Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 45270 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 45270 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/09/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria e dall’indagato NOME COGNOME nato a Reggio Calabria il 08/05/1984
avverso l’ordinanza del 05/04/2024 del Tribunale di Reggio Calabria;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità di entrambi i ricorsi; udito il difensore dell’indagato, avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso del Pubblico ministero e per l’accoglimento del proprio.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale di Reggio Calabria, parzialmente accogliendo la richiesta di riesame proposta nell’interesse di NOME COGNOME ha annullato la custodia cautelare in carcere a lui applicata per il delitto d
partecipazione ad una cosca dell’associazione di tipo mafioso denominata “RAGIONE_SOCIALE” (capo 1 dell’incolpazione provvisoria), non avendo ravvisato un quadro di gravità indiziaria.
Ha confermato, invece, detta misura per due delitti di estorsione, uno consumato e l’altro tentato, nonché variamente aggravati, anche dall’impiego del metodo mafioso e dalla finalità agevolativa della cosca di appartenenza (capi 24 e 24-bis), che l’indagato avrebbe commesso in concorso con altri e che sarebbero consistiti, nel primo caso, nell’imposizione a tal COGNOME, titolare di una panetteria, di rifornirsi di farine dall’azienda di esso indagato; nel secondo, nella intimazione rivolta a tale COGNOME, esercente di una rivendita di prodotti ortofrutticoli, di non vendere anche prodotti da forno, che tuttavia parrebbe essere rimasta senza esito.
Il Procuratore della Repubblica presso quel Tribunale impugna tale decisione, chiedendo di annullarla nella parte in cui ha escluso i gravi indizi di colpevolezza per il delitto associativo, in quanto la stessa sarebbe il prodotto di un’illogica valutazione atomistica delle risultanze investigative.
Quindi, ripercorrendo le stesse, il ricorrente rileva che:
il collaborante COGNOME non si è limitato ad indicazioni generiche ed a notizie di contesto, avendo specificato la fonte delle sue conoscenze, ovvero suo fratello NOME, intraneo al sodalizio, ed avendo riferito notizie precise e qualificanti da questi apprese su NOME;
il collaborante COGNOME, cognato del capo-cosca COGNOME, ha espressamente indicato l’indagato come persona vicina a costui ed abituale frequentatore dello stesso;
già solo l’avere COGNOME accompagnato in auto COGNOME ad un appuntamento con tale COGNOME, capo di una diversa cosca, rappresenta pregnante riscontro di tali dichiarazioni nonché conferma del ruolo fiduciario da lui svolto, trattandosi di incontro di assoluto rilievo, come deve desumersi dalla posizione apicale dei due, dal luogo isolato prescelto e dai connessi pericoli di conseguenze giudiziarie, irrilevante essendo, perciò, la partecipazione o meno dell’indagato al dialogo fra costoro;
i giudizi negativi espressi dai figli di COGNOME verso COGNOME non smentiscono la partecipazione di costui al sodalizio, ma semmai ne danno conferma, poiché gli riconoscono il potere d’intervenire in questioni che riguardano “affari di ‘ndrangheta”, lamentando soltanto che egli ciò non abbia fatto allorché sarebbe stato necessario;
e) l’indicazione operata da COGNOME nel congedarsi dal colloquio con i soggetti coinvolti nell’episodio estorsivo di cui al capo 24-bis), secondo cui «per qualsiasi
cosa c’è NOME, c’è NOME.., a disposizione», non può intendersi riferita – come invece fa il Tribunale – all’analogo episodio precedente oggetto del capo 24), in quanto: tal ultima vicenda era già stata definita; COGNOME non la menziona neppure ma fa riferimento a “qualsiasi cosa”; egli pone l’indagato sullo stesso piano di “NOME“, vale a dire NOME COGNOME, reggente del gruppo di “ndrangheta” operante sul quartiere cittadino di Gallico;
la sentenza di condanna dì COGNOME in altro procedimento, per detenzione di armi da fuoco ha sì escluso l’aggravante della finalità agevolativa mafiosa, ma solo perché non era stato possibile, in quella sede, ricollegarle al gruppo di COGNOME; né è corretta l’osservazione del Tribunale per cui dette armi sarebbero state riconosciute dal citato COGNOME come appartenenti al proprio e diverso gruppo criminale, giacché tale riconoscimento aveva riguardato armi differenti da quelle detenute dall’odierno indagato.
Ricorre per Cassazione anche l’indagato, per il tramite del proprio difensore, sulla base di tre motivi.
3.1. Con il primo, censura il giudizio di gravità indiziaria in relazione agl episodi estorsivi di cui ai capi d’incolpazione 24) e 24-bis), evidenziando, anzitutto, quanto espresso dal figlio di COGNOME a tale NOME COGNOME che lo informava di quanto stava accadendo nella vicenda oggetto del secondo di quei capi d’accusa: vale a dire che NOME «non vale niente».
Per altro verso, si rileva come l’esistenza di un gruppo criminale capeggiato da COGNOME, con spinte scissioniste rispetto alle preesistenti cosche di “ndrangheta” operanti su quel territorio, sia stata mutuata dal Tribunale senza alcun vaglio critico dalla sentenza emessa in un diverso processo, convenzionalmente denominato “Epicentro”, tuttavia non ancora concluso con una statuizione definitiva, trattandosi, perciò, di circostanza non provata.
Inoltre si deduce: che non sarebbe chiaro quale sia stato l’apporto concorsuale del COGNOME alla condotta estorsiva; che l’ordinanza ha del tutto trascurato le dichiarazioni del suo collaboratore aziendale NOME COGNOME il quale ha escluso qualsiasi imposizione al COGNOME o lagnanze da parte di questi; che, con specifico riferimento all’episodio di cui al capo 24-bis), mancherebbero tanto l’ingiusto danno nei confronti del fruttivendolo COGNOME, quanto l’ingiusto profitto ritratt dal COGNOME; che, anzi, sempre in relazione a tale episodio, sarebbe stato erroneamente individuato nell’indagato il “NOME” presente al colloquio chiarificatore tra i “protettori” criminali degli esercenti in conflitto; che la rel condotta dovrebbe essere ricondotta, al più, ad un tentativo di estorsione.
3.2. Il secondo motivo di ricorso consiste nella violazione della legge penale e nel vizio della motivazione in punto di riconoscimento dell’aggravante della finalità agevolativa mafiosa.
Rileva la difesa che tale finalità non possa risolversi nella semplice intenzione in tal senso, occorrendo una concreta capacità agevolatrice della condotta: l’ordinanza, invece, non indicherebbe alcun elemento da cui poter dedurre che NOME abbia agito per agevolare l’attività criminale della presunta cosca, né che si sia trattato di un delitto preventivamente deliberato dall’associazione. D’altronde, è lo stesso Tribunale che ha ritenuto indimostrato il ruolo di trait d’union tra la cosca dei COGNOME ed il gruppo di COGNOME, a costui attribuito dall’accusa, così confermando la sua estraneità all’associazione mafiosa.
3.3. Violazione di legge e vizi di motivazione vengono dedotti, da ultimo, in tema di esigenze cautelari.
Si adducono, in proposito, l’oggettiva impossibilità per l’indagato di reiterare la propria condotta criminosa, l’evidente insussistenza dell’attualità di un tale pericolo, la mancata considerazione, da parte del Tribunale, del tempo trascorso dai fatti all’applicazione della misura cautelare, l’omessa valutazione degli elementi di valutazione offerti dalla difesa e l’acritica valorizzazione esclusiva della doppia presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen..
3.4. Il difensore del COGNOME ha altresì depositato memoria scritta, sostanzialmente riproponendo le doglianze rassegnate in ricorso, ovvero, in particolare: genericità delle minacce e conseguente incapacità delle stesse di condizionamento delle vittime; inconfigurabilità, nelle ipotesi di c.d. “estorsione contrattuale” del necessario danno patrimoniale; estraneità del ricorrente alla cosca mafiosa e, quindi, non configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1, cod. pen.; sproporzione della custodia in carcere rispetto al quadro di gravità indiziaria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Entrambi i ricorsi sono inammissibili.
Quello del Pubblico ministero è volto essenzialmente alla rivalutazione delle risultanze probatorie e, quindi, ad un giudizio di merito, non consentito in questa sede.
2.1. Il dato qualificante della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso è rappresentato dallo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua “messa a disposizione” in favore del sodalizio per il
perseguimento dei comuni fini criminosi (così Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, Rv. 281889, in sintonia con quanto peraltro già statuito dalle stesse Sezioni unite con le precedenti sentenze n. 16 del 05/10/1994, COGNOME, Rv. 199386, e n. 30 del 27/09/1995, COGNOME, Rv. 202904).
Non è sufficiente, cioè, condividere quella temperie: anzi, le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale non sono sufficienti nemmeno ad integrare la diversa e meno stringente condizione di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa, necessaria per l’applicazione delle misure di prevenzione e che, comunque, postula una condotta funzionale agli scopi associativi, ancorché isolata (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, Gattuso, Rv. 271512).
Così come non può bastare l’ausilio prestato esclusivamente ed a titolo personale in favore di un aderente alla consorteria, ancorché di rango elevato, salvo che, in concreto, esso si risolva in un consapevole contributo per l’operatività del sodalizio nel suo complesso.
2.2. Così definito il perimetro applicativo della fattispecie incriminatrice, va rilevato come le circostanze dedotte dal Pubblico ministero si prestino tutte ad una lettura ambivalente, nessuna di esse presentandosi come univocamente sintomatica di un contributo volontariamente arrecato dal COGNOME al sodalizio e non, piuttosto, soltanto di una collaborazione prestata a titolo personale al capo COGNOME.
Una diversa valenza potrebbe attribuirsi, al più, all’accompagnamento del COGNOME all’incontro con COGNOME ed alla custodia di armi accertata nel diverso processo, se letta insieme alle altre emergenze. Tuttavia, nessuna di tali due condotte tenute dal COGNOME può reputarsi oggettivamente rappresentativa di una sua partecipazione alla cosca, quanto meno con quella evidenza tale che consenta di ravvisare, nella diversa valutazione compiutane dal Tribunale, gli estremi del travisamento probatorio, dell’indiscutibile fraintendimento, cioè, del significato di un dato elemento di prova, soltanto in presenza del quale detta valutazione potrebbe essere censurata in questa sede. In particolare, riguardo alla prima di tali condotte, va osservato che COGNOME e COGNOME, oltre che in quell’occasione, sono stati controllati insieme soltanto altre tre volte nell’arco di cinque anni; ed altresì che – come l’ordinanza rammenta espressamente – non COGNOME ma un altro individuo, nell’àmbito di un diverso procedimento, è stato indicato come l’autista del COGNOME, venendo per tal ragione raggiunto da misura cautelare personale.
Il ricorso dell’indagato è, nel suo complesso, generico, constando per lo più di riferimenti teorici, sganciati dai fatti specifici e dalle risultanze investiga valorizzate nell’ordinanza, al punto da non riuscirsi a distinguere con sufficiente
chiarezza quali doglianze riguardino il capo 24) dell’incolpazione, il successivo 24bis) od entrambi.
Meglio definita si presenta la successiva memoria scritta, in relazione alla quale è tuttavia possibile osservare, in sintesi:
che l’assunto della genericità e della inefficacia condizionante delle minacce è puramente assertivo, tanto più ove si considerino la risalente e pervasiva presenza della criminalità organizzata in quel territorio e le qualità personali dei soggetti coinvolti, note alle vittime, che escludono la necessità di intimidazioni esplicite;
-che, per giurisprudenza univoca, nel delitto di estorsione cd. “contrattuale”, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, essendogli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo da lui ritenuto più opportuno (per tutte: Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 278998): l’argomento difensivo dell’inesistenza del danno, dunque, è manifestamente destituito di fondamento giuridico, oltre a non essere sorretto, ancora prima, da qualsiasi risultanza probatoria dimostrativa del vantaggio economico, anche soltanto potenziale, derivato alle vittime dall’imposizione subìta;
-che l’aggravante dell’impiego del “metodo mafioso” non presuppone necessariamente la partecipazione dell’agente al sodalizio (tra moltissime: Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103); e così, pure, l’altra fattispecie circostanziale prevista dall’art. 416-bis.1, cit. (ovvero la finalità agevolativa del consorteria, a maggior ragione nei casi, come quelli in esame, in cui il delitto venga commesso in concorso con soggetti aderenti a quella), anch’essa ipotizzata dall’accusa e sulla quale il ricorso tace completamente;
che, infine, del tutto eccentrico è il riferimento difensivo alla consistenza degli elementi indiziari quale paramento di valutazione della proporzione della misura cautelare applicata: in assenza di un quadro di gravità indiziaria, infatti, nessuna misura potrebbe essere applicata, mentre, qualora esso venga ravvisato, la scelta dev’essere calibrata in ragione dei differenti criteri della tipologia e dell consistenza delle esigenze cautelari tipicamente previste dalla disciplina di rito.
L’inammissibilità del ricorso dell’indagato comporta obbligatoriamente per lui – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta
somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del P.M..
Dichiara altresì inammissibile il ricorso proposto da NOME COGNOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2024.