Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 3395 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 3395 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 19/04/2023 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Minister:Q, -in – persona del Sostituto Procuratore NOME AVV_NOTAIO che ha conclutó chiedendo
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19/4/2023, la Corte di appello di Roma, previa riqualificazione del fatto ascritto all’imputato nella fattispecie di cui all’art. 624-bis cod. pen., ha confermato la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Roma a carico di NOME COGNOME.
L’imputato, si legge in motivazione, dopo essersi introdotto in uno stabile sito in Roma, alla INDIRIZZO, era sorpreso da un condomino nell’atto di forzare la porta che consentiva l’accesso alle cantine condominiali. Prontamente interveniva sul posto personale di Polizia che traeva in arresto il ricorrente-
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, articolando i seguenti motivi di ricorso.
Carenza di motivazione; contestazione del riepilogo dei motivi di appello riportati nella sentenza impugnata.
La sentenza della Corte territoriale sia nella premessa, dove sono richiamate le ragioni dell’appello, sia nel corpo motivazionale è rimasta silente in relazione al rilievo difensivo volto a censurare il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena nella sentenza di primo grado.
II) Mancanza della motivazione in ordine alla chiesta concessione della sospensione condizionale della pena, vizio risultante dal testo del provvedimento impugNOME. La sentenza della Corte d’appello omette qualsivoglia motivazione in ordine al motivo di appello, ritualmente e tempestivamente dedotto, riguardante la mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
La giustificazione del diniego non è ricavabile implicitamente dal complesso argomentativo posto a fondamento della decisione impugnata.
III) Erronea applicazione della legge penale con riferimento alla insussistenza dell’aggravante di cui all’articolo 625, comma 1, n. 2) cod. pen.; mancanza della motivazione in ordine alla sussistenza dell’ipotesi di furto aggravato ex articolo 625, comma 1, n. 4) cod. pen.
All’imputato veniva contestato il delitto di furto aggravato ai sensi dell’articolo 625 n. 4) cod. pen., come da capo di imputazione. Riteneva il tribunale di prime cure in sentenza la sussistenza dell’aggravante della violenza sulle cose, contestata in fatto, consistita nella forzatura della porta d’ingresso dei locali cantina del condominio, che risultava regolarmente chiusa a chiave. A prescindere dall’errore contenuto nella contestazione, nella quale compare l’incongruo riferimento all’aggravante di cui all’art. 625 n. 4) cod. pen., la difes
aveva mosso precise censure in appello con riferimento alla ricorrenza dell’aggravante della violenza sulle cose. Difettano nel caso di specie i presupposti della fattispecie circostanziale individuati dalla più autorevole giurisprudenza di legittimità. Premesso che la contestazione in fatto è chiaramente riferita alla violenza sulle cose, l’aggravante doveva essere ritenuta nei fatti insussistente. Invero, è pacificamente emerso anc:he dalla sentenza della Corte territoriale come la porta d’ingresso della cantina, oggetto del tentativo di effrazione, non avesse riportato alcun danno, né alcuna minima alterazione della propria struttura o della propria funzione. Si censura la sentenza gravata laddove si limita ad una mera ricostruzione della vicenda, omettendo qualsivoglia confronto con le tesi in diritto prospettate dalla difesa nell’atto di appello.
IV) Motivo indicato erroneamente terzo nel ricorso: violazione dell’articolo 62, comma 1, n. 4) cod. pen.
La Corte di appello ritiene in sentenza che il valore del compendio del furto sia irrilevante, in quanto non è dato sapere cosa l’imputato avrebbe potuto sottrarre, non potendo certamente valere quanto egli ha dichiarato circa l’intenzione di reperire una bicicletta, il cui valore, comunque, non sarebbe di lieve entità. Il percorso motivazionale della sentenza non è in linea con i recenti principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte.
I giudici di merito, negando l’attenuante, non hanno tenuto conto delle circostanze oggettive del fatto emergenti dal compendio istruttorio acquisito agli atti e richiamate nella stessa sentenza impugnata.
Il COGNOME veniva sorpreso mentre cercava di forzare la porta in legno che consentiva l’accesso ai locali cantina, a loro volta chiusi da ulteriori porte. Gl operanti notavano sulla prima porta di accesso ai locali cantina segni di scalfittura e di effrazione.
La Corte di merito non ha tenuto conto di una serie di circostanze che dovevano orientare il giudizio verso il riconoscimento dell’attenuante in parola.
In particolare, avrebbe dovuto considerare che le scalfiture interessavano solo la prima porta di accesso all’area nella quale si trovano le diverse cantine condominiali; che ciascuna cantina condominiale affacciata sull’area condominiale dietro la prima porta era protetta da ulteriori porte. Avrebbe poi dovuto considerare il contesto ambientale in cui si era verificato il fatto e l condizione di emarginazione socio-economica dell’imputato. Il ragionamento impone il richiamo alla nota distinzione tra delitto tentato circostanziato e tentativo di delitto circostanziato. Quest’ultimo si identifica nel tentativo di delitto che, ove giunto a consumazione, sarebbe qualificato da uno o più circostanze. La natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che
determinate circostanze ben possono essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto. E’ però richiesto che la volontà criminosa non rimanga allo stadio di semplice intendimento ma si manifesti attraverso condotte significative cui sia collegata un’apprezzabile probabilità di successo; anche le circostanze non realizzate dunque contribuiscono ad integrare il proposito criminoso.
Nella fattispecie concreta in esame l’entità del danno, nell’ipotesi della forma tentata, si presenta di lieve entità. Ciò tenuto conto del danno effettivamente arrecato in conseguenza degli atti compiuti e alla luce del danno ipotetico che si sarebbe prodotto ove l’azione delittuosa fosse pervenuta a consumazione.
Da quanto sopra deriva che il giudice di merito doveva effettuare un giudizio prognostico ipotetico in ordine al verosimile compendio furtivo che il ricorrente avrebbe potuto ottenere ove l’azione fosse stata consumata. I giudici di merito incorrono in un vizio censurabile in sede di legittimità omettendo di effettuare un giudizio prognostico sul danno che il ricorrente avrebbe potuto arrecare.
La circostanza in esame risulta concedibile qualora il danno cagioNOME alla vittima sia di entità irrisoria ed assolutamente trascurabile, anche in relazione alla capacità economica della persona offesa.
V) Violazione e falsa applicazione dell’articolo 131-bis cod. pen.; mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della causa di esclusione di punibilità.
Gli elementi richiamati dalla Corte di appello per escludere la sussistenza dell’offesa di particolare tenuità appaiono deporre in senso contrario rispetto a quanto ritenuto in sentenza. La particolare tenuità contemplata dalla norma deve essere valutata ai sensi dell’articolo 133, comma 1, cod. pen.; secondo l’inciso di recente introduzione nella norma si può tenere conto della condotta susseguente al reato.
La scelta del legislatore appare netta nel rifuggire da indici meramente soggettivi, sicché il grado di colpevolezza, in virtù del rinvio operato all’artico 133, comma 1, cod. pen. può rilevare solo ed esclusivamente nella misura in cui esso si rifletta sulla condotta. Ove la condizione di marcata emarginazione economica deponga per un contenuto disvalore del fatto il riferimento alla pluralità di precedenti operato in sentenza non appare ostatrvo all’applicazione dell’istituto invocato; alcuna menzione vi è invece in sentenza in ordine agli indici rivelatori della entità del fatto, quali la tenuità dell’offesa o del danno cagionat alla vittima, nonché le modalità della condotta. La motivazione, oltre a disattendere la norma dell’articolo 131-bis cod. pen. è sul punto carente perché non esamina i summenzionati criteri e, comunque, è contraddittoria e manifestamente illogica laddove prende in considerazione le condizioni di
marcata emarginazione sociale ed economica del ricorrente quali inevitabili fattori di spinta criminogena.
VI) Violazione e falsa applicazione degli articoli 545-bis cod. proc. pen., 53 e seguenti legge 689/91 in ordine alla chiesta sostituzione della pena detentiva con la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità ex articolo 56-bis legge citata e della detenzione domiciliare ex articolo 56 legge citata.
Si censura la sentenza gravata nella parte in cui il giudice di merito ritiene non accoglibile la richiesta di applicazione della pena sostitutiva in quanto vi osta la circostanza della mancata comparizione dell’imputato, la quale, si legge in motivazione, impedisce in radice ogni valutazione in merito; si censura anche la motivazione della sentenza nella parte in cui si definisce generica ed indeterminata la richiesta difensiva. Si evidenzia sul punto come, in sede di motivi aggiunti, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, la difesa non si limitava ad una richiesta generica, ma individuava quale pena sostitutiva il lavoro di pubblica utilità o, in subordine, la detenzione domiciliare. La norma di cui all’articolo 545-bis introduce in materia una fase incidentale contraddistinta da una puntuale cadenza procedimentale che non è stata osservata dalla Corte di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è in parte fondato e deve essere accolto nei limiti e con le precisazioni che seguono.
In ordine alla qualificazione del fatto, devono rigettarsi le doglianze riguardanti la mancata esclusione dell’aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 2) cod. pen. (motivo terzo del ricorso). Sorretta da congrua e puntuale motivazione in fatto e diritto è la decisione riguardante la ritenuta sussistenza dell’aggravante in parola.
Si è accertato, si legge in motivazione, che l’imputato, con l’uso di un cacciavite, aveva danneggiato la porta di accesso ai locali cantina del condominio; la porta, infatti, alla stregua di quanto dichiarato dai testi qualificati presentava scalfitture e segni di effrazione.
La pronuncia sul punto non è meritevole di essere censurata in quanto conforme al principio di legittimità, richiamato dallo stesso ricorrente, per cui, ai fini della configurai – Mita della circostanza aggravante in parola, non è necessario che la violenza venga esercitata direttamente sulla “res” oggetto dell’impossessamento, ben potendosi l’aggravante configurare anche quando la violenza, da intendersi come alterazione dello stato delle cose mediante impiego di energia fisica, venga posta in essere nei confronti dello strumento materiale
apposto sulla cosa per garantire una più efficace difesa della stessa, provocandone la rottura, il guasto, il danneggiamento o la trasformazione (cfr., ex plurinnis, Sez. 5, n. 20476 del 17/01/2018, Rv. 272705).
Ai fini della ricorrenza dell’aggravante, inoltre, non è richiesto che sia realizzata la rottura della cosa su cui viene esercitata la violenza o che la cosa sia resa inservibile, essendo sufficiente, come nel caso in esame, il semplice danneggiamento .
Non meritevole di accoglimento è parimenti la doglianza riguardante la mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4 cod. pen. (motivo quarto, erroneamente indicato terzo nel ricorso).
Sul punto la Corte di appello ha espresso una motivazione congrua, evidenziando come le cose di cui l’imputato avrebbe potuto impossessarsi, pur essendo ignoto il preciso contenuto delle cantine dello stabile, non potevano considerarsi di valore irrisorio.
Si tratta di valutazioni in fatto non suscettibili di essere sindacate in questa sede in quanto non manifestamente illogiche e coerenti con le circostanze rappresentate in motivazione: la porta danneggiata consentiva l’accesso alle cantine dell’intero stabile ove, nella generalità dei casi, possono essere custoditi anche beni di valore non esiguo. Pertanto, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, la Corte di merito ha effettuato, sia pure in maniera stringata, una prognosi circa la entità del danno che il ricorrente avrebbe potuto arrecare alla persona offesa nel caso in cui il reato fosse stato portato a compimento.
Deve anche aggiungersi come, ai fini della valutazione della entità del danno, ove il giudice stabilisca che le cose di cui il soggetto agente intenda appropriarsi non siano di valore irrisorio, non è necessario che proceda a valutare la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato [cfr. in argomento Sez. 4, n. 6635 del 19/01/2017, Rv. 269241, così massinnata:”La concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, presuppone necessariamente che il pregiudizio cagioNOME sia lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio, avendo riguardo non solo al valore in sé della cosa sottratta, ma anche agli ulteriori effett pregiudizievoli che la persona offesa abbia subìto in conseguenza della sottrazione della “res”, senza che rilevi, invece, la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato. (In applicazione del
principio, la RAGIONE_SOCIALE ha ritenuto inammissibile il ricorso con il quale l’imputato invocava la configurabilità della predetta circostanza attenuante in una fattispecie di furto di merce del valore commerciale di 82 euro, sul presupposto che tale somma fosse irrilevante rispetto alla capacità economica del supermercato vittima del reato)]. Pertanto, prive di rilievo risultano le considerazioni svolte dalla difesa in ordine alla capacità economica della vittima.
Fondati risultano invece i rilievi riguardanti la motivazione posta a fondamento del diniego dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. (motivo quinto del ricorso).
La Corte di merito ha attribuito valenza centrale, al fine di escludere l’applicazione della causa di non punibilità, ai precedenti penali annoverati dall’imputato, alla sua condizione di emarginazione sociale ed al mancato inserimento socio-lavorativo, che costituiscono, secondo il giudizio espresso in motivazione, fattori che inducono a ritenere l’imputato incline a delinquere, risultando per questo ostativi al riconoscimento del beneficio.
La risposta offerta non può ritenersi idonea a sostenere il decisum alla luce degli insegnamenti di questa Corte.
In linea generale, la norma prevede, quali condizioni per l’esclusione della punibilità (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della disposizione), la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualit del comportamento.
Alla stregua della formulazione della norma si richiede al giudice di accertare se, sulla base dei due «indici requisiti» delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di c all’art.133, primo comma, cod.pen., sussista l’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, coesista quello della non abitualità del comportamento (cfr., in motivazione, Sez. U, n.13682 del 25/02/2016, COGNOME). Per effetto delle modifiche apportate all’art. 131-bis cod. pen. in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, viene altresì in rilievo, ai fini della valutazione della particolare tenuità dell’offesa, anche ” condotta susseguente al reato”, riferimento che trova corrispondenza nell’art. 133, comma 2, n. 3) cod. pen.
Si è condivisibilmente precisato, con riferimento a tale ultimo aspetto, che la condotta susseguente al reato costituisce elemento suscettibile di valutazione negativa ai fini della applicabilità dell’esimente nel caso in cui determini un aggravamento dell’offesa, non rilevando invece comportamenti successivi sol perché espressivi della capacità a delinquere (cfr. Sez. 6, n. 43941 del 03/10/2023, Rv. 285360).
Secondo il tradizionale orientamento di questa Corte, l’esiguità del disvalore del fatto è correlata ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza, dell’entità del danno o del pericolo,, da apprezzarsi in relazione ai profili di cui all’art. 133, comma 1, cod. pen. e non invece con riguardo a quelli indicativi della capacità a delinquere, di cui al comma 2 dell’art. 133 cod. pen.
Il riferimento alla sola condotta susseguente al reato, introdotto per effetto del d.lgs 150/2022, alla luce della interpretazione sostenuta da questa Corte all’indomani della riforma, non ha apportato sostanziali modifiche alla valutazione da operarsi in materia, rimanendo comunque estranei al perimetro valutativo i motivi a delinquere ed il carattere del reo, le condizioni di vit individuali, familiari e sociali dell’imputato, aspetti strettamente correlati al capacità a delinquere come definita al comma 2 dell’art. 133 cod. pen.
Tutto ciò premesso, è d’uopo rilevare come, nel giudizio espresso dalla Corte territoriale al fine di escludere la particolare tenuità del fatto, risult inconferenti i riferimenti contenuti in motivazione riguardanti il mancato inserimento socio-lavorativo dell’imputato e le sue condizioni di marcata emarginazione sociale.
Quanto ai precedenti penali annoverati dall’imputato, rilevanti ai fini della determinazione dell’abitualità del comportamento, nella peculiare accezione contenuta nella norma (art. 131-bis, comma 4, cod. pen.), la Corte di appello si è limitata ad un vago riferimento ad essi, senza alcuna specificazione in ordine alla loro natura ed al numero delle precedenti condanne.
Sul punto non si è tenuto conto in motivazione dell’orientamento consolidato di questa Corte, in base al quale il presupposto ostativo del comportamento abituale ricorre quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, abbia commesso almeno altri due reati della stessa indole [cfr. Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266591: “Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., i comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame. (In motivazione, la Corte ha chiarito che, ai fini della valutazione del presupposto indicato, il giudice può fare riferimento non solo alle condanne irrevocabili ed agli illeciti sottoposti alla sua cognizione – nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui- ma anche ai reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131 bis cod. pen.); Sez. 6, n. 6551 del 09/01/2020, Rv. 278347:”In tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto, il presupposto ostativo del comportamento abituale ricorre quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, abbia commesso almeno altri due
reati della stessa indole, incidentalmente accertabili da parte del giudice procedente].
La chiave interpretativa della nozione di abitualità contenuta nell’art. 131-bis cod. pen. si rinviene nell’enunciato delle Sezioni Unite Tushaj (Sez. U. n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266591), a mente del quale l’abitualità deve essere intesa come reiterazione di condotte della medesima indole, nel senso sostanziale indicato dall’art. 101 cod. pen.
Tale ultima norma individua diversi parametri, tra loro alternativi, che attengono alla natura dei fatti (ad esempio il bene giuridico protetto), ovvero ai motivi ed alle finalità della condotta.
Sulla base del tenore della norma, la giurisprudenza di questa Corte ha fornito precise indicazioni che consentono di dare corpo alla nozione in esame nei diversi casi nei quali si fa riferimento a tale concetto – affermando che il requisito dell’identità dell’indole si rinvenga non solo nell’ipotesi di reati c violino la stessa disposizione di legge, ma anche quando le diverse fattispecie di illecito penale presentino profili di omogeneità sul piano oggettivo, in relazione al bene tutelato, ovvero sul piano soggettivo, in relazione ai motivi a delinquere che hanno avuto efficacia causale nella decisione criminosa (Sez. 6, n. 53590 del 20/11/2014, COGNOME, Rv. 261869; Sez. 1, n. 44255, del 17/09/2014, Durdev, Rv. 260800; Sez. 1, n. 27906 del 15/04/20/14, COGNOME, Rv. 260500).
In conclusione, la motivazione fornita dalla Corte territoriale in ordine alla esclusione dell’art. 131-bis cod. pen. si discosta dai principi affermati in questa sede.
Si esprimono considerazioni riguardanti lo stile di vita dell’imputato e le sue condizioni socio-economiche estranee al perimetro valutativo delineato nella norma in parola.
Sul piano dell’abitualità del comportamento non vi sono precise indicazioni sulla commissione di reati della medesima indole.
Gli ulteriori motivi di ricorso, riguardanti la mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (motivi primo e secondo) e la mancata applicazione delle sanzioni sostitutive del lavoro di pubblica utilità o della detenzione domiciliare (motivo sesto) rimangono assorbiti dall’accoglimento del motivo di ricorso riguardante la questione concernente l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen.
In ragione di quanto precede la sentenza impugnata è annullata limitatamente alla questione concernente l’art. 131-bis cod. pen. con rinvio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla questione concernente l’art. 131 bis c.p., e rinvia sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.
In Roma, così deciso il 13 dicembre 2023
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