Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 2767 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 2767 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME, nata a Crotone il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 11/07/2023 del Tribunale di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto AVV_NOTAIO Generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali hanno insisto per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale del riesame di Catanzaro confermava l’applicazione della custodia cautelare in carcere disposta nei confronti di COGNOME dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, in
relazione al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis cod. pen.).
Avverso l’ordinanza hanno presentato due distinti ricorsi i difensori di COGNOME.
Con il ricorso a firma dell’AVV_NOTAIO sono dedotti due motivi.
3.1. Errata applicazione dell’art. 416-bis cod. pen. in relazione agli artt. 192 e 273 cod. proc. pen.
Il Tribunale del riesame riprende testualmente, con un’inammissibile operazione di taglia-incolla, l’ordinanza di custodia cautelare e, quindi, la richiesta del Pubblico Ministero, laddove avrebbe dovuto dare ad ogni deduzione difensiva specifica risposta, svolgendo un inammissibile sillogismo: NOME è la compagna convivente di NOME COGNOME; NOME COGNOME è considerato il capo del clan dei papaniciari; qualunque condotta posta in essere da COGNOME funzionale agli interessi di COGNOME è, dunque, funzionale alla cosca mafiosa.
Tuttavia, dal compendio indiziario non emerge alcuno stabile inserimento della ricorrente nel tessuto associativo, peraltro con ruolo verticistico, ma soltanto una contiguità, non penalmente rilevante.
Nel ricorso è richiamato il colloquio in carcere tra NOME e il suo compagno in data 19/04/2008, a ridosso dell’omicidio di NOME COGNOME (figlio di NOME), durante il quale l’uomo avrebbe, per il tramite dell’indagata, veicolato una “imbasciata” ai sodali per il tramite della compagna.
Non si è verificato, tuttavia, se l’indagata avesse realmente riportato il messaggio all’esterno.
In dispregio della giurisprudenza di legittimità in materia di travisamento della prova, il Tribunale non ha inoltre considerato il dato dirimente che NOME COGNOME aveva già inviato ai sodali un messaggio di “cessate il fuoco” ben un mese prima.
Ancora, nel valorizzare la preoccupazione manifestata da NOME COGNOME all’indagata, ha trascurato come il primo fosse nipote del NOME, e che è del tutto comprensibile che un familiare del compagno esprima alla moglie di lui preoccupazione per l’incolumità propria e della propria famiglia.
Ha poi pretermesso come la donna, durante tale colloquio, avesse manifestato l’intenzione di andare via da Papanice unitamente al padre, circostanza sintomatica dell’assenza di qualunque vincolo associativo in capo all’indagata (che, diversamente, mai avrebbe neppure ventilato l’ipotesi di allontanarsi dal territorio in cui operava per conto del marito).
Vero è, inoltre, che da una intercettazione emergeva come COGNOME avesse riferito al suo interlocutore di aver chiesto all’indagata se poteva passare a casa di NOME COGNOME per fargli gli auguri e che però la donna si trovava fuori Regione, ricevendo da tale interlocutore – non dalla ricorrente – il consiglio di inserire gli «orecchini della bambina» nell’uovo di Pasqua e di consegnarlo a COGNOME. Tuttavia, dal tenore integrale della conversazione emergeva come la ricorrente non venisse messa al corrente degli affari del compagno, né vi è la prova che la consegna in oggetto fosse realmente avvenuta.
Anche le altre risultanze intercettate erano prive di valenza indiziaria.
Così, la captazione del 29/01/2019, nel corso della quale NOME COGNOME chiedeva alla donna di prelevare una somma di denaro da consegnare a NOME COGNOME che, a sua volta, avrebbe dovuto darla a NOME COGNOME. La coincidenza tra denaro contante nella disponibilità di NOME COGNOME e l’asserita “bacinella” e, soprattutto, la presunta conoscenza della sua esistenza e consistenza, nonché la gestione della stessa da parte dell’indagata, restano allo stato di mere congetture, tanto più che nel corpo dell’intera mozione cautelare la gestione della “bacinella” è attribuita a NOME COGNOME.
Neppure il Tribunale ha spiegato, in replica alle deduzioni difensive, in che termini la consegna di denaro a NOME COGNOME, su indicazione del compagno, potesse definirsi un contributo all’associazione.
Ancora, quanto all’intercettazione del 12/12/2016, in cui NOME COGNOME, moglie del nipote di NOME, NOME COGNOME, e quindi anch’ella nipote acquisita, chiamava NOME, che stava accompagnando il marito, si era rilevato come l’indagata, pur rimanendo perplessa di fronte alla telefonata, non si mostrasse preoccupata per un’eventuale visita delle forze dell’ordine, tanto da rassicurare il compagno. Emblematica era poi la circostanza che, una volta tornati a casa, questi si separasse dalla moglie senza informarla di nulla.
Risultava dunque evidente che la donna non era messa a parte degli affari de compagno. Né la motivazione del Tribunale, che valorizza il già rilevato supposto ruolo ancillare di NOME, appare coerente con il riconoscimento, in capo alla stessa, di una posizione di vertice all’interno dell’associazione.
Per quanto poi concerne la presunta attività di intermediazione svolta da COGNOME per conto del compagno, al di là del riferito colloquio del 2008, nel provvedimento custodiale non era riportato alcun elemento sintomatico.
Pertanto, già nella memoria difensiva si era evidenziato come lo stesso Pubblico ministero avesse rilevato la mancanza di prova di un rapporto illecito tra la famiglia di COGNOME, e dunque la COGNOME, e COGNOME.
Ancora, con riferimento a NOME COGNOME, anch’egli non attinto da misura per il reato associativo, nella stessa richiesta di misura cautelare si affermava che
questi chiamò NOME per cercare NOME COGNOME, ma che poi le disse che si sarebbe messo direttamente in contatto con il marito.
Ancora, tra l’intercettazione ambientale del 2008 e un contatto ulteriore con i sodali trascorsero ben otto anni, la successiva intercettazione collocandosi nel 2016.
Di conseguenza, durante l’intera detenzione di NOME COGNOME, cessata nel 2014, e per due anni successivi, non è stata ipotizzata altra condotta partecipativa di NOME, il che contrasta con i pacifici principi sulla stabilità dell’apporto associat e sulla necessità di una affectio societatis.
In conclusione, gli elementi considerati difetterebbero dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’articolo 192, comma 2, cod. proc. pen., non potendosi certo attribuire rilievo alle ulteriori condotte addebitate all’indagata come il fatto che avesse accompagnato il compagno agli incontri o avesse adoperato la propria utenza cellulare per consentirgli di comunicare con altri soggetti -, considerato il rapporto di parentela con NOME COGNOME e la mancanza di consapevolezza di operare per conto dell’uomo come capo cosca, piuttosto che come marito.
Rilevante è, d’altronde, la giurisprudenza di legittimità, in particolare ove afferma che i contatti, le relazioni e le frequentazioni in contesti territoriali rist non sono di per sé soli idonei a fondare il giudizio positivo circa la partecipazione all’organizzazione mafiosa, comunque denominata, e si rileva come, nel caso di specie, non risultava dimostrata alcuna condotta funzionale agli interessi della associazione, e, a monte, nemmeno la formale affiliazione dell’indagata al sodalizio.
L’ordinanza impugnata contrasta anche con Sez. U del 27/05/2021, Modaffari, Rv. 281889, secondo cui l’inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dar luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi, nel rispetto dei principi di materialità ed offensività.
Neppure il ruolo apicale di NOME è stato dimostrato, non avendo il Tribunale spiegato in che cosa concretamente tale ruolo si sarebbe estrinsecato ed emergendo pacificamente dal compendio investigativo come l’indagata, al contrario, in costanza di detenzione del compagno, “non” abbia assunto alcun ruolo verticistica quale reggente del gruppo, tantomeno risultando proposta, in seno all’associazione, alla gestione autonoma di un settore di attività illecite.
3.2. Violazione degli artt. 274 e 275 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Nei motivi di riesame la difesa aveva censurato la motivazione dell’ordinanza genetica in punto di esigenze cautelari, perché generica ed indifferenziata in quanto motivata con riferimento a tutti i soggetti indagati per il delitto associativo
Tuttavia, il Tribunale del riesame non ha aggiunto alcunché a quelle stringate considerazioni, limitandosi ad una motivazione apodittica e trincerandosi dietro la presunzione di pericolosità di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Già prima della riforma del 2015, d’altronde, la Corte di cassazione aveva richiamato all’esigenza di un effettivo vaglio degli elementi di fatto. Più ancora più dopo la novella, si è richiesta un’argomentazione specifica ed autonoma, essendo il giudice tenuto ad individuare gli elementi rilevanti ed attribuire agli stessi u significato preciso, e a dimostrare l’attualità e concretezza del pericolo.
Il Tribunale del riesame è, per contro, ricorso a formule di stile e stereotipate, senza fornire alcuna spiegazione né autonoma valutazione sulla posizione di COGNOME, e pretermettendo la valutazione di elementi pure eccepiti dalla difesa quali l’assoluta incensuratezza dell’indagata e la collocazione delle condotte delittuose contestate, a tutto voler concedere, fino al 2019: elementi che avrebbero imposto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, piuttosto un innalzamento dello standard dimostrativo.
Nel ricorso a firma dell’AVV_NOTAIO sono dedotti tre motivi.
4.1. Violazione ed errata applicazione dell’art. 292, comma 2, lett. b), c) e cbis) cod. proc. pen., in relazione all’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., e vizio di motivazione.
L’ordinanza impugnata non ha accolto l’eccezione di nullità dell’ordinanza cautelare generica la quale era priva dell’esposizione dei fatti contestati e presentava una motivazione solo apparente: sia in ordine alla gravità indiziaria, essendosi il Giudice per le indagini preliminari limitato a riportare le risultanze investigative indicate nella richiesta di misura cautelare, ritenendole auto-evidenti, piuttosto che approfondire la posizione della ricorrente e valutare criticamente le fonti indiziarie, singolarmente assunte e complessivamente considerate; sia in ordine alle esigenze cautelari, dove il Giudice si è soltanto avvalso della presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Il Tribunale non ha mai fatto esplicito e dettagliato riferimento ai passaggi dell’ordinanza di custodia cautelare che riteneva dovessero smentire le eccezioni difensive, essendosi limitato a richiamare principi giurisprudenziali non risolutivi né pertinenti riguardo alla possibilità di integrare le lacune dell’ordinanza genetica.
Tale profilo è però diverso da quello dedotto, posto che la difesa aveva, piuttosto, lamentato il difetto di autonoma motivazione della ordinanza di custodia cautelare e l’uso patologico della motivazione per relationem (che è proprio quanto la riforma della I. 47/2015 intendeva scongiurare).
4.2. Violazione ed errata applicazione dell’art. 416-bis cod. pen., anche in relazione agli artt. 192 e 273 cod. proc. pen.
La difesa, con memoria difensiva in sede d’udienza, aveva già sottolineato che il presunto quadro di gravità indiziaria a carico della ricorrente era difettoso, poiché costituito da poche e sporadiche intercettazioni prive di capacità probante, rilevando le medesime incongruenze già eccepite nel precedente ricorso.
Quanto al presunto ruolo di intermediazione che l’indagata avrebbe svolto per il compagno, nella memoria si segnalava: la totale assenza di elementi comprovanti tali condotte; l’esistenza di contatti soltanto sporadici tra NOME e soggetti nemmeno indagati per il delitto associativo; come nessun collaboratore avesse mai fatto il nome della ricorrente e, in conclusione, che il materiale non forniva elementi idonei a ritenere gravemente indiziata la presunta partecipazione partecipativa apicale della donna, non potendo certo bastare l’aver accompagnato saltuariamente NOME COGNOME ad alcuni incontri o aver utilizzato la propria utenza cellulare per consentirgli di comunicare con altri soggetti, considerato il legarne che univa i due e l’assenza di prove in ordine alla colpevolezza di operare per agevolare un presunto capo cosca.
Il Tribunale ha inferito il ruolo partecipativo apicale della ricorrente dall presunta conoscenza che questa avrebbe avuto delle metodologie usate per scongiurare le investigazioni e delle dinamiche del “rendere onore” ad un componente l’associazione: asserendo la vicinanza a NOME COGNOME e il ruolo di fiducia di cui la donna godeva nelle gerarchie criminali.
Ha invece svalutato: il carattere sporadico delle condotte; la configurabilità di un rapporto di mera contiguità non punibile con NOME COGNOME; la circostanza che COGNOME non avesse fatto assistere COGNOME ad alcuni incontri – elemento che rende impossibile, anche sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, riconoscere in capo a COGNOME il ruolo di organizzatrice e dirigente, ma indebitamente depotenziato nella motivazione del provvedimento impugnato mediante un riferimento congetturale al ruolo culturalmente ancillare della donna all’interno del contesto criminale -; la mancata menzione del nome della ricorrente tra quelli menzionati dai collaboratori di giustizia.
Il Tribunale, dunque, lungi dal confutare specificamente le censure contenute nella memoria difensiva, si è limitato a riportare gli elementi ritenuti rilevant avallando l’interpretazione resa dai Pubblici ministeri e dal Giudice e per le indagini preliminari, con ciò incorrendo in un vizio di motivazione.
Altra omissione rilevante ha riguardato l’effettiva partecipazione dinamica e apicale della ricorrente ai piani criminosi della consorteria nonché la gestione da parte della stessa della “bacinella”.
Ancora, il Tribunale, nulla ha replicato in merito alla rilevata contraddizione rispetto alla attribuzione specifica di tale ruolo, nel corpo motivo della richiest applicativa della misura, al solo NOME COGNOME.
Le prove sono poi state travisate là dove si è affermato che COGNOME avrebbe ininterrottamente ricoperto il ruolo associativo dal 2008 al 2019, mentre dal materiale indiziario risulta che “periodo silente” si era protratto dal 2008 sino al 2016.
L’ordinanza ha taciuto riguardo alla investitura formale del ruolo apicale in capo a COGNOME, nonostante nella struttura associativa di tipo ‘ndranghetista tale investitura rappresenti un ineludibile presupposto per l’ascesa gerarchica, occorrendo non soltanto che il ruolo sia auto-proclamato, ma che sia anche riconoscibile e riconosciuto nell’ambito del sodalizio oltreché, se espletato a livello locale, dalle strutture gerarchicamente sovraordinate (laddove, peraltro in modo contraddittorio, si è già detto che l’ordinanza riconosce esplicitamente a COGNOME un ruolo ancillare rispetto al marito).
I Giudici del riesame hanno trascurato, ancora, il già richiamato insegnamento Sezioni Unite della corte di cassazione che richiede che il singolo offra un concreto contributo alla consorteria che non può risolversi in un dato meramente formale.
Infine, hanno omesso di considerare come la disponibilità debba emergere con riferimento alla totalità dei fini associativi e non deve essere di mero supporto eventuale ed estemporaneo ad un solo partecipe: principio perfettamente calzante nel caso di COGNOME, alla quale può, al più, attribuirsi un rapporto con il solo marito detenuto, di natura meramente solidaristica e familiare, come tale non penalmente rilevante.
Peraltro, esaurendosi il materiale indiziario nelle intercettazioni, queste avrebbero dovuto essere più cautamente valutate, evitando di confondere la mera frequentazione di appartenenti all’associazione con l’intraneità quale messa disposizione e consapevole per la realizzazione di una serie indefinita di reati.
4.3. Violazione ed errata applicazione degli artt. 274 e 275 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
L’ordinanza impugnata è illegittima anche nella parte in cui ha respinto la richiesta, avanzata in subordine, di applicare una misura cautelare meno gravosa.
Detta richiesta era basata sul fatto che la motivazione dell’ordinanza genetica era formulata collettivamente per tutti gli indagati senza specifico riferimento alla ricorrente e che il Giudice per le indagini preliminari non aveva considerato la incensuratezza di NOME, né la sporadicità delle sue condotte, né, ancora, la distanza temporale dalle ultime evenienze indiziarie.
I Giudici del riesame si sono limitati a richiamare la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., motivando, quindi, in modo assertivo e aspecifico, ed hanno trascurato che il pericolo di reiterazione del reato deve essere concreto ed attuale, sicché occorre che il Tribunale argomenti la previsione, con alta
probabilità, che all’imputato si presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti della stessa specie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, dal contenuto per larga parte sovrapponibile, sono fondati e devono essere, dunque, accolti.
L’ordinanza impugnata afferma a NOME COGNOME è contestato di rivestire un ruolo organizzativo direttivo, in quanto fungeva da anello di collegamento tra il compagno convivente NOME COGNOME, anche quando detenuto, e gli altri appartenenti al sodalizio che, per il suo tramite, ricevevano notizie, informazioni e direttive da eseguire sul campo; organizzava appuntamenti tra gli esponenti del sodalizio; raccoglieva il denaro da far confluire nella “bacinella” di cui conosceva anche consistenza ed ubicazione.
I giudici del Tribunale del riesame ritengono che in relazione a tale contestazione sussistono plurimi elementi indizianti, rappresentati da attività captative tra il 2008 e il 2019 nelle quali emergerebbe il ruolo di latrice di messaggi tra i sodali e il marito.
Spiegano come la consapevolezza della donna emerga da una conversazione, svoltasi in carcere, nel 2008, con NOME COGNOME, in un periodo di forte fibrillazione verificatosi dopo l’omicidio del figlio di NOME e nel corso del quale l donna fu dal compagno espressamente incaricata di veicolare importanti ordini sui comportamenti che gli associati avrebbero dovuto assumere («digli di temporeggiare a loro … che gli faccio capire che quando esco se ne parla» ecc.).
Evidenzia come, nel corso di tale conversazione, l’indagata riportava anche messaggi preoccupati degli accoliti circa il comportamento da tenere e cita in proposito il passaggio del medesimo colloquio in cui la donna riferiva di aver incontrato NOME (COGNOME) («mi ha detto NOME che noi ci dobbiamo guardare … che noi non è che possiamo stare … che intenzioni ha? che intenzioni tiene lo zio NOME … perché non ci spaventiamo… Noi dobbiamo sapere»), ricevendo indicazioni su come rispondere («Glielo dici … NOME è come quello che è uscito alla televisione… Mo deve ancora fare dei colloqui… Poi si fa un bel ragionamento e si vede»).
Quindi, il Tribunale argomenta l’importanza di tale colloquio in quanto in esso si chiarivano le dinamiche criminali che avevano portato all’assassinio del figlio del boss e perché i due congiunti commentavano che i contrasti tra NOME COGNOME e NOME COGNOME (uno degli assassini del figlio) avrebbero dovuto essere risolti tra i due senza interessare altre realtà criminali poiché tali atteggiamenti davano luogo a veri e propri schieramenti.
Il Tribunale del riesame aggiunge che, nel commentare tali dati, NOME informava il marito dell’esistenza di timori di ritorsione da parte di al appartenenti al gruppo e citava due esponenti della cosca NOME, ottenendo in risposta dal marito l’indicazione che non avrebbero dovuto reagire, ma attendere la sua scarcerazione.
Ancora, e sempre a proposito del medesimo colloquio, si riferisce che la donna «riceveva direttive dal congiunto» il quale, sebbene avesse lanciato un messaggio di tregua, al tempo stesso pretendeva di conoscere gli assassini del figlio, insinuando la possibilità di una vendetta trasversale.
I Giudici, poi, richiamano a una intercettazione in data 18/04/2014 tra NOME COGNOME i fratelli NOME e NOME COGNOME nonché NOME COGNOME, in cui COGNOME riferiva al COGNOME che aveva tentato, tramite COGNOME, di contattare il marito per consegnargli una imprecisata somma di denaro.
Riferiscono che, in data 14/12/2018, si intercettava un dialogo da cui emergeva come la donna, sempre per conto del marito, avesse occultato apparecchi cellulari che, per il fatto stesso che dovevano essere nascosti, risultavano coerenti certamente utili alla conduzione di qualche affare illecito.
Ancora, in data 29/01/2019 si registrava altro colloquio da cui risultava che NOME avesse la disponibilità di molto denaro contante e che il luogo del nascondiglio era conosciuto dalla donna, la quale, su indicazione del boss, dopo averlo prelevato, lo consegnava nelle mani di NOME COGNOME, che l’avrebbe poi dato all’imprenditore agricolo NOME COGNOME.
Del 02/05/2019 era poi altra conversazione: NOME si recava presso l’abitazione di NOME COGNOME nonostante questi fosse sottoposto alla misura degli arresti domiciliari e chiedeva a lui che cosa ne pensasse della possibilità che la sua abitazione fosse monitorata dalle forze dell’ordine, rammaricandosi di essersi nuovamente dimenticata il cannocchiale per consentire a NOME di verificare la presenza delle forze dell’ordine e ricevendone rassicurazioni in ordine al fatto che la casa fosse stata bonificata. NOME COGNOME si lamentava, allora, con NOME del fatto che alcuni appartenenti l’organizzazione avessero smesso di fargli visita in quanto allarmati, stigmatizzando però il fatto che non si facevano remore a contattarlo quando avevano bisogno di piaceri personali. NOME condivideva il rammarico di NOME affermando che costoro ne avrebbero pagato le conseguenze («ma sembra che io mi dimentico… Non è che mi dimentico … e fanno tutti i saputi, fanno»).
Fanno riferimento alla captazione della conversazione tra NOME e il marito all’interno della Fiat Panda, quando i due si stavano recando presso la questura di Crotone, per gli obblighi connessi alla misura di prevenzione cui NOME era sottoposto, e NOME veniva contattata dalla moglie di NOME COGNOME, che la esortava a recarsi con urgenza a casa in quanto le doveva fornire un medicinale per la figlia.
NOME rassicurava l’interlocutrice e, una volta chiusa la conversazione, riferiva il contenuto della telefonata al marito, il quale esternava il timore che presso la propria abitazione ci potesse essere personale dei Carabinieri. Peraltro, nell’ordinanza impugnata si precisa anche che, una volta rientrati a casa, NOME invitava la convivente a recarsi in casa perché lui si doveva allontanare per eseguire una ambasciata.
In definitiva, secondo i Giudici di merito, tali colloqui svelerebbero la «conoscenza da parte dell’indagata delle metodologie utilizzate per evitare le investigazioni, le dinamiche del “rendere onore” ad un componente l’associazione, la forte vicinanza della moglie de boss a NOME, e quindi del ruolo di grande fiducia di cui ella godeva nelle gerarchie criminali del contesto investigato».
Se desumono la conferma della gravità del quadro indiziario e la stabile organica compenetrazione dell’indagata con il tessuto organizzativo alla stregua dell’insegnamento di Sez. U del 27/05/2021, cit.
In realtà, anche prescindendo dai rilievi difensivi volti a eccepire l’omessa risposta alle specifiche deduzioni svolte in sede di riesame, dal corpo motivazionale dell’ordinanza impugnata non emergono elementi suscettibili di gravemente indiziare l’ipotesi accusatoria con riferimento alla partecipazione dell’indagata all’associazione e, tantomeno, il ruolo apicale che si assume in essa rivestito.
Se infatti è indubbio che, in tema di applicazione di misure cautelari personali, gli indizi di colpevolezza non devono essere valutati secondo i medesimi criteri richiesti per il giudizio di merito, essendo sufficiente la sola gravità di ess evidenziata da qualsiasi elemento idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità della responsabilità dell’indagato, e non anche la precisione e la concordanza (Sez. 2, n. 8948 del 10/11/2022, dep. 2023, Pino, Rv. 284262), nel caso di specie, è proprio tale gravità a difettare, in ragione della natura ambivalente di ciascun elemento, di per sé preso.
Tale deficit, già sul piano astratto non è ovviamente colmabile dalla ricorrenza di altri elementi del pari ambivalenti e, peraltro, nel caso di specie, anche sporadici, in quanto distanziati l’uno dall’altro lungo un ampio arco temporale.
3.1. Quanto specificamente all’ipotesi partecipativa, i comportamenti descritti dall’ordinanza appaiono difficilmente disambiguabili a causa del rapporto di parentela che intercorre tra il capo-clan NOME COGNOME e l’indagata.
Tale rapporto è infatti suscettibile, almeno in parte – ed allo stato dell emergenze investigative -, di giustificare la ragione per cui altri membri del nucleo familiare si fossero rivolti alla donna per esternare le proprie preoccupazioni e ricevere indicazioni, e priva di molta pregnanza anche il tenore dell’unica conversazione (l’ordinanza usa ricorrentemente il plurale, ma sembra invero
riferirsi ad un solo colloquio in carcere, svoltosi peraltro nel lontano 2008) tra NOME COGNOME e la compagna: dato sul quale l’ordinanza insiste ricorrentemente e da cui fa discendere, con un salto logico, che la donna avrebbe “costantemente” svolto il ruolo di trait d’union tra il capo-clan in carcere e la cosca all’esterno.
Tuttavia, se è vero che, come precisato da questa Corte, integra il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso la condotta di chi offre il proprio contributo materiale ai fini della trasmissione di messaggi e direttive tra il soggetto in posizione apicale latitante e gli appartenenti alla consorteria in libertà, così da consentire al primo di continuare a dirigere l’associazione mafiosa, in quanto tale attività si risolve in un contributo causale alla realizzazione del ruolo direttivo de sodalizio nonché alla conservazione ed al rafforzamento di quest’ultimo (Sez. 6, n. 3595 del 04/11/2020, dep. 2021, T., Rv. 280349), è anche vero come la stessa massima di diritto precisi che tale contributo deve essere, oltre che fiduciario, “continuativo”.
Tale caratteristica – a prescindere dalle ulteriori deduzioni difensive tese a depotenziare il ruolo causale del contributo di NOME, poiché il messaggio di tregua sarebbe già stato inviato dal COGNOME, in forma pubblica, un mese prima – non è rinvenibile nel caso di specie, mancando – si ripete – evidenza di altri, analoghi episodi suscettibili di far inferire un quadro di sistematico asservimento della donna all’attività e agli scopi dell’associazione criminale.
Neutro, in tal senso, appare anche il dato della visita di NOME COGNOME a casa di altro esponente della cosca di Papanice (NOME COGNOME), senza nulla precisare in ordine al presumibile rapporto di parentela con lo stesso e a poco rilevando, ai fini dell’ipotesi associativa, che la donna si mostrasse al corrente del’ eventualità che il suo ospite fosse sorvegliato (si trovava peraltro agli arresti domiciliari) e che s fosse rammaricata di essersi ancora una volta dimenticata di portargli un cannocchiale.
Più pregnante, ma sempre chiaroscurale, è la circostanza che la donna avesse provveduto all’occultamento dei cellulari (evidentemente destinati ad uso illecito), ben potendo anche tale opera di “fiancheggiamento” essere stata svolta per favorire il compagno, e quindi in una prospettiva di “solidarietà familiare”, piuttosto che per realizzare gli scopi e gli interessi dell’associazione.
Trova, in definitiva, nel caso di specie conferma la massima di diritto secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d’affar ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti non costituiscono elementi di per sé sintomatic dell’appartenenza all’associazione, ma possono essere utilizzati come riscontri da
valutare ai sensi dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante (Sez. 6, n. 9185 del 25/01/2012, Biondo, Rv. 252281): ciò che, nell’ordinanza impugnata, nonostante le contrarie affermazioni dei Giudici di merito, non appare adeguatamente motivato.
Un diverso discorso andrebbe svolto quanto alla gestione della c.d. “bacinella: suscettibile, questa sì, di gravemente indiziare un ruolo attivo e sistematico all’interno dell’associazione in capo a COGNOME, e quindi un contributo materiale e significativo alla realizzazione dei suoi scopi.
Tuttavia, tale condotta, pur evocata nel provvedimento impugnato, resta espressa, come eccepito nei ricorsi, in forma meramente congetturale, non essendo supportata dal richiamo a specifiche risultanze investigative.
3.2. Ancor meno persuasiva, se non addirittura contraddittoria, appare l’attribuzione a COGNOME di un ruolo apicale all’interno dell’associazione.
Dalla stessa ordinanza impugnata emerge come la donna accompagnasse il compagno alle riunioni ma che non vi prendeva parte.
La giustificazione di stampo sociologico-culturale ipotizzata dai Giudici di merito, relativa al ruolo ancillare della donna nel contesto mafioso, quand’anche fondata, non supererebbe il dato oggettivo della mancata partecipazione della donna all’ideazione e all’attuazione delle strategie operative della cosca.
Il dato dell’esclusione della donna dagli incontri dei capo-clan rende impossibile ascrivere alla stessa un ruolo dirigistico, vieppiù nell’assoluto silenzio della motivazione del provvedimento impugnato su elementi alternativi da cui desu merlo.
Il ruolo apicale di COGNOME all’interno dell’associazione deve essere, di conseguenza, recisamente escluso.
Precisato che i motivi sulle esigenze cautelari restano conseguentemente assorbiti, si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata, affinché i giudici del rinvio motivino in ordine alla configurabilità di una partecipazione associativa dell’indagata al di là delle sporadiche ed ambivalenti condotte dalla stessa realizzate, peraltro tenute a distanza di anche considerevole tempo l’una dall’altra.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Catanzaro competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, cod. proc. pen. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 20/12/2023