Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 26269 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 26269 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME, nato il DATA_NASCITA a Napoli avverso la sentenza del 20/10/2023 della Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; uditi gli AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME, i quali hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Napoli confermava la condanna per peculato (art. 314 cod. pen.) di NOME perché, in qualità di amministratore giudiziario RAGIONE_SOCIALE per l’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e
RAGIONE_SOCIALE alla criminalità organizzata, si appropriava di una somma (originariamente quantificata in 26.794,82 euro, poi decurtata di 7.000 euro) di cui era in possesso in ragione del suo ufficio e proveniente dai ricavi della procedura di gestione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE nell’ambito di un procedimento di prevenzione, somma utilizzata per sostenere spese non autorizzate né autorizzabili da parte dell’ente teste citato.
Nella specie gli veniva addebitato di aver, con il denaro della procedura:
effettuato pagamenti a propri collaboratori;
pagato carburante, pedaggi autostradali, parcheggi, taxi, alberghi ecc.;
retribuito servizi resi da una società di consulenza direttamente a lui riconducibile;
offerto “regalie” per presunte prestazioni di procacciamento inquilini degli immobili gestiti nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria.
La Corte d’appello limitava, tuttavia, la confisca a 19.794,82 euro, disponendo la restituzione del residuo, pari a 7.000 euro, in favore dell’avente diritto individuato nell’amministratore giudiziario in carica della procedura.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME, per il tramite degli AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME, articolando i seguenti cinque motivi.
2.1. Violazione degli artt. 2-sexies, 2-septies, 2-octies e 2-nonies I. 31 maggio 1965, n. 575, in relazione al regime applicabile all’autorizzazione delle spese sostenute dall’amministratore giudiziario nello svolgimento dell’incarico.
Il Tribunale aveva argomentato come le spese oggetto dell’imputazione a carico di COGNOME dovessero essere considerate tutte di natura straordinaria e quindi assoggettate all’obbligo di preventiva autorizzazione: non tanto per l’oggetto, quanto perché si trattava di spese connesse all’attività di terzi cui l’amministratore giudiziario aveva delegato parte dell’attività di gestione. Secondo il Tribunale, infatti, i terzi avrebbero rivestito la qualità di veri e propri coadi dell’amministratore giudiziario, le cui spese avrebbero dovuto essere anticipate dall’amministratore stesso e poi richieste in rimborso in virtù di quanto previsto dall’art. 2-octies I. n. 575/1965 cit.
La Corte d’appello ha invece ritenuto che la questione non riguardasse la natura ordinaria o straordinaria delle spese sostenute, essendo l’autorizzazione preventiva sempre necessaria per la rappresentanza in giudizio e per il compimento di una serie di atti di natura dispositiva, che incidono sul patrimonio dell’impresa, modificandone o alterandone la consistenza.
Secondo tali Giudici, il regime della verifica preveni:iva dell’autorità istituzionale di riferimento (l’Autorità Giudiziaria, per la fase del sequestro
l’RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, per la fase della confisca) sarebbe cioè correlato non tanto alla natura degli atti compiuti dall’amministratore, quanto alla gestione della liquidità da parte dello stesso, poiché tale gestione influisce sulla consistenza delle risorse economico-finanziarie atte a preservare il bene e ad assicurare il perseguimento della finalità pubblica dell’amministrazione, che consiste nel depurarlo dagli elementi inquinanti della contaminazione mafiosa per restituirlo integro al libero mercato. Con la conseguenza che non sarebbe stata configurabile alcuna autonomia di spesa in capo all’amministratore giudiziario, che avrebbe necessitato sempre di preventiva autorizzazione.
In realtà, da una lettura corretta della disciplina che governa la materia della confisca di prevenzione non emerge alcun obbligo generale di autorizzazione (in rapporto, cioè, a qualunque movimentazione delle disponibilità liquide relative al patrimonio confiscato), tale autorizzazione essendo richiesta soltanto per gli atti di straordinaria amministrazione.
Infatti, l’art. 2-sexies, comma 1, ult. parte, I. 575/1965 cit. descriveva il compito dell’amministratore giudiziario come quello di provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE sequestrate anche nel corso degli eventuali giudizi di impugnazione, sotto la direzione del giudice delegato.
L’art. 2-septies I. cit. prevedeva che l’amministratore giudiziario non potesse stare in giudizio, né contrarre mutui, stipulare transazioni, compromessi fideiussioni, concedere ipoteche, alienare immobili e compiere altri atti di straordinaria amministrazione, anche a tutela dei diritti di terzi, senza autorizzazione scritta del giudice delegato.
Le due norme configuravano un potere generale di gestione ordinaria in capo all’amministratore giudiziario.
Per ciò che concerne specificamente il regime delle spese, poi, l’art. 2-octies I. cit. prevedeva che le spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE fossero sostenute dall’amministratore mediante prelevamento dalle somme da lui riscosse a qualunque titolo e, nell’ipotesi in cui dalla gestione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE non fosse ricavabile denaro sufficiente per il loro pagamento, che le stesse fossero anticipate dallo Stato, con diritto di recupero nei confronti del titolare del bene, in caso di revoca del sequestro.
Infine, l’art. 2-nonies I. cit., che disciplinava l’attività dell’amministratore giudiziario dopo la confisca, confermava il principio per cui le spese necessarie alla gestione dei RAGIONE_SOCIALE dovessero trovare, anzitutto, copertura nei ricavi della gestione medesima. Infatti, il comma 3 di tale disposizione disponeva che al rimborso delle spese e alla liquidazione dei compensi che non trovano copertura nelle risorse della
gestione, provvedesse il dirigente dell’RAGIONE_SOCIALE competente per territorio.
A completamento della disciplina, il d.m. 1 febbraio 1991, n. 293, nel disciplinare le “modalità da osservarsi per la documentazione delle operazioni effettuate e per il rendimento del conto da parte dell’amministratore dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE“, prevedeva (art. 2) che l’amministratore sostenesse le spese necessarie per la conservazione e l’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ai sensi dell’art. 2-octies, comma 1, I. cit. mediante utilizzo delle somme da lui apprese, riscosse o ricevute a qualsiasi titolo nella procedura, senza il deposito di cui all’art. 3 del presente decreto (secondo il quale le somme apprese, riscosse o ricevute a qualsiasi titolo dall’amministratore che non venissero usate per la conservazione e l’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE andavano depositate senza ritardo e comunque non oltre cinque giorni presso un ufficio postale o un istituto di credito indicato dal giudice delegato).
Infine, il d.m. 27 marzo 1990, recante disposizioni per la gestione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, provvedimento richiamato nella motivazione della sentenza impugnata, stabiliva (art. 4) che l’amministratore potesse provvedere in economia o a mezzo contratti stipulati a trattativa privata, previa autorizzazione dell’intendente d finanza, qualora la spesa superasse l’importo di dieci milioni, alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dei fabbricati: disposizione che, avendo riguardo ad una specifica tipologia di RAGIONE_SOCIALE, aveva senso soltanto ove si ritenesse che per gli atti di ordinaria amministrazione l’amministratore giudiziario avesse autonomia gestionale.
Da tale complesso di norme si evince, dunque, come in materia di confisca di prevenzione vigesse il principio per cui l’amministratore giudiziario poteva utilizzare, per le spese utili e necessari alla procedura, i proventi della gestione stessa mediante in modo diretto sicché, con riguardo agli atti di ordinaria amministrazione vi era una autonomia gestionale che si traduceva in un’autonomia di spesa.
È poi significativo che, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 06/09/2011, n. 159 la disciplina sia rimasta sostanzialmente invariata, essendo ancora previsto che le spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE siano sostenute dall’amministratore giudiziario mediante prelevamento delle somme riscosse a qualunque titolo ovvero sequestrate, confiscate o comunque nella disponibilità del procedimento (art. 42).
Soltanto con l’emanazione delle circolari del 07/02/2011, n. 1483 e del 18/03/2013, n. 5798 da parte dell’RAGIONE_SOCIALE, subentrata nella gestione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, si è subordinato, per la prima volta, il rimborso delle spese sostenute dall’amministratore giudiziario all’allegazione ai rendiconti annuali delle note
autorizzative delle relative spese, senza distinguere in base alla tipologia delle stesse.
Sono queste le uniche fonti che fanno un chiaro riferimento alla necessità per l’amministratore giudiziario di munirsi, per qualsiasi movimentazione relativa ai fondi della procedura, delle note di autorizzazione alle spese.
Le disposizioni contenute nelle circolari amministrative, come quelle emanate dalla RAGIONE_SOCIALE, sono peraltro di rango subordinato rispetto a quelle legislative, sicché la circostanza che abbiano previsto un regime diverso e più stringente rispetto alla legge non esclude che a questa debba farsi riferimento per determinare se una certa attività o spesa necessitasse o meno di preventiva autorizzazione da parte dell’autorità competente, costituendo principio consolidato che le circolari amministrative non hanno valore normativo e non assumono carattere vincolante per i soggetti destinatari dei relativi atti applicativi (Consiglio di St 14/07/2022, n. 5986).
È quindi censurabile la motivazione della Corte d’appello dove, nel ricostruire la disciplina applicabile all’attività dell’imputato, ha attribuito rilievo decisivo disposizioni delle suddette circolari, incorrendo in una palese violazione delle norme della I. 575/1965 cit.
La Corte d’appello ha, inoltre, argomentato la responsabilità dell’imputato anche sulla base di Sez. 6, n. 33472 del 22/06/2011, Siciliano, Rv. 250904, la quale ha negato la sussistenza di un fondamento normativo al potere di autoliquidazione dei compensi, spese e rimborsi dell’amministratore giudiziario. Tale precedente non era però pertinente, riguardando un ben diverso caso in cui l’amministratore si era autoliquidato acconti, peraltro ingenti, sul compenso.
2.2. Violazione della legge penale in relazione agli artt. 24, comma 2, Cost.; 27, comma 2, Cost.; 314 e 323 cod. pen.; artt. 192, 496, comma 1, e 533, comma 1, cod. proc. pen.; 2-sexies, 2 septies, 2-octies, 2 nonies della I. 575/1965; art. 8 D.M. 27/03/1990 e alla circolare RAGIONE_SOCIALE n. 5792 del 18/03/2013.
Con riferimento al pagamento delle fatture riguardanti le prestazioni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, nonché di quelle concernenti la società “RAGIONE_SOCIALE” e il pagamento a NOME COGNOME, la Corte d’appello ha ritenuto l’assenza di dati documentali non superata dall’apporto informativo delle testimonianze che avevano confermato il reale svolgimento dell’attività contabile. Infatti, ha valorizzato il solo dato formale, prescindendo da ogni considerazione sull’effettività, sull’utilità o addirittura sulla necessità delle prestazioni remuner e, quindi, da ogni questione sull’inerenza o meno delle spese alle finalità della procedura, in contrasto con la richiamata disciplina di cui alla I. 575/1965 cit.
D’altronde, le norme procedimentali richiamate dalla Corte d’appello mirano a proteggere plurimi interessi tra cui, in ordine di importanza, quello a che le
somme nella disponibilità del procedimento non siano oggetto di appropriazione o distrazione per sostenere spese estranee alle finalità di conservazione e amministrazione di RAGIONE_SOCIALE o, addirittura, fittizie, e che tali risorse siano impiegate termini di efficienza, efficacia ed imparzialità. E la necessità di inquadrare natura e oggetto delle prestazioni in una prospettiva teleologica implica la necessità di definire l’interesse leso nel caso concreto.
La Corte d’appello ritiene poi integrato il reato quando le somme siano utilizzate per finalità non strettamente corrispondenti alle specifiche attribuzioni competenze istituzionali del soggetto agente, operando una confusione di piani.
Infatti, nel caso di specie, non si discute della necessità o meno di autorizzazioni in rapporto al conferimento di incarichi e alla liquidazione dei relativ compensi, bensì del fatto che, all’interno della procedura, gli amministratori dispongono del denaro per le finalità della stessa, senza che possa argomentarsi dalla mera violazione formale del procedimento.
Quanto, poi, alla presunta autoliquidazione del compenso da parte dei ricorrente, risulta agli atti l’esistenza di fatture per servizi di collaborazione gestione dell’amministrazione giudiziaria emesse dalla società “RAGIONE_SOCIALE” di cui il COGNOME è socio.
Essendo stato l’incarico conferito verbalmente, in assenza di autorizzazione dell’RAGIONE_SOCIALE, la Corte d’appello ha reputato ininfluente la natura dell’attivit prestata in favore della procedura.
La tesi dei Giudici dell’appello è, infatti, che l’imputato abbia provveduto indirettamente, attraverso la partecipazione agli utili della società, a retribuirsi p il proprio incarico di amministratore, sebbene la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che l’attività di predisposizione dei bilanci e di consulenza fiscale attie ad incarichi non immediatamente collegati allo svolgimento dell’attività di un amministratore giudiziario, sicuramente necessari per il regolare funzionamento delle società.
L’indiretto vantaggio, al più, atterrebbe ad un’attività distinta rispetto proprio incarico di amministratore giudiziario della procedura, investendo, semmai, il differente tema del conflitto di interessi (Sez. 6, n. 27187 del 13/04/2018, COGNOME, Rv. 273583), sicché è stato precisato, più di recente (Sez. 6, n. 36496 del 30/09/2020, Vasta, Rv. 280295) che il reato non è ravvisabile quando l’interesse privato dell’agente e quello istituzionale siano sincroni e sovrapponibili.
Ancora, con riferimento al momento consumativo del reato, nonostante si parli di spese effettuate pacificamente nel 2012, il Tribunale riteneva che l’interversione del possesso si fosse verificata il 23/07/2013, quando l’RAGIONE_SOCIALE chiedeva a Pennella di «ritrasmettere i rendiconti di gestione dell’anno 2012
opportunamente rettificati dalle operazioni in uscita realizzate in assenza di specifica autorizzazione», con ciò erroneamente posticipando la consumazione dell’unica condotta per come contestata, fatta coincidere con la mancata restituzione.
La Corte di appello, sua volta, ha ulteriormente postrcipato il momento consumativo al 20/06/2017, data in cui l’RAGIONE_SOCIALE intimava ulteriormente l’adempimento delle prescrizioni contenute nella nota precedentemente citata.
Si darebbe, quindi, violazione della legge penale sostanziale, essendo il peculato un reato istantaneo che si consuma nel momento le risorse fuoriescono dalle casse dell’ente pubblico.
Quanto alle “spese varie”, esse costituirebbero sottrazione soltanto perché non autorizzate dall’RAGIONE_SOCIALE, difettanti di valutazione di congruità da parte dell’RAGIONE_SOCIALE.
Vi sono ricondotte quelle per il trattamento spettante all’amministratore per il trasferimento fuori dalla residenza, presumendosi la necessità di specifica autorizzazione in base all’art. 2-septies, comma 4, I. 575/1965 cit. e a quanto disposto dalla circolare RAGIONE_SOCIALE del 18/03/2013, n. 5792.
Tuttavia, precisato che le spese di trasferimento fuori residenza non avrebbero potuto essere assimilate a spese di trasferta, resta il fatto che la disposizione della I. n. 575/1965 è stata indicata per errore, dal momento che le uniche norme che si riferiscono al rimborso sono l’art. 2-octies’ comma 3, la quale si limita a prevedere che tali spese siano inserite nel conto della gestione, e il successivo art. 2-octies, comma 4, che rimette il rimborso delle spese di trasferimento fuori dalla residenza alla liquidazione del tribunale, con decreto motivato, su relazione del giudice delegato.
Tale norma è peraltro applicabile alla sola fase del sequestro di prevenzione: infatti, l’amministrazione, prima del decreto di confisca, avviene sotto la direzione del giudice delegato e, dopo l’emanazione dello stesso, compete invece all’amministratore di cui all’art. 2-sexies, sotto la direzione dell’RAGIONE_SOCIALE.
D’altronde, è lo stesso art. 2-nonies, comma 3, I. 575/1965 cit. a richiamare l’art. 2-octies, in quanto applicabile.
In realtà, come ricordato, la preventiva autorizzazione è richiesta soltanto con la citata circolare dell’RAGIONE_SOCIALE del 18/03/2013, tuttavia successiva alla realizzazione delle spese in contestazione, effettuate tutte nel 2012.
La Corte d’appello, in mancanza di elementi comprovanti l’inerenza delle spese alle finalità della procedura, ha negato rilievo alla tesi difensiva incentrata sul collegamento di tali spese ai continui sopralluoghi che la consistenza immobiliare del patrimonio amministrato imponeva di eseguire, in tal modo, tuttavia, sovvertendo gli oneri probatori del processo penale.
La stessa censura vale per le affermazioni della sentenza secondo cui non si vede in base a quale parametro normativo e di buona amministrazione sarebbero state necessarie o utili spese mai sottoposte al vaglio preventivo dell’autorità, non essendo tale vaglio surrogabile da apprezzamenti soggettivi ed ipotetici.
Per contro, secondo l’insegnamento di legittimità, non può configurarsi peculato in virtù del dato formale del mancato rispetto delle procedure previste per l’effettuazione delle spese nell’interesse dell’amministrato, richiedendosi, invece, che tali spese siano state realizzate per finalità estranee all’interesse dello stesso (Sez. 6, n. 29617 del 19/05/2016, Piermarini, Rv. 267795), sicché le spese non avrebbero potuto essere considerate estranee alle finalità della procedura solo per l’assenza di formale, preventiva autorizzazione.
Quanto all’elemento soggettivo, esso è stato desunto dalla premessa che l’imputato era un qualificato professionista, dotato di consolidata esperienza, il che escluderebbe che possa essere incorso in errore, trascurando però che il dolo del peculato richiede un quid pluris rispetto alla volontà di agire in presenza di violazioni di legge.
D’altronde, il palese inserimento nei rendiconti annuali presentati per la successiva appropriazione, con causali parimenti palesi, per come si evince dai titoli giustificativi allegati e riportati in sentenza, avrebbe dovuto indurre a ritene che, nel disporre di quelle somme, l’imputato, al di là di ogni questione in ordine all’error iuris sulle attribuzioni, non avesse agito con il dolo di sottrarle alle finalità della procedura.
2.3. Vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità penale per la fattispecie di peculato.
La Corte di appello si è richiamata ad affermazioni di questa Corte di cassazione secondo cui la prova dell’effettiva appropriazione può essere surrogata, sul piano indiziario, da situazioni altamente significative, quali l’assoluta mancanza di allegazioni, l’inosservanza dell’obbligo di giustificazione documentale della spesa e l’assenza di giustificazioni anche in sede processuale delle spese sostenute. Tuttavia, fa poi riferimento a una serie di operazioni rendicontate dall’amministratore.
Si potrebbe ritenere che l’imputato abbia rendicontato le spese ma non abbia allegato la documentazione giustificativa, se, in altra parte della motivazione, non risultasse come ogni singola spesa fosse stata, invece, corredata da fatture, scontrini, ricevute, con l’indicazione delle causali.
Potrebbe allora opinarsi che la mancanza di documentazione fosse fondata sui rilievi dell’RAGIONE_SOCIALE in ordine al fatto che le voci di spesa non erano state corredate dalla relativa previa autorizzazione. In tal modo, si tornerebbe però al discorso sulla mancanza di quest’ultima e quindi sulla natura formale dell’addebito.
Quanto alla giustificazione delle spese, la Corte d’appello ritiene che l’assenza delle prescritte autorizzazioni non sia superabile dalle testimonianze di coloro i quali avevano dichiarato di aver effettivamente svolto le attività remunerate e, del pari, con riferimento al collegamento delle spese di trasferta e per i continui sopralluoghi ove erano ubicati gli immobili amministrati, reputa ininfluente tale collegamento ravvisando l’interesse del ricorrente a «fare cassa» attraverso la riscossione degli affitti e delle quote condominiali relative agli immobili di Caste! Volturno.
Tuttavia, proprio quell’interesse a «fare cassa» dimostra l’inerenza delle spese le finalità di una procedura di cui quegli immobili costituivano numericamente la parte più consistente; quel «fare cassa» altro non era, in altri termini, se non il contenuto dell’incarico dell’amministrazione.
La sentenza valorizza poi la mancata restituzione degli importi prelevati, essendosi già consumato e ritenuto sussistente il reato con l’utilizzazione delle somme, ma per tal via incorre in una motivazione illogica e contraddittoria.
Manifestamente illogico è inoltre il ragionamento della Corte d’appello dove, nel rapportarsi al principio per cui i soci della società “RAGIONE_SOCIALE” venivano retribuiti per il lavoro effettivamente svolto, il COGNOME si sarebbe retribuito per l’attività effettivamente svolta e consistita nell’aver conferito incarico di collaborazione alla stessa società di cui era socio.
Ancora, manifestamente illogica è l’assimilazione tra liquidazione dei compensi per l’attività di consulenza fiscale della società ed autoliquidazione del proprio compenso di amministratore, evincendosi dallo stesso capo di imputazione come l’autoliquidazione dei compensi di amministratore non costituisca condotta né contestata né accertata.
Nel contempo, quando argomenta la sussistenza dell’elemento soggettivo, la Corte d’appello indica alcuni indici fattuali, tra cui riferimento ad un disciplinare incarico, che è però successivo ai fatti contestati (del 2015), e circolari anch’esse ancora non emanate (una soltanto è antecedente ai fatti in contestazione: la n. 1483 del 07/02/2011).
Frutto di travisamento probatorio è, poi, il giudizio sulla credibilità del test COGNOME, condomino amministratore del Parco di Castel Volturno, dove sono situate le trentaquattro villette confiscate, cui l’imputato avrebbe concesso un prestito di 7000 euro con soldi della procedura, laddove, invece, quel prestito fu concesso al condominio, come risulta dall’informativa della Guardia di Finanza del 29 gennaio 2019.
2.4. Vizio di motivazione in relazione agli artt. 133 e 323-bis cod. pen.
La Corte d’appello, nel valutare la gravità del reato ai fini della determinazione della pena, non tiene in debito conto del fatto che tra le spese oggetto di
contestazione non figurasse il prestito in favore del condominio di Castel Volturno. Tale elemento ha indotto i Giudici di secondo grado a ridurre la confisca per equivalente dell’importo di 7000 euro, ma avrebbe dovuto rilevare anche ai fini della determinazione della pena, incidendo sia sulla gravità del reato, e cioè sull’offesa agli interessi patrimoniali della pubblica amministrazione, sia sulla reiterazione delle condotte.
Inoltre, non ha tenuto conto del fatto che, all’epoca dei fatti in contestazione, il delitto di peculato era punito con la pena base da tre a dieci anni di reclusione, per poi essere modificato nel minimo con I. del 06/11/2012, n. 190, circostanza suscettibile di riverberarsi anche sull’applicazione della circostanza attenuante della particolare te novità di cui all’art. 323-bis cod. pen.
2.5. Violazione dell’art. 323-ter cod. pen. per abnormità della statuizione in punto di confisca.
Nel disporre la confisca di 26.794,82 euro quale profitto del reato, il Tribunale ha fornito una lista che si articolava in nove punti, chiarendo tuttavia che le spese di cui ai punti 8) e 9) non risultavano oggetto della contestazione mossa dall’accusa.
Premesso che il punto 8) riguardava il citato prestito al condominio di 7000 euro, la Corte di appello ha disposto la riduzione dell’importo della confisca, con conseguente restituzione dei 7000 euro all’avente diritto, e precisato che si trattava di «somma che, ancorché fuori contestazione, risulta dagli accertamenti esperiti sottratta conto di gestione della procedura».
Dal punto di vista del diritto sostanziale, la confisca è per valore, quindi disposta in un’ottica sanzionatoria e non ripristinatoria o risarcitoria, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte d’appello là dove ha disposto la restituzione all’avente diritto in violazione di legge.
Dal punto di vista del diritto processuale, il dispositivo che prevede la restituzione del residuo è viziato da abnormità, essendo stata la restituzione disposta in assenza di costituzione di parte civile dell’ente cui fa capo la procedura di confisca.
A ciò si aggiunga che quelle spese non costituivano oggetto di contestazione, come rilevato dalla stessa Corte di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di seguito esposte.
Il ricorrente, amministratore nell’ambito di un procedimento di prevenzione, aveva il compito di gestire il patrimonio immobiliare di quattro società confiscate, costituito da trentaquattro villette locate a Castel Volturno, due appartamenti a Roma e un immobile in provincia di Frosinone.
La contestazione riguardava fatti commessi nell’anno 2012 e fino al 17/09/2013, data di revoca dell’incarico.
Sia i Giudici di primo grado, sia quelli secondo grado hanno ritenuto applicabile la I. n. 575/1965, in quanto la confisca risaliva ad epoca di molto antecedente rispetto al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia).
In particolare, la sentenza impugnata richiama l’art. 117 d.lgs. n. 159/2011 cit. il quale, nel dettare la disciplina transitoria, escludeva ll’applicazione delle proprie disposizioni (libro I), a favore delle norme previgenti, ai procedimenti nei quali, alla data della sua entrata in vigore, fosse stata già formulata la proposta di applicazione della misura di prevenzione come, appunto, nel caso di specie.
Ciò premesso, la Corte d’appello ricostruisce in modo puntuale la disciplina in oggetto, ritenendo come dal quadro normativo riferibile ai fatti in contestazione si evincesse l’obbligo di ottenere, comunque e sempre, la previa autorizzazione da parte dell’RAGIONE_SOCIALE e, poi, l’obbligo di rendicoritare le spese compiute: entrambi disattesi nel caso di specie.
Specifica, inoltre, come il controllo dell’autorità istituzionale si giustificasse e continui a giustificarsi – in un’ottica di razionalizzazione e impiego efficiente dell risorse economico-finanziarie destinate all’amministrazione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE o RAGIONE_SOCIALE, che esclude ogni possibilità di autoliquidazione per l’amministratore ed impone limiti alla sua autonomia di spesa.
In particolare, poi, quanto al rimborso delle spese sostenute dalle collaboratrici NOME COGNOME e NOME COGNOME per complessivi 2890 euro, rileva come, ai sensi dell’art. 35 comma 4, d.lgs., n. 159/2011 cit., la figura del coadiutore afferisce a soggetti dotati di particolari competenze tecniche, e che, per converso, non risultano provate le specifiche competenze professionali delle collaboratrici né le ragioni che all’epoca dei fatti ne giustificavano l’avvalimento da parte dell’amministratore giudiziario, il quale avrebbe determinato il compenso in modo autonomo e quindi illegittimo.
Aggiunge che l’assenza di tali dati documentali non può essere sopperita dalle testimonianze di chi ha confermato l’effettivo svolgimento delle attività.
In rapporto ai pagamenti alla società “RAGIONE_SOCIALE“, partecipata al 55% dall’imputato e alla quale era stato attribuito l’incarico di svolgere servizi di collaborazione e gestione amministrazione giudiziaria per un importo complessivo di 10.890 euro, la Corte d’appello ritiene che l’imputato si sarebbe avvalso dello
schermo di una società di capitali per percepire una somma a titolo di compenso, in relazione a servizi di collaborazione svolti dagli altri soci sulla base di incaric meramente verbali, ancora una volta in assenza di autorizzazione dell’agenzia, e considera, quindi, influente la deposizione del teste che aveva riferito come gli incarichi fossero stati realmente svolti.
Quanto alle spese per colazioni, pranzi, cene, relative a trasferte risultanti da 20 scontrini per complessivi 533,80 euro, riconducibili a due persone di cui non risultavano le generalità, nella sentenza afferma che tali spese esulavano dall’attività di gestione trattamento spettante all’amministratore per il trasferimento fuori dalla residenza previsto dall’art. 2-septíes, comma 4, I. n. 575/1965 cit., anch’esso suscettibile di controllo da parte dell’autorità istituzionale di riferimento.
Considerazioni analoghe sono svolte in ordine alle spese di pernottamento in alberghi (che ammontavano a complessivi 1404 euro), di carburante (per complessivi 1766,02 euro), di taxi (per 93,50 euro): relative a trasferte parimenti non autorizzate. Irrilevante è ritenuta la testimonianza del condomino amministratore del parco all’interno del quale si trovavano gli appartamenti che il COGNOME aveva affermato di aver spesso visitato allo scopo di verificare la consistenza del patrimonio amministrato, e ciò perché il suo narrato sarebbe stato palesemente generico e comunque non attendibile, avendo tale persona ricevuto dall’imputato un prestito di 7000 euro. Anche sul punto si adduce il mancato rispetto della circolare n. 5792 del 18/03/2013.
Ingiustificate sono considerate, infine, le varie regalie per prestazioni di procacciamento degli inquilini (compensi mensili per complessivi 1720 euro relativamente al periodo che va da febbraio a dicembre del 2012, nonché 920 euro per attività non meglio precisata in favore della procedura riguardante rimborso di “spese vive” per l’ospitalità in sede dei vari accessi effettuati nonché per rimborso per assistenza alla procedura per la ricezione dei fitti, per la disponibilità dell casa, per gli incontri con gli inquilini e le varie riunioni che hanno ad oggetto la gestione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE).
La Corte d’appello precisa pure che, dopo la revoca del mandato, intervenuta nell’agosto 2013, il COGNOME chiese la liquidazione delle proprie competenze professionali per un importo tra un minimo di 408.000 euro e un massimo di 535.000 euro e che, su ricorso dello stesso, si instaurò un contenzioso amministrativo avverso il provvedimento di revoca. Tale contenzioso esitava in senso favorevole per l’amministrazione, la quale trasmetteva, allora, e cioè nel 2017, per conoscenza la nota con cui intimava l’immediato adempimento delle prescrizioni contenute in quella precedente del 2013 anche alla Procura della Repubblica. Dal che la nascita del procedimento penale.
Quanto all’elemento soggettivo, i Giudici di secondo grado ne inferiscono la prova dalla comprovata professionalità ed esperienza del Pennella, escludendo che, in ragione di tali caratteristiche, l’imputato potesse essere incorso nell’errore di ritenere che si trattasse di mere irregolarità formali, e desumendone, per contro, la dimostrazione che egli intendesse disporre delle somme contra legem.
Di seguito saranno evidenziati i punti della sentenza impugnata, pur ampiamente argomentata, suscettibili di incidere negativamente, per un verso, sulla tenuta logica dell’argomentazione, per altro verso, sulla stessa sussistenza del reato.
Una prima criticità concerne l’individuazione del momento consumativo del reato e, a monte, la conformazione stessa della condotta assurta a rilevanza penale.
I Giudici di primo grado avevano, infatti, espressamente ipotizzato che la mancata restituzione delle somme indebitamente prelevate dal conto della procedura concretizzasse – e non, semplicemente, indiziasse – quella interversio possessionis di cui consta il delitto di peculato, così delineando quest’ultimo nella forma “per ritenzione”.
La Corte d’appello, invece, ha affermato che «i prelievi di somme dal conto di gestione della procedura per compensi e spese non autorizzate dall’RAGIONE_SOCIALE, compiuti in violazione delle norme specificamente previste da leggi, regolamenti, disposizioni circolari e dall’atto di nomina, la sottrazione degli importi e le final pubbliche dell’amministrazione giudiziaria, la destinazione di essi a vantaggio proprio e di terzi a lui legati, la mancata restituzione a fronte dei rilie dell’intimazione di adempimento dell’RAGIONE_SOCIALE del 23/07/2013 e del 20/06/2017, concorrono ad integrare in capo al pubblico ufficiale agente la condotta appropriativa tipica del delitto di peculato». Ha accomunato, quindi, condotte attive – la realizzazione di spese in assenza di autorizzazione preventiva e rendicontazione successiva, su cui peraltro, come si dirà, molto insiste la motivazione – e condotte omissive, rappresentate dalla mancata restituzione delle somme su richiesta dell’RAGIONE_SOCIALE. Con la conseguenza di configurare un’unica indistinta macro-ipotesi appropriativa, la cui consumazione parrebbe fissata alla data del giugno 2017.
Al di là di tali incertezze, è però un altro aspetto, logicamente prioritario ed assorbente, a viziare la sentenza impugnata, imponendone la cassazione.
Tale aspetto afferisce alla configurabilità stessa del delitto di peculato nel caso in oggetto.
6.1. Come anticipato, infatti, la motivazione della Corte d”appello, pur ampia e dettagliata, verte quasi esclusivamente sulla ricostruzione della disciplina vigente al momento della confisca (pertanto, vincolante per l’amministratore allora in carica) nell’intento di dimostrare che tutte le spese dell’amministratore incaricato della gestione dei RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE nell’ambito dalla procedura di prevenzione dovessero essere sottoposte a preventivo controllo e a successiva rendicontazione.
Quindi, assume – al di là di sporadiche affermazioni contrarie GLYPH una coincidenza pressoché automatica tra violazione degli obblighi di previa autorizzazione e successiva rendicontazione, da una parte, e “appropriazione”, dall’altra, motivando – in termini più o meno espliciti — come la natura extraistituzionale delle spese discenda, appunto, da siffatta violazione.
6.2. Tale equivalenza, tuttavia, non sussiste.
La «appropriazione» che configura la condotta del delitto di cui all’art. 314 cod. pen. deve essere, infatti, connotata in un senso invariabilmente sostanziale ed è un elemento di fattispecie soggettivamente connotato.
Deve, cioè, consistere in una interversione del possesso caratterizzata dall’intento di fare del denaro o delle cose mobili un uso egoistico-personalistico (nelle ipotesi di “appropriazione” in senso stretto) oppure in una deviazione dalle finalità istituzionali del bene: purché, però, contrastante con gli interessi dell Pubblica Amministrazione e, come tale, pur sempre sintomatica di una “privatizzazione” nell’uso della res (soltanto in questo caso, infatti, una sottocategoria della condotta distrattiva, per il resto da tempo espunta, con I. 26 aprile 1990, n. 86, dalla fattispecie di peculato, continua a rifluire nell’area del “appropriazione”).
In altre parole, connaturato all’elemento oggettivo, prima ancora che al dolo, del peculato è quell’agire uti dominus in assenza del quale la condotta (comunque polimorfa, potendo assumere forma omissiva – come nel caso della ritenzione – o attiva ed variamente atteggiarsi, in tale ipotesi, ad incameramento, elargizione, sperpero, distruzione dei RAGIONE_SOCIALE ecc.) resterebbe anche ectoplasmatica e cioè inespressiva di un preciso disvalore penale (disvalore che deve essere, incidentalmente, particolarmente accentuato, se si pone mente ai rigorosi editti sanzionatori di cui all’art. 314 cod. pen.): in ultima analisi, atipica.
6.3. Se è così, a poco rileva definire quale sia l’ambito di operatività dei suddetti obblighi di previa autorizzazione e successiva rendicontazione (sul punto, non vi è accordo tra le due sentenze di merito).
Non interessa, cioè, stabilire se tali obblighi si irradino su tutti gli esbor inerenti alla procedura di prevenzione, come ritiene la sentenza impugnata,
oppure soltanto su quelli di straordinaria amministrazione, come invece valutato in primo grado.
Di conseguenza, nemmeno vale definire la natura delle singole spese effettuate dall’imputato (in tale chiave sono per larga parte declinate le deduzioni difensive).
Anche assumendo che qualunque spesa inerente alla procedura dovesse essere autorizzata e/o rendicontata, resterebbe, a monte, la considerazione che come illustrato – non necessariamente, al cospetto della violazione della disciplina di cui alla I. n. 575/1965 o anche di quella del successivo d.lgs. n. 159/2011 (e della normativa attuativa di contorno), sarebbe, per ciò solo, integrata la fattispecie di peculato, l’accertamento della responsabilità penale rispondendo a logiche diverse di natura più “sostanziale”. Sicché non trova giustificazione la sentenza impugnata là dove (come, espressamente, a p. 17) esclude che necessarie ed utili siano le sole spese sottoposte al vaglio preventivo dell’autorità preposta a tale valutazione tecnico-discrezionale.
Sul punto è, tuttavia, opportuna una precisazione.
6.4. Sono nel giusto i Giudici dell’appello quando affermano (p. 18) che la violazione della normativa che disciplina le forme delle spese nell’ambito di qualunque procedura pubblica può assumere valore sintomatico della destinazione extraistituzionale e privatistica delle stesse.
Di mero “indizio”, tuttavia, si tratta: e, come tale, andrebbe corroborato da altri elementi, come nel caso di realizzazione di spese esorbitanti dal punto di vista qualitativo (della loro natura) oppure quantitativo (del loro numero e del loro importo).
Resterebbe cioè ferma la necessità di dimostrare, secondo gli standard probatori penalistici – e cioè oltre ogni ragionevole dubbio -, l’avvenuta interversione del possesso nei termini sopra descritti, la quale trascende la mera inosservanza di obblighi formali.
6.5. Ciò precisato e riconosciuto altresì come, in passato, la giurisprudenza di questa Corte si sia non di rado attestata su posizioni ispirate a particolare rigore, deve rilevarsi che, argomentando in senso diverso, finirebbe con l’essere violata una serie di principi generali e di principi di diritto che – sebbene in materie diverse da quelle per cui si procede – hanno, di recente, conformato in modo univoco il diverso e più garantista orientamento di legittimità sul delitto di peculato (tra l tante, Sez. 6, n. 11341 del 17/11/2022, dep. 2023, Buscemi, 284577; Sez. 6, n. 40595 del 02/03/2021, COGNOME NOME, Rv. 282742; Sez. 6, n. 21166 del 09/04/2019, COGNOME, Rv. 27607; Sez. 6, n. 38245 del 03/07/2019, COGNOME, Rv. 276712 Sez. 6, n. 29887 del 27/03/2019, COGNOME, Rv. 277408).
In particolare, si confonderebbe la responsabilità contabile o amministrativa con quella penale che, come noto, rappresenta una extrema ratio.
Si attuerebbe un’intollerabile inversione dell’onere della prova, sollevando l’accusa dal compito di dimostrare la natura extraistituzionale delle spese che si assumono configurare l’appropriazione del peculato, inferendo tale caratteristica dal mero mancato rispetto della procedura.
Si violerebbero, in definitiva, i principi di offensività e di tipicità del d penale che obbligano i giudici ad interpretare le fattispecie astratte in un senso costituzionalmente orientato, in modo da attribuire rilievo alle sole condotte lesive dell’interesse – in questo caso, al buon andamento della pubblica amministrazione, cui anche quello patrimoniale è subordinato (art. 97 Cost.) – tutelato dalle incriminazioni.
Tornando, allora, al caso in oggetto, deve concludersi come dalla sentenza impugnata non emerga la realizzazione, da parte del NOME, di una condotta uti dominus nei termini che sono stati chiariti in precedenza, concentrandosi essa soltanto sulla ricostruzione della disciplina delle spese nell’ambito della procedura di prevenzione.
A una diversa conclusione non si potrebbe nemmeno pervenire valorizzando la motivazione – diversamente modulata – della pronuncia di primo grado (confermata, quanto all’affermazione di responsabilità del NOME, dai Giudici dell’appello, sebbene sulla scia di un differente percorso argomentativo).
I Giudici del Tribunale ponevano, infatti, l’enfasi anche sulla destinazione delle somme, ritenendole esuberanti rispetto alla finalità della procedura di prevenzione come, ad esempio, nel caso delle spese sostenute dall’imputato per il pernottamento fuori residenza (reputando che la distanza tra le località da controllare e il luogo in cui il COGNOME viveva potesse essere coperta in giornata) oppure nel caso delle regalie, ammontanti a 50 euro mensili, destinate al portiere del parco residenziale di Castel Volturno, che si occupava di raccogliere i canoni degli affitti, di soddisfare le esigenze dei condomini e che metl:eva a disposizione i suoi locali per le riunioni con l’amministratore.
Ebbene, è vero che, come già ricordato in precedenza, la sussistenza di una appropriazione penalmente rilevante può essere (peraltro, meramente) indiziata da tale “esuberanza”.
Questa va però intesa in senso qualitativo, come quando si sia al cospetto di spese per finalità all’evidenza incompatibili e quindi in contrasto con quelle istituzionali (Sez. 6, n. 20916 del 19/04/2023, COGNOME, non mass.) o anche in senso quantitativo: ma, in tal caso, occorre che si tratti di importi macroscopici,
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che rendano ictu °cui/ evidente la deviazione dell’esborso dagli scopi istituzionali cui sarebbe stato vincolato.
In caso diverso, si finirebbe, infatti, con il legittimare un inammissibile, oltr che pericoloso, sindacato del giudice penale sul merito della (non di rado complessa) gestione amministrativa.
Ne discende che neppure è sufficiente la mera convergenza tra interesse pubblico e interesse privato, avendo, d’altronde, questa Corte avuto occasione di chiarire (Sez. 6, n. 36496 del 30/09/2020, Vasta, Rv. 280295, citata dal ricorrente) che l’utilizzo per finalità esclusivamente personali ed estranee a quelle istituzionali di denaro pubblico determina la “distrazione” dello stesso, mentre il reato non è ravvisabile nei casi in cui l’interesse privato dell’agente e quello istituzionale dell’ente siano sincroni e sovrapponibili, non risultando in alcun modo contrastanti.
Valga, infine, una breve chiosa sulla specifica e più problematica condotta di c.d. autoliquidazione del compenso, consistente nell’aver il ricorrente conferito un incarico contabile per complessivi euro 10.890,00 alla “RAGIONE_SOCIALE“, società da lui partecipata al 55%, con conseguente indiretta partecipazione anche agli utili dell’incarico.
Sul punto, non è ipotizzabile il peculato in relazione alla riscossione finale degli utili, che risulterebbero, al limite, acquisiti attraverso una condotta decettiva e quindi di truffa, o, in presenza dei necessari presupposti di legge, abusiva.
L’appropriazione potrebbe consistere, al più, nell’aver disposto uti dominus il compenso nei confronti della suddetta società, in modo esorbitante rispetto agli scopi della procedura. In tal caso, però, i Giudici avrebbero dovuto argomentare (ed anche dimostrare) come, in ragione della non particolare complessità dell’attività da svolgere, l’imputato sarebbe stato in grado, da solo, di svolgere gli accertamenti invece demandati alla società: e non limitarsi a motivare il mancato previo ottenimento della prescritta autorizzazione, come invece fatto dai Giudici di secondo grado, anche in relazione all’ipotesi in oggetto.
Alla luce di quanto esposto, risultano fondati i primi tre motivi del ricorso, nella parte in cui eccepiscono la dimensione soltanto formale indebitamente assegnata dai Giudici dell’appello alla condotta del peculato e la non configurabilità di una «appropriazione» in senso penalistico.
I restanti motivi, sul trattamento sanzionatorio e sulla confisca, sono assorbiti.
La sentenza va, dunque, annullata – senza rinvio, non residuando spaz discrezionali per l’accertamento della responsabilità (vd. sub § 7) perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso, il 05/06/2024