Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 27117 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 27117 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a BAGHERIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/11/2023 del TRIBUNALE di TERMINI IMERESE
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni dell’AVV_NOTAIO generale, dottAVV_NOTAIO NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, e le conclusioni del difensore che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 22 novembre 2023 il Tribunale di Termini Imerese condannava NOME alla pena di 1000 euro di ammenda per il reato di cui all’art. 4, secondo e terzo comma, I. 110/75.
Avverso tale decisione proponeva ricorso l’imputato tramite il difensore, articolando due motivi di doglianza.
2.1 Con il primo motivo lamentava l’erronea applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., nonché la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione sul punto.
Osserva il ricorrente che le risultanze probatorie non consentirebbero di affermarne la penale responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.
La motivazione della sentenza sarebbe affetta da contraddizioni e incongruenze logiche che discenderebbero da una valutazione degli apporti probatori secondo criteri non omogenei.
La contraddittorietà della motivazione si renderebbe palese laddove il Tribunale di Termini Imerese, da un lato, non ritiene sussistente la causà di esclusione della punibilità ex art. 131 bis cod. pen. e, dall’altro, riconosce l’attenuante di lieve entità.
2.2 Con il secondo motivo deduce la violazione di legge dell’art. 131 bis cod. pen.
Il provvedimento impugNOME non avrebbe tenuto in valido conto – ai fini del riconoscimento della suddetta causa – la condotta collaborativa dell’imputato e, per contro, avrebbe dato rilievo ai precedenti dell’NOME senza valutare la identità di indole dei medesimi, al fine di ritenere la abitualità della condotta.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, l’AVV_NOTAIO generale concludeva chiedendo l’annullamento con rinvio.
Il difensore depositava conclusioni scritte insistendo per l’annullamento dell’impugnata sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Premessa l’assoluta genericità di formulazione della critica che investe l’affermazione di responsabilità, senza confrontarsi in alcun modo con l’apparato argonnentativo della sentenza, si osserva che, contrariamente a quanto ritenuto nel ricorso, non vi è alcuna contraddizione nella decisione del Tribunale di merito che nella fattispecie concreta ha ritenuto ravvisabile la circostanza della lieve entità, ma non il fatto di particolar tenuità.
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La ragione è agevolmente ricavabile: si tratta – infatti – di different graduazioni di offensività, ove la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto si colloca al livello massimo di assenza di offensività, pur a fronte in una fattispecie di reato completa in tutti i suoi elementi; la quasi assenza di offensività comporta, infatti, come conseguenza, la non punibilità del fatto stesso.
Per contro, la circostanza di lieve entità comporta una valutazione di inferiore offensività della condotta che, comunque, mantiene un quantum di lesività che la rende meritevole di sanzione penale, sebbene attenuata.
Come riconosciuto da questa Corte «l’esclusione del beneficio della non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. non impedisce il riconoscimento della circostanza attenuante della lieve entità relativa al porto di oggetti atti ad offendere di cui all’art. 4, comma 3, della legge 18 aprile 1975, n. 110.» (Sez. 1, n. 51261 del 07/03/2017, Zharri, Rv. 271261 – 01).
Secondo la Corte può dunque accadere che la rilevanza penale di un comportamento – di porto di un oggetto atto ad offendere fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa – non sia così bassa da renderlo penalmente irrilevante come fatto di particolare tenuità, ma sia al tempo stesso limitata, in modo tale da consentire la sua qualificazione come fatto di lieve entità. Ciò può avvenire quando il fatto è munito di portata offensiva significativamente inferiore a quella del comportamento astrattamente previsto dalla norma incriminatrice nell’ipotesi base, cioè non attenuata; dall’ordine di idee esposto deriva la conciliabilità, sul piano logico, della negazione della particolare tenuità di un fatto e dell’affermazione della sua lieve entità.
Logico corollario di questa affermazione è che il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della lieve entità relativa al porto di oggetti atti ad offendere di cui all’art. 4, comma terzo, I. 18 aprile 1975, n. 110 impedisce la declaratoria di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. (Sez. 1, n. 27246 del 21/05/2015, Singh, Rv. 263925): laddove, infatti una condotta non sia stata nemmeno ritenuta di lieve entità, non può, giocoforza, essere ritenuta completamente priva di offensività.
Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Il Tribunale di Termini Innerese ha evidenziato, al fine di escludere la particolare tenuità del fatto, sotto il profilo soggettivo, la commissione di altr illeciti, e, sotto il profilo oggettivo, le concrete modalità della condotta ch farebbero ritenere non esiguo il pericolo per la collettività.
Circa la mancata valutazione dell’atteggiamento collaborativo dell’imputato, di cui il ricorrente si duole, si osserva che, allorquando si lamenti la mancata valutazione di un elemento di fatto da parte del giudice di merito è anche
necessario indicare come tale pretermesso elemento avrebbe potuto incidere sulla decisione finale.
In questo senso si è attestata la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugNOME ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugNOME» (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816 07).
Il ricorrente sul punto nulla osserva né è dato comprendere come il fatto di aver fatto acquiescenza ad un atto investigativo, quale il controllo e la perquisizione, che era condotta doverosa, anziché fare resistenza al medesimo, possa essere considerato comportamento di particolare valenza positiva.
Per contro, quanto alla motivazione che l’impugNOME provvedimento fornisce per il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità, da un lato il ricorrente non contesta la ragione che si dispiega sul piano oggettivo, ovvero il pericolo per la collettività, desumibile dalle concrete modalità della condotta, e quanto alla abitualità, dunque all’aspetto soggettivo, pur stigmatizzando la mancata specificazione circa la medesimezza di indole dei precedenti, non fornisce specifiche ragioni di doglianza sul punto.
La aspecificità della doglianza trova una spiegazione nella lettura del certificato penale dell’imputato che registra una pluralità di precedenti, alcuni dei quali anche specifici.
Il ricorso è complessivamente inammissibile perché fondato su motivi non consentiti ovvero manifestamente infondati; all’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e in mancanza di elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» – della somma di euro 3.000 a favore della cassa
delle ammende, tenuto conto dell’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 31 maggio 2024
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Il Consigliere estensore
Il Presidente