Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 3731 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 3731 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorsa proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 25/03/1962, avverso la sentenza del 04/03/2024 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 4 marzo 2024, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Napoli, con la quale l’imputato, riqualificata come recidiva generica la recidiva contestata, era stato condannato alla pena di mesi 1 e giorni 15 di reclusione ed euro 1.500,00 di multa, in relazione al reato di cui agli artt. 291-bis e 296 del d.P.R. n. 43 del 1973, perché, senza autorizzazione ed al fine di porlo in vendita, deteneva nel territorio dello Stato tabacchi lavorati ester di contrabbando.
Avverso la sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si denunciano la violazione dell’art. 131-bis cod. pen., e la manifesta illogicità e contraddittorietà del provvedimento impugnato, sul rilievo che la Corte di appello, nel negare l’invocato riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, avrebbe erroneamente valorizzato le 31 condanne risultanti, a carico dell’odierno ricorrente, dal casellario giudiziale, omettendo tuttavia di considerare, non solo che la maggior parte di tali condanne riguarderebbe fatti oggi depenalizzati – fatta eccezione per la condanna n. 29, riferita ad un fatto non depenalizzato, oltre che una condanna per associazione di stampo mafioso ed una condanna per violazione della disciplina in materia di oli esausti – ma anche che, in ogni caso, si tratterebbe di condotte delittuose molto risalenti nel tempo rispetto a quella in contestazione (rispettivamente: 1983, la condanna per associazione di stampo mafioso; 1996, la violazione della disciplina in materia di oli esausti; 2013, la condanna n. 29).
Secondo il ricorrente, infatti, tenuto conto della giurisprudenza di legittimità, il mero richiamo ai precedenti penali non sarebbe sufficiente a giustificare il mancato riconoscimento dell’esimente, nemmeno in termini di ritenuta abitualità della condotta, la cui valutazione, a parere della difesa, andrebbe attualizzata al momento della decisione, con conseguente irrilevanza, a questi fini, dei precedenti penali risalenti nel tempo e seguiti da un lungo lasso temporale in cui il soggetto, non violando la legge penale, abbia dato concreta prova di buona condotta.
Oltre a ciò, la Corte di appello avrebbe omesso di considerare il profilo delle modalità della condotta, da vagliare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., astenendosi altresì dal considerare gli ulteriori elementi emergenti a sostegno del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, quali: a) la modesta entità di tabacchi lavorati esteri detenuta; b) le modalità di vendita dei medesimi, da attuarsi mediante un rudimentale banchetto, predisposto per la vendita al minuto di pochi pacchetti di sigarette.
2.2. Con una seconda censura, si lamentano, invece, la violazione di legge ed il connesso vizio di motivazione, in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. ed alla rideterminazione della pena nei limiti del minimo edittale. Tali richieste, secondo la difesa, sarebbero state disattese con mere formule di stile, facenti riferimento all’allarme sociale o alla mancanza di elementi favorevolmente interpretabili nei confronti del soggetto, e comunque con argomentazioni contraddittorie, oltre che manifestamente illogiche, a fronte della modesta entità dell’offesa, delle modalità della condotta, del contegno collaborativo tenuto sin da subito dall’odierno ricorrente e dello iato
temporale intercorrente tra la condotta in contestazione e quella, ultima, realizzata nel 2017. Né, peraltro, il giudice di secondo grado avrebbe adeguatamente motivato in ordine allo scostamento della pena irrogata dal minimo edittale previsto dalia disposizione incriminatrice.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso – che non si riferisce alla responsabilità penale, sulla quale vi sostanziale acquiescenza del ricorrente – è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di doglianza, riferito alla mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., è manifestamente infondato. Come già chiarito da questa Corte, per la configurabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il giudizio sul tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, comma primo, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U., n. 13681 del 25/02/2015, Rv. 266590) e, dopo le modifiche ad opera dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n, 150 del 10 ottobre 2022, anche della condotta successiva al reato. A tal fine, inoltre, non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, ma è sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (ex multis, Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647), dovendo comunque il giudice motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, per valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, non potendo far ricorso a mere clausole di stile (ex plurimis, Sez. 6, n. 18180 del 20/12/2018, dep. 2019, 275940). Trattandosi, quindi, di una valutazione da compiersi sulla base dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., essa rientra nei poter discrezionali del giudice di merito e, di conseguenza, non può essere sindacata dalla Corte di legittimità, se non nei limiti della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione posti a sostegno. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Nel caso di specie, la sentenza impugnata non risulta censurabile sul punto, atteso che la Corte di appello di Napoli, per escludere la particolare tenuità del fatto, ha dato rilievo, in modo adeguato e non manifestamente illogico, ai numerosi precedenti penali, anche specifici, dell’imputato, ritenuti espressivi di un’elevata intensità del dolo, tenuto conto che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di no punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame (Sez. U., n. 13681 del 25/02/2016, Rv.
266591). Trattasi di dati di fatto di per sé ostativi, in presenza dei quali dev escludersi la valutazione degli elementi eventualmente favorevoli ai quali si riferisce la difesa.
1.2. Il secondo motivo di censura – con il quale si deducono la violazione di legge ed il connesso vizio di motivazione, in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. e alla rideterrninazione della pena nei limiti del minimo edittale – è inammissibile.
Contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, infatti, la decisione del giudice di secondo grado ben rappresenta e giustifica le ragioni per le quali il giudice dell’appello ha ritenuto di negare l’applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. all’imputato, esprimendo una motivazione coerente con le emergenze processuali, in quanto tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, Rv. 275509-03; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419). La sussistenza di circostanze attenuanti generiche rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis cod. pen., del resto, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv. 248244)
Ebbene, nel caso di specie, dall’analisi dei motivi di appello, risulta che non erano stati indicati in concreto elementi positivi che giustificassero l’applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. in favore dell’imputato, ad eccezione del comportamento collaborativo di costui al momento dell’identificazione da parte della polizia giudiziaria; di talché deve ritenersi che i giudici di merito abbiano compiutamente motivato il diniego dell’invocato beneficio, allorché hanno evidenziato l’insussistenza di elementi a tal fine valorizzabili. Del resto, il riconoscimento dell circostanze attenuanti generiche deve essere fondato sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato; con la conseguenza che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (ex plurimis, Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Rv. 275440; Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Rv. 266460).
Per questi motivi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Deve rilevarsi che, nelle more del procedimento, è entrato in vigore il d.lgs. 26 settembre 2024, n. 141 (Disposizioni nazionali complementari al codice doganale dell’Unione e revisione del sistema sanzionatorio in materia di accise e altre imposte indirette sulla produzione e sui consumi), il quale ha abrogato, con decorrenza dal 4 ottobre 2024, il decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, operando la sostanziale sostituzione delle norme incriminatrici applicate nella fattispecie qui in esame (artt. 291-bis e 296 del d.P.R. n. 43 del 1973), con gli artt. 84 e 89. In particolare, viene in rilievo, nella presen fattispecie, la prima di tali disposizioni, la quale prevede quanto segue: «1. Chiunque introduce, vende, fa circolare, acquista o detiene a qualunque titolo nel territorio dello Stato un quantitativo di tabacco lavorato di contrabbando superiore a 15 chilogrammi convenzionali, come definiti dall’articolo 39-quinquies del testo unico di cui al decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, è punito con la reclusione da due a cinque anni. 2. I fatti previsti dal comma 1, quando hanno a oggetto un quantitativo di tabacco lavorato fino a 15 chilogrammi convenzionali e qualora non ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’articolo 85, sono puniti con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro di euro 5 per ogni grammo convenzionale di prodotto, non inferiore in ogni caso a euro 5.000. Se i quantitativi di tabacchi lavorati di contrabbando risultano: a) non superiori a 200 grammi convenzionali, la sanzione amministrativa è in ogni caso pari a euro 500; b) superiori a 200 e fino a 400 grammi convenzionali, la sanzione amministrativa è in ogni caso pari a euro 1.000». Si tratta, evidentemente, di una disposizione che prevede, per il contrabbando di tabacco lavorato, sia sanzioni penali sia sanzioni amministrative, a seconda dei quantitativi e delle circostanze aggravanti in concreto configurabili.
Non vedendosi in materia di pura e semplice abolitio criminis, deve dunque essere valutata, nel caso in esame, la riconducibilità della fattispecie all’ambito di applicazione della sanzione penale o a quello della sanzione amministrativa; e tale valutazione non può essere svolta da questa Corte – per di più, a fronte di un ricorso inammissibile e non riferito alla responsabilità penale – implicando un nuovo apprezzamento del fatto e delle circostanze che lo accompagnano, ma potrà svolgersi eventualmente nella sede esecutiva, ove il giudice dell’esecuzione potrà valutare la sussistenza in concreto dei presupposti per l’applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 22/10/2024.