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Partecipazione mafiosa: la Cassazione fa chiarezza

La Corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di partecipazione mafiosa, ritenendo insufficienti gli indizi a carico di un soggetto. La Corte ha chiarito che, per configurare il reato associativo, non basta compiere attività illecite, anche gravi, ma è necessario dimostrare un inserimento stabile e organico nel sodalizio. Tuttavia, ha confermato la gravità indiziaria per un’estorsione aggravata dall’uso del metodo mafioso, specificando che tale aggravante non richiede la prova dell’effettiva appartenenza al clan, ma la percezione intimidatoria da parte della vittima.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Partecipazione mafiosa: quando l’azione individuale non basta a provare l’appartenenza al clan

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16483 del 2025, ha offerto un’importante lezione sui criteri necessari per provare la partecipazione mafiosa di un soggetto. In un caso complesso che ipotizzava la nascita di una nuova associazione criminale a struttura ‘confederativa’ nel nord Italia, i giudici hanno annullato la misura cautelare per il reato associativo, tracciando una netta linea di demarcazione tra le attività criminali di un singolo, per quanto gravi, e il suo effettivo inserimento in un sodalizio. Vediamo nel dettaglio i fatti e le motivazioni della Corte.

I Fatti del Processo

L’indagine ruotava attorno a un’ipotesi accusatoria molto particolare: la costituzione in Lombardia di un’associazione mafiosa ‘orizzontale’, composta da membri di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra. Al centro della vicenda vi era un imprenditore, accusato di avere un ruolo direttivo in questa nuova entità. Il Tribunale del riesame, riformando una precedente decisione del G.I.P., aveva ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza, ordinando la custodia in carcere per l’indagato sia per il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) sia per un’estorsione aggravata (art. 416-bis.1 c.p.).

Secondo il Tribunale, l’indagato e suo fratello, già noti come esponenti di una storica cosca, erano coinvolti in diverse attività illecite, tra cui:

* Infiltrazione nel settore edilizio e della ristorazione, attraverso società fittizie e sfruttando il meccanismo del ‘superbonus’.
* Pressioni e intimidazioni per acquisire esercizi commerciali in crisi.
* Partecipazione a ‘summit’ con altri esponenti criminali per risolvere controversie e pianificare strategie.

L’indagato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che le sue attività imprenditoriali fossero autonome e che i suoi contatti con altri soggetti criminali fossero limitati a specifiche questioni economiche, senza mai tradursi in un inserimento stabile nella presunta nuova associazione.

La distinzione chiave nella partecipazione mafiosa

La Corte di Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, operando una distinzione fondamentale tra i due capi di imputazione.

Annullamento per il reato associativo (art. 416-bis c.p.)

I giudici hanno stabilito che gli elementi raccolti non erano sufficienti a dimostrare né un ruolo di promotore/organizzatore, né una semplice partecipazione mafiosa. La Corte ha osservato che i contatti dell’indagato con altri esponenti, pur avvenuti, erano circoscritti a due incontri specifici per risolvere controversie economiche personali (una riguardante un investimento non andato a buon fine, l’altra un’estorsione di cui era accusato). Mancava la prova di un intervento dell’indagato nella pianificazione, organizzazione o gestione del presunto ‘sistema mafioso lombardo’.

Inoltre, le attività economiche dell’indagato, sebbene sospette e potenzialmente illecite, risultavano gestite in autonomia, senza un coinvolgimento organico di altri membri del sodalizio o una condivisione dei profitti nell’ottica di una ‘cassa comune’. L’azione del singolo, ha spiegato la Corte, è penalmente rilevante nel reato associativo solo quando si ‘salda’ con quella degli altri, diventando parte di un ‘fatto comune’. Se l’attività criminale, per quanto intensa, rimane un ‘fatto individuale e personale’, non può integrare il delitto di partecipazione mafiosa.

Conferma per l’estorsione con metodo mafioso

Diversa è stata la conclusione riguardo al reato di estorsione. In questo caso, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sussistenza dell’aggravante dell’uso del metodo mafioso (art. 416-bis.1 c.p.).

Le Motivazioni della Corte

La motivazione della sentenza si concentra su due principi cardine:

1. Per la partecipazione mafiosa serve la prova di un ruolo funzionale: non è sufficiente dimostrare che un soggetto commetta reati o frequenti altri criminali. È necessario provare che egli si ponga in un rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo, svolgendo un ruolo dinamico e funzionale al perseguimento degli scopi comuni del sodalizio. Nel caso di specie, questa prova mancava. Le attività dell’indagato apparivano confinate alla sua area di influenza, senza integrarsi nella condotta collettiva dell’associazione superiore.

2. Per l’aggravante del metodo mafioso basta la percezione della vittima: ai fini dell’applicazione di questa circostanza, non è necessario provare l’effettiva appartenenza dell’aggressore a un’associazione criminale. È sufficiente che egli abbia ingenerato nella vittima la consapevolezza, o anche solo il timore, di trovarsi di fronte a un soggetto che agisce con la forza intimidatrice tipica della mafia. Nel caso esaminato, la vittima dell’estorsione aveva percepito la minaccia come ‘mafiosa’, tanto da cercare protezione rivolgendosi ad altri soggetti di elevata caratura criminale, dimostrando di aver avvertito la provenienza della condotta da un contesto di criminalità organizzata.

Conclusioni

Questa sentenza è di estremo interesse perché ribadisce la necessità di un rigoroso accertamento probatorio per il grave reato di partecipazione mafiosa. La Cassazione ha evitato automatismi, sottolineando che anche un soggetto con un passato criminale significativo, che opera con metodi intimidatori e ha contatti con altri malavitosi, non può essere automaticamente considerato parte di un’associazione se la sua condotta non si inserisce in modo funzionale e stabile nella struttura e nell’operatività del gruppo. Al contempo, la decisione conferma un orientamento consolidato sull’aggravante del metodo mafioso, che si fonda più sulla percezione della vittima e sulla capacità intimidatoria sprigionata dalla condotta che non sullo ‘status’ formale dell’autore del reato.

Cosa è necessario per provare la partecipazione a un’associazione mafiosa?
Secondo la Corte, non è sufficiente compiere reati o avere contatti con altri criminali. È indispensabile dimostrare un inserimento stabile e organico nel sodalizio, con lo svolgimento di un ruolo dinamico e funzionale al raggiungimento degli scopi comuni dell’associazione. L’azione criminale deve essere parte di un ‘fatto comune’ e non rimanere un fatto individuale.

Quando si applica l’aggravante del metodo mafioso se non è provata l’appartenenza a un clan?
L’aggravante si applica quando l’autore del reato, a prescindere dalla sua effettiva appartenenza a un’associazione, agisce sfruttando la forza di intimidazione tipica della mafia, generando nella vittima una condizione di assoggettamento e omertà. È sufficiente la percezione della vittima che l’agente appartenga a un contesto di criminalità organizzata.

Perché la Corte ha annullato la misura per il reato associativo ma l’ha confermata per l’estorsione aggravata?
La Corte ha annullato la misura per il reato associativo perché gli indizi non provavano un inserimento stabile dell’indagato nella struttura del clan, ma solo attività criminali autonome. Ha invece confermato la gravità indiziaria per l’estorsione perché, per questo specifico reato, era emerso che la vittima aveva percepito la condotta come mafiosa, il che è sufficiente per integrare l’aggravante, anche senza la prova della partecipazione all’associazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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