Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 27423 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 27423 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 03/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME NOME COGNOME nato a Vibo Valentia il 18/8/1978 avverso la sentenza del 4/10/2024 emessa dalla Corte di appello di Roma visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; letta la memoria dell’Avvocato NOME COGNOME difensore della parte civile Regione Lazio, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso e la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Roma confermava la condanna del ricorrente in relazione al reato di peculato, commesso mediante l’appropriazione dei fondi assegnati al Gruppo consiliare dell’Italia dei Valori, di cui il ricorrente rivestiva
qualifica di capogruppo; veniva dichiarata la prescrizione delle condotte commesse in epoca antecedente alla data del 12 gennaio 2011, ritenendosi che il termine massimo, computando i periodi di sospensione, fosse pari a 13 anni, otto mesi e 22 giorni. Veniva, altresì, confermata la confisca del profitto del reato, quantificato in complessivi €515.380 (di cui €390.990 oggetto di bonifici bancari pervenuti sul conto del ricorrente ed €124.390 oggetto di prelievi in contante), nonché la condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile Regione Lazio.
Nell’interesse del ricorrente sono stati formulati quattro motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo, si deduce la violazione di legge in relazione alla ritenuta natura pubblicistica dei gruppi consiliari e della conseguente qualificazione delle condotte appropriative in termini di peculato.
Sostiene la difesa che la qualifica del Presidente del gruppo consiliare muta a seconda dell’attività in concreto svolta, dovendosi ritenere che, ove questi agisca al di fuori delle attribuzioni consiliari, verrebbe meno qualsivoglia qualifica pubblicistica.
A supporto di tale tesi, si adduce il fatto che i Gruppi consiliari devono ritenersi associazioni non riconosciute e, in quanto tali, soggetti esclusivamente al regime privatistico. Peraltro, prima della modifica normativa introdotta con il dl. n.174 del 2012, non era previsto uno specifico obbligo di rendicontazione, essendo sufficiente l’invio al CO.RE.00 di una relazione dettagliata sull’impiego dei fondi erogati, che non presupponeva neppure la compilazione e conservazione della documentazione giustificativa dei rimborsi ottenuti.
In assenza di un obbligo di rendicontazione, risulterebbe del tutto giustificabile la mancata conservazione di documentazione attestante le spese sostenute, fermo restando che queste dovevano tutte ritenersi riferite ad attività aventi “finalità POI itiche”.
Il ricorrente lamenta di aver fornito adeguate giustificazioni in sede di interrogatorio e con il deposito di memorie, ritenute inattendibili dai giudici di merito che, invero, avevano attuato una non consentita inversione dell’onere della prova, ritenendo che la mancata dimostrazione della causale sottesa all’utilizzo del denaro comportasse necessariamente la prova della sua appropriazione per finalità privatistiche.
2.2. Con il secondo motivo, si deduce l’erroneo calcolo del termine di prescrizione, indicato dalla Corte di appello in complessi anni 13, mesi 8 e giorni 22 (12 anni e 6 mesi aumentati di 14 mesi e 22 giorni).
La difesa ha elencato analiticamente i periodi di sospensione, in tal modo giungendo a quantificare il periodo di sospensione in 9 mesi e 23 giorni, con la
conseguenza che il termine massimo di prescrizione doveva essere quantificato in 13 anni, 3 mesi e 23 giorni e, quindi, all’esito del giudizio di appello (definito con sentenza del 4.10.2024) si sarebbe dovuta dichiarare la prescrizione dei fatti commessi in epoca antecedente all’H giugno 2011, con conseguente ulteriore riduzione della pena irrogata.
2.3. Con il terzo motivo, si censura la violazione dell’art. 322 ter cod. pen. e il vizio di motivazione, relativamente alla quantificazione del profitto confiscabile.
In particolare, si assume che dall’importo complessivo si sarebbe dovuta detrarre la somma di €7.500, pari ai bonifici che l’imputato aveva riversato sui conti del Gruppo consiliare.
Un’ulteriore decurtazione – pari a €124.390 – si sarebbe dovuta disporre in relazione ai versamenti operati sul conto corrente dell’imputato e ritenuti provento dei prelievi in contanti effettuati sui conti corrente del Gruppo, non sussistendo la prova della sicura provenienza illecita del denaro.
Infine, si sarebbe dovuto detrarre dal profitto del reato i bonifici effettuati mediante l’impiego dei conti del gruppo che, tuttavia, recavano l’indicazione della causale.
2.4. Con il quarto motivo si contesta la qualifica di persona offesa rectius di persona danneggiata dal reato – attribuita alla Regione Lazio, posto che i fonti asseritamente oggetto di appropriazione appartenevano al Gruppo consiliare.
In relazione, inoltre, al danno all’immagine, si deduce che tale voce risarcitoria non poteva essere riconosciuta nell’ambito del giudizio penale, essendo il suo accertamento di spettanza della giurisdizione contabile.
Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, non tenendo conto della consolidata giurisprudenza che ha ampiamente chiarito la natura giuridica dei gruppi consiliari e la fonte dell’obbligo di rendiconto.
È GLYPH pacificamente GLYPH riconosciuto, GLYPH infatti, GLYPH che GLYPH il GLYPH Presidente COGNOME di un gruppo consiliare regionale riveste la qualifica di pubblico ufficiale, in quanto, nel suo ruolo, partecipa alle modalità progettuali ed attuative della funzione legislativa regionale, nonchè alla procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contributi erogati al gruppo. (Sez.6, n. 49976 del 3/12/2012, COGNOME, Rv.
254033; Sez.6, n. 14580 del 2/2/2017, COGNOME, Rv. 269536; Sez.6, n. 16765 del 18/11/2019, dep.2020, Rv. 279418; Sez.6, n. 11341 del 17/11/2022, dep.2023, COGNOME, Rv. 284577-02).
Peraltro, ad analoga conclusione è giunta anche la giurisprudenza civile che, con una pronuncia resa a Sezioni unite, ha affermato principi del tutto collimanti con quelli elaborati in sede penale, precisando che la gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali è soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità erariale, sia perché a tali gruppi – pur in presenza di elementi di natura privatistica connessi alla loro matrice partitica va riconosciuta natura essenzialmente pubblicistica, in quanto strumentale al funzionamento dell’organo assembleare da essi svolta, sia in ragione dell’origine pubblica delle risorse e della definizione legale del loro scopo (Cass.civ., Sez.U, n. 5589 del 28/2/2020, Rv. 657218).
Le sentenze di merito hanno fatto corretta applicazione di tale principio, a fronte del quale il ricorso si limita a riproporre una diversa qualificazione giuridica senza confrontarsi con le ragioni sottese alla riconosciuta natura pubblicistica dei Gruppi consiliari e, conseguentemente, alla qualifica soggettiva del Presidente degli stessi.
2.1. Anche le censure aventi ad oggetto la presunta insussistenza dell’obbligo di rendicontazione, al fine di dimostrare la finalità pubblicistica dell’impiego delle somme, sono manifestamente infondate.
Il ricorrente si limita a riproporre una ricostruzione della normativa letta in modo parziale e formalistico, senza tener conto dell’elaborazione giurisprudenziale che ha concordemente individuato nella provenienza pubblica dei fondi e nella previsione di vincoli di destinazione i presupposti dai quali desumere l’esistenza dell’obbligo, in capo a Presidente e Consiglieri dei Gruppi, di dare conto delle finalità per le quali le somme chieste a rimborso sono state impiegate.
Sul tema è sufficiente richiamare il principio secondo cui in tema di peculato commesso mediante appropriazione dei fondi destinati ai gruppi consiliari regionali, sussiste un intrinseco dovere di rendicontazione dell’uso del danaro attribuito dalla Regione, in conformità alle regole di gestione di tali fondi ed alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi, a prescindere da una specifica previsione normativa in tal senso, così come stabilito dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 39 del 2014. In quella fattispecie, la Corte ha ritenuto irrilevante, ai fini dell integrazione del reato, che la norma che ha previsto espressamente l’obbligo di rendicontazione sia stata introdotta in epoca posteriore al fatto, trattandosi di una esplicitazione del dovere già esistente di dar conto dell’utilizzo dei fondi pubblici
(Sez.6, n. 16765 del 18/11/2019, dep.2020, COGNOME, Rv. 279418-03).
2.2. Il ricorrente ha ulteriormente dedotto di aver dimostrato l’impiego per “finalità politiche” dei fondi prelevati, il che escluderebbe la sussistenza del reato di peculato.
Si tratta di una doglianza che attiene alla ricostruzione del fatto e che non si confronta con le puntuali e specifiche considerazioni svolte nella sentenza di appello e, in maniera ancor più dettagliata, in quella di primo grado.
In quest’ultima pronuncia, si è dato atto che i fondi venivano prelevati in contanti o mediante bonifici mediante i quali il denaro veniva fatto transitare sui conti del ricorrente. Anche nel caso in cui i prelievi erano effettuati mediante bonifico, l’indicazione della causale era del tutto generica, spesso riportando la sola dicitura “rimborso”.
A fronte di tale genericità, il ricorrente ha fornito delle spiegazioni che sono state ritenute del tutto vaghe e generiche, sostanzialmente affermando che i prelievi erano riferiti a spese per attività “politica”.
L’impostazione difensiva, pertanto, è intrinsecamente fallace e tale da non consentire in alcun modo di ritenere manifestamente illogica o contraddittoria la sentenza impugnata, soprattutto ove si consideri che le somme messe a disposizione dei gruppi consiliari non erano genericamente destinate a sopperire ai costi dell’attività politica, bensì dovevano coprire le spese di aggiornamento e studio, nonché l’attività “dei gruppi” in relazione alla promozione svolta nell’ambito della consiliatura e con riferimento all’elaborazione di progetti e proposte di legge (art. 3, I.reg. Lazio n. 6 del 1973).
I giudici di merito hanno affermato la penale responsabilità dell’imputato non già sulla base della mera omessa rendicontazione, ma sul presupposto che non sia stata in alcun modo positivamente accertato lo svolgimento di quell’attività – di stretta pertinenza dei gruppi : e non assimilabile alla più ampia attività politica dei singoli componenti – che avrebbe legittimato il rimborso delle spese.
Deve, pertanto, ribadirsi che la prova del reato non può desumersi sulla base della mera omessa o insufficiente rendicontazione delle spese di rappresentanza sostenute da un consigliere regionale, essendo necessario l’accertamento dell’illecita appropriazione delle somme, salvo restando che l’assoluta mancanza di allegazioni o l’inosservanza di uno specifico obbligo di giustificazione documentale della spesa, tanto più se destinato a proiettarsi su un connesso rendiconto, può costituire elemento indiziario dell’avvenuta interversione del danaro pubblico (Sez.6, n. 11001 del 15/11/2019, dep.2020, COGNOME, Rv. 27880903; Sez.6, n. 3664 del 26/11/2021, dep.2022, COGNOME, Rv. 282879).
3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La Corte di appello ha indicato il termine di prescrizione in complessi anni 13, mesi 8 e giorni 22 (12 anni e 6 mesi aumentati di 14 mesi e 22 giorni).
La difesa ha elencato analiticamente i periodi di sospensione, in tal modo giungendo a quantificare il periodo di sospensione in 9 mesi e 23 giorni, con la conseguenza che il termine massimo di prescrizione doveva essere quantificato in 13 anni, 3 mesi e 23 giorni e, quindi, all’esito del giudizio di appello (definito con sentenza del 4.10.2024) si sarebbe dovuta dichiarare la prescrizione dei fatti commessi in epoca antecedente all’il giugno 2011.
La difesa non tiene conto dell’ulteriore sospensione dei termini pari a 7 mesi e gg 17 relativi alla fase processuale svoltasi dinanzi al GUP, indicata nel fascicolo della Corte di appello e verificata sulla base dei verbali di udienza del 23.5.19, 8.7.2019 e 12.12.2019.
Una volta sommato tale ulteriore periodo di sospensione a quello ritenuto anche dalla difesa del ricorrente, ne consegue che la Corte di appello ha correttamente limitato la dichiarazione di prescrizione ai fatti antecedenti all’il gennaio 2011.
Il quarto motivo è generico, posto che il ricorrente si limita a dedurre l’erroneo calcolo del profitto confiscabile, senza formulare specifiche doglianze.
In particolare, per quanto attiene all’importo di €7500 che, si assume, sarebbe stato restituito dal ricorrente, non si specifica in alcun modo se lo stesso sia stato o meno decurtato in sede di calcolo complessivo del profitto. Nel ricorso, infatti, si dà espressamente atto che il versamento del suddetto importo era indicato nell’informativa della Guardia di Finanza, senza specificare se dello stesso si sia tenuto conto nella complessiva determinazione del profitto. Invero, posto che la quantificazione del profitto è avvenuta sulla base del conteggio predisposto dalla Guardia di Finanza e dandosi atto che gli inquirenti avevano riconosciuto l’avvenuto rimborso, si sarebbe dovuto specificare se, a fronte di tale riconoscimento, l’importo fosse stato erroneamente ricompreso nel profitto complessivo.
Le ulteriori censure mosse in ordine alla determinazione del profitto sono parimenti generiche e tendono, in buona sostanza, a riproporre la questione circa la riconducibilità dei prelievi in denaro e dei bonifici eseguiti senza causale o con causale generica all’attività del gruppo.
Una volta che si è ritenuta dimostrata la destinazione di tali importi a finalità esulanti da quelle specificamente contemplate e riferite all’attività del Gruppo consiliare, ne consegue la corretta determinazione del profitto.
L’ultimo motivo è manifestamente infondato.
Per quanto attiene alla riconoscimento della Regione Lazio quale soggetto danneggiato, si rileva che la tesi difensiva è manifestamente errata, nella misura in cui essendo i fondi attribuiti al Gruppo, solo tale soggetto poteva lamentare un danno.
Invero, i fondi sono di esclusiva pertinenza del Consiglio regionale che li mette a disposizione dei Gruppi nei limiti in cui questi ne dispongano legittimante, non essendo prevista una definitiva acquisizione in capo ai Gruppi.
4.1. Parimenti manifestamente infondata è la censura relativa alla possibilità di liquidare il danno all’immagine.
Il motivo parte dall’errato presupposto secondo cui i giudici di merito avrebbero già qualificato il tipo di danno risarcibile, ulteriore rispetto a quello derivante dall’obbligo restitutorio. Invero, le sentenze di primo e secondo grado si sono limitate a stabilire una provvisionale, rimettendo al giudice civile la determinazione dell’individuazione del danno subito dalla Regione Lazio e la sua quantificazione.
Sul punto, pertanto, deve ribadirsi che non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez.2, n. 44859 del 17/10/2019, COGNOME, Rv. 277773-02).
Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, il che preclude di tener conto dell’ulteriore decorso temporale ai finin del calcolo della prescrizione.
La dichiarazione di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Deve disporsi, inoltre, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di difesa sostenute, in questo grado di giudizio, dalla parte civile Regione Lazio.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Regione Lazio che liquida
in complessivi euro 2.120,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 3 giugno 2025
Il Consigliere estensore