fermezza la responsabilità penale di chi, investito di una funzione pubblica come quella del commissario liquidatore, abusa dei propri poteri per appropriarsi di beni non suoi. La decisione sottolinea due principi fondamentali: la qualifica di pubblico ufficiale deriva dall’investitura formale e dalle funzioni esercitate, non dall’appartenenza a un ordine professionale. Inoltre, per il peculato, la prova dell’appropriazione è sufficiente a integrare il reato, senza che sia necessario indagare sull’utilizzo finale del denaro sottratto, a meno che non emergano finalità istituzionali. La dichiarazione di inammissibilità per manifesta infondatezza serve anche da monito contro i ricorsi meramente ripetitivi e dilatori, che non apportano elementi di critica costruttiva alle sentenze dei giudici di merito.

Per configurare il reato di peculato, è necessario dimostrare il vantaggio finale ottenuto dall’imputato?
No, per la consumazione del reato di peculato è sufficiente l’esistenza di una condotta antigiuridica di appropriazione o distrazione. L’accertamento del vantaggio che l’imputato intende conseguire è generalmente irrilevante, a meno che non si dimostri che l’azione sia stata compiuta per finalità istituzionali.

La mancata iscrizione a un albo professionale può escludere il reato di peculato per un commissario liquidatore?
No, la mancata iscrizione a un albo professionale è una circostanza del tutto irrilevante. Ciò che rileva è l’avvenuta nomina formale a commissario liquidatore, che conferisce la qualifica soggettiva richiesta dalla norma (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) e il possesso dei beni per ragione del proprio ufficio.

Quando un ricorso in Cassazione viene considerato una mera ripetizione dei motivi d’appello?
Un ricorso viene considerato tale quando si limita a riproporre le stesse censure già dedotte in sede di merito e puntualmente respinte dalla Corte territoriale, senza sviluppare una critica argomentata e specifica avverso la pronuncia oggetto di ricorso. In tali casi, il ricorso è ritenuto non specifico e, di conseguenza, inammissibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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