Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 29120 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 29120 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 03/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a Mazara del Vallo il 21/01/1980
avverso la sentenza del 22/05/2023 della Corte d’appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME difensore della parte civile Comune di Castelvetrano, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato e che l’imputato venga condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla suddetta parte civile, come da nota che allega;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udito l’Avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’Avv. NOME COGNOME difensore del Comune di Campobello di Mazara, e dell’Avv. NOME COGNOME, difensore del Comune di Castelvetrano, la quale ha depositato conclusioni scritte e nota spese, delle quali ha chiesto la liquidazione;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME il quale, dopo la discussione, si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;
udito l’Avv. NOME COGNOME sempre in difesa di NOME COGNOME il quale, dopo la discussione, si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 22/05/2023, la Corte d’appello di Palermo confermava la sentenza del 15/12/2021 del Tribunale di Marsala con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di 18 anni di reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di: 1) partecipazione all’associazione di tipo mafioso “Cosa Nostra”, aggravata dall’essere l’associazione armata e dall’avere finanziato le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo con il prodotto o il profitto di delitti, di cui al ca dell’imputazione (nel quale era stato in particolare contestato al NOME di «avere diretto e controllato il settore economico dell’esercizio di giochi e scommesse affidando alcune delle relative agenzie ad altri associati mafiosi; per avere destinato parte dei proventi economici delle proprie attività imprenditoriali al sostentamento delle famiglie mafiose di Castelvetrano, di Campobello di Mazara e di Mazara del Vallo; per aver garantito il costante collegamento fra queste ultime famiglie; per aver assicurato il sostentamento di singoli associati mafiosi detenuti e, in particolare, di NOME COGNOME e di sua moglie NOME COGNOME); 2) tentata estorsione continuata e pluriaggravata (dai cosiddetti metodo mafioso e agevolazione mafiosa e dall’essere stata la violenza o minaccia posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen.) in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) a danni di NOME COGNOME di cui al capo 2) dell’imputazione; 3) trasferimento fraudolento di valori aggravato (dalla cosiddetta agevolazione mafiosa) per avere fittiziamente attribuito a NOME COGNOME e a NOME COGNOME la titolarità dell’associazione “Menzil Salah”, di cui al capo 6) dell’imputazione; 4) trasferimento fraudolento di valori per avere fittiziamente attribuito a NOME COGNOME la titolarità di una quota sociale di “RAGIONE_SOCIALE di cui al capo 7) dell’imputazione; 5) trasferimento fraudolento di valori per avere fittiziamente attribuito a NOME COGNOME la titolarità dell’impresa individua “COGNOME” avente a oggetto l’esercizio del “RAGIONE_SOCIALE” di cui al capo 8) dell’imputazione; 6) trasferimento fraudolento di valori per avere fittiziamente attribuito ad NOME COGNOME la titolarità dell’impresa individual “COGNOME NOME” avente a oggetto l’attività di noleggio auto con conducente, di cui al capo 10) dell’imputazione. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
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Avverso tale sentenza del 22/05/2023 della Corte d’appello di Palermo, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME affidato a dieci motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione di legge e il difetto della motivazione con riguardo all’attribuzione di responsabilità per il reato di partecipazione a un’associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell’imputazione.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo avrebbe incentrato la propria motivazione sulla mafiosità delle persone con le quali egli intratteneva rapporti e sulla pretesa mancanza di pressioni ambientali ai suoi danni, oltre che sulla suggestività di alcune condotte dello stesso imputato (bonifica dei propri locali da microspie, utilizzo di strumenti di comunicazione difficilmente intercettabili, «atteggiamento spavaldo» nel dialogare) e sulla sua fortuna imprenditoriale, finendo col trascurare la (asseritamente) dimostrata assenza di rapporti sinallagmatici di natura mafiosa che potessero avere giustificato tale fortuna imprenditoriale, l’esistenza dei quali sarebbe «probatoriamente nient’affatto nitida».
Il ricorrente afferma che la Corte d’appello di Palermo avrebbe ritenuto che l’asserita mancanza di prova del dedotto «contesto di condizionamenti relazionali dei quali l’imputato fu evidentemente vittima» costituirebbe un argomento a sostegno dell’intraneità dell’imputato. Tale ragionamento sconterebbe, però, due difetti di prospettiva. Il primo sarebbe che, a parte il caso delle dazioni di denar a NOME COGNOME e a sua moglie NOME COGNOME quanto alle – peraltro scarse dazioni di denaro ad altri associati, l’assenza di alcuna effettiva controprestazione finirebbe col qualificarle come frutto di imposizione e non come supporto alla consorteria. Il secondo difetto di prospettiva sarebbe che il contributo alla vita associativa, necessario per la sussistenza del reato, non potrebbe essere surrogato dall’assenza di costrizione alla dazione delle somme, almeno fin tanto che non si dimostri, ciò che nella specie non sarebbe possibile fare, che per quantità e utilizzo le somme corrisposte siano state funzionali alla vita associativa e che di tanto chi le aveva erogate era consapevole. Insomma, il fatto della dazione di somme ai consociati sarebbe «neutro in assenza di dimostrazione certa della sua causa».
Quanto, in particolare, alle dazioni di denaro in favore di NOME COGNOME e di sua moglie NOME COGNOME il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo avrebbe obliterato il dato, che era stato segnalato nel proprio atto di appello anche mediante il richiamo alle relative risultanze istruttorie, che il rapporto che lo legav alle suddette due persone era un rapporto di conoscenza risalente, dovuto anche al fatto che il proprio padre aveva tenuto a battesimo NOME COGNOME. A fronte di ciò, il curriculum criminale d NOME COGNOME nulla direbbe in ordine all’animus che
era alla base delle dazioni di denaro in suo favore. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo avrebbe anche trascurato la censura con la quale era stato evidenziato il contenuto del proprio intercettato dialogo del 02/04/2018 con NOME COGNOME nel corso del quale egli aveva affermato di avere erogato somme, peraltro tutt’altro che ingenti, per sola generosità.
Sempre a proposto delle dazioni di denaro a NOME COGNOME e a sua moglie NOME COGNOME il ricorrente contesta che la causale mafiosa della suddette dazioni di denaro, in luogo dell’asseritamente dimostrata spontaneità di esse per il rapporto di pregressa conoscenza, potesse essere confermata dai fatti che: a) egli avesse vantato le stesse dazioni con NOME COGNOME atteso anche che, con tale vanteria, egli intendeva semmai contenere eventuali pretese economiche del Messina; b) egli effettuasse dazioni di denaro anche a NOME COGNOME; c) la dazione di denaro ai carcerati costituisse ordinariamente appannaggio dei sodali.
Nel rappresentare che, se la propria partecipazione alla consorteria mafiosa avveniva tramite esborsi ai sodali di denaro proveniente dalla propria attività imprenditoriale e se la contropartita di tali dazioni era costituita «dalla espansione protetta della sua intrapresa economica», diventerebbe cruciale la questione della qualità della sua impresa, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo, pur avendo affermato che tale impresa non era mafiosa, anziché prenderne atto, abbia asserito il «disinvolto modo del NOME di fare impresa avendo a mente sempre e costantemente gli interessi dei vertici del sodalizio (e non solo), ottenendo una certa protezione e ricambiando l’assetto favorevole dei suoi interessi con lauti e costanti apporti». A tale proposito, il ricorrente contesta ch «avere bene in mente gli interessi dei vertici del sodalizio non equivale né ad avere in mente gli interessi del sodalizio in sé né operare per realizzarli». Inoltre, no sarebbe possibile «assegnare a sintagmi sfuocati», quale «ottenendo una certa protezione», e ad affermazioni errate in fatto, quale «lauti e costanti apporti», i compito di dimostrare quanto è necessario per pervenire a una pronuncia di condanna.
Il tema in questione, che il ricorrente ritiene cruciale, non sarebbe adeguatamente trattato dalla Corte d’appello di Palermo, tenuto conto anche del fatto che la propria difesa aveva sostenuto che, a parte le dazioni di denaro a NOME COGNOME e a NOME COGNOME, quelle in favore di NOME COGNOME come pure le altre, erano frutto di coazione ambientale alla quale egli aveva ceduto per timore di ritorsioni.
Il COGNOME lamenta poi che, a fronte della contestazione, contenuta nel capo d’imputazione, di «aver diretto e controllato il settore economico dell’esercizio dei giochi e scommesse affidando alcune delle relative agenzie ad altri associati mafiosi», la Corte d’appello avrebbe accertato che «la genesi dell’impresa del
NOME e le risorse fruite per la sua gestione non hanno a che spartire col malaffare, ad esso non dovendo alcun riconoscimento e avendolo semmai alimentato» (così il ricorso), sicché egli «da sodale incaricato di gestire il setto economico delle scommesse riferibile direttamente alla consorteria secondo l’imputazione, diventa imprenditore autonomo che mette a servizio dei sodali il frutto del suo onesto lavoro», con il conseguente dubbio in ordine alla correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ai sensi dell’art. 521 cod. proc. pen.
Con riguardo al suo ritenuto ruolo di finanziatore di sodali, il ricorrent rappresenta che esso non si spiegherebbe alla luce del fatto che degli esborsi da lui effettuati si desse notizia tra gli stessi sodali come un fatto non ordinario. NOME asserisce che, secondo la Corte d’appello di Palermo, egli non sarebbe un finanziatore ma «un soggetto che ha acquisito spazio di manovra, foraggiando alcuni sodali con essi evidentemente con loro sceso a patti».
Ciò sarebbe però smentito, anzitutto, dalla vicenda relativa all’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, rispetto alla quale la Corte d’appello di Palermo avrebbe affermato che, attraverso l’imputato, NOME COGNOME partecipava agli utili dell’associazione, alla quale lo stesso imputato prendeva occultamente parte. La stessa Corte d’appello, tuttavia, avrebbe obliterato il dato che la suddetta associazione non solo non aveva prodotto utili ma era stata sempre in perdita sino al suo sequestro, con la conseguenza che diverrebbe evidente che la somma che era sborsata mensilmente dal Luppino all’Urso (€ 500,00 per tre mesi) costituiva non una partecipazione agli utili dell’associazione ma il frutto di un’imposizione, per effett dell’intimidazione, ancorché non espressa, subita dal Luppino.
Allo stesso modo, l’apertura, pure in perdita, di una sala scommesse per il protetto di NOME COGNOME,NOME COGNOME, rafforzerebbe la tesi che il Luppino «subisce piuttosto che partecipare». A tale proposito, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo, dopo avere affermato una relazione mutualistica tra sé e l’COGNOME, la quale lo avrebbe indotto ad aprire la sala scommesse al COGNOME, «manca poi di declinare in concreto quale sarebbe l’utilità finale che l’imprenditore riceva da questo rapporto, che rimane agganciata a opache diciture evocative del malaffare (espansione territoriale, protezione e via dicendo) mai corredate di dati concreti a supporto». Il ricorrente deduce che, in realtà: a) da un lato, con riguardo all’aiuto in favore del Dell’Aquila, «nemmeno si allega quale sarebbe stata l’efficacia mutualistico-associativa del gesto, che sembra dunque restare confinato nell’interesse personale di Urso»; b) dall’altro lato, il richiamo rivolto dal COGNOME ad NOME COGNOME, cognato dell’Urso, che questi si attivasse affinché il Dell’Aquila pagasse il dovuto, escluderebbe la condotta associativa, atteso che «cade per questa via l’idea di qualsiasi contropartita consortile» e che, d’altro canto, non si comprenderebbe come sia possibile che il Dell’Aquila, raccomandato
dall’Urso, non sapesse già «di dovere rispettare il sodale NOME, onorando il suo debito senza necessità di interventi di sorta».
Inoltre, il fatto che il COGNOME si lamenti della frequenza e dell’entità de pretese di NOME COGNOME con altri interlocutori ma mai direttamente con lo stesso COGNOME: da un lato, dimostrerebbe che il COGNOME, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Palermo, non solo non aveva un rapporto paritario con l’COGNOME ma, piuttosto, lo temeva; dall’altro lato, escluderebbe qualsiasi «schema mutualistico, né tanto meno volontario», in presenza del quale i termini dell’apporto dovuto sarebbero chiari, né vi sarebbe ragione per un sodale di lamentarsi delle pretese dell’altro.
Il ricorrente lamenta infine che la Corte d’appello di Palermo avrebbe pretermesso due aspetti, che erano stati segnalati nel proprio atto di appello, che emergevano dall’intercettata conversazione che egli intrattenne con l’Indelicato e che è riportata alle pagg. 36-42 della sentenza impugnata. Il primo è che la ragione per la quale l’Indelicato interloquì con il Luppino era costituita dall necessità del primo di chiedere al secondo un prestito di C 150,00 per pagare una visita medica. Il secondo è che Indelicato non era un sodale ma, in base a pronunce non definitive, un concorrente esterno.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, anche rispetto ai criteri dettati dall’art. 192, commi 2 e 3, cod. proc pen., con riguardo alla prova della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso “Cosa Nostra” «attraverso l’instaurazione di legami economici ed imprenditoriali con Messina Dario, in relazione al mandamento di Mazara del Vallo», con travisamento della prova «per soppressione» e violazione del principio dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all’art. 533 cod. proc. pen., nonché del contenuto dell’art. 546, comma 1, lett. e), dello stesso codice. Principio e contenuto che sarebbero stati violati per avere la Corte d’appello di Palermo omesso di rispondere a decisive deduzioni difensive, in quanto incidenti sulla tenuta della prova costituita dal contenuto delle intercettazioni, nonché di esaminare i documenti «e i progressivi» che erano stati offerti dalla stessa difesa nell’atto di appello.
Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d’appello di Palermo, alla pag. 43 della sentenza impugnata, avrebbe fatto assurgere a fondamento della caratura criminale di NOME COGNOME, della quale il COGNOME sarebbe stato consapevole, la deposizione del testimone della polizia giudiziaria COGNOME e le considerazioni di questi relative al materiale probatorio di un altro procedimento penale ancora sub iudice (quello scaturito dall’operazione cosiddetta “Annozero”).
Il ricorrente passa quindi in rassegna il contenuto delle intercettazioni che è stato valorizzato dalla Corte d’appello di Palermo al fine di confermare l’ipotesi accusatoria della sua partecipazione al mandamento di Mazara del Vallo.
Quanto al contenuto della conversazione tra il COGNOME, sua moglie NOME COGNOME e NOME COGNOME, captato il 19/04/2018 all’interno dell’autovettura del COGNOME (pagg. 43-46 della sentenza impugnata), dal quale la Corte d’appello ha tratto che l’imputato non solo conosceva NOME COGNOME ma ne conosceva anche «la caratura criminale» (pag. 44 della sentenza impugnata), il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo non si sarebbe confrontata con l’argomento difensivo che il COGNOME aveva comunicato al NOME la propria preoccupazione di essere arrestato in relazione alle accuse di omicidio di NOME COGNOME, sicché costituirebbe un salto logico dedurre da tale comunicazione che il COGNOME «conoscesse soprattutto la caratura criminale» del Messina e le dinamiche associative. La Corte d’appello di Palermo avrebbe poi trascurato di confrontarsi con la risposta negativa «nzù», espressione siciliana che indica un no secco, che l’imputato aveva dato alla domanda, che gli era stata rivolta dal COGNOME se conoscesse NOME COGNOME e NOME COGNOME che l’articolo di giornale definiva come i più stretti collaboratori del Messina e che sarebbero invece stati anch’essi indebitamente associati al Luppino.
Sempre a proposito del contenuto della suindicata conversazione del 19/04/2018, con riguardo alla valenza attribuita dalla Corte d’appello di Palermo al riferimento operato dal Luppino a NOME COGNOME, per cui lo stesso NOME avrebbe confermato che il COGNOME aveva ricevuto l’investitura dal COGNOME (pag. 44 della sentenza impugnata), trovando così conferma la sua conoscenza delle dinamiche della consorteria mafiosa, il ricorrente deduce che, nel proprio atto di appello, aveva segnalato sia che il riferimento al COGNOME fu fatto dal COGNOME dopo che il COGNOME aveva letto il nominativo del COGNOME sul giornale sia che, subito dopo, nella stessa conversazione, il COGNOME aveva manifestato la sua convinzione circa l’estraneità del Messina da qualsivoglia dinamica criminale riconducibile al noto capomafia NOME COGNOME COGNOME.
Il ricorrente contesta poi le affermazioni fatte dalla Corte d’appello di Palermo nel primo e nel quarto capoverso della pag. 46 della sentenza impugnata. Il ricorrente lamenta che la stessa Corte d’appello: a) nel fare riferimento a «dazioni di danaro nei confronti del Messina, affatto modeste», avrebbe omesso di riferire quali e quante sarebbero state tali dazioni e quale ne sarebbero stati gli importi; b) non avrebbe spiegato da quali elementi avrebbe tratto la prova che l’impresa del Luppino non operava lecitamente ma sotto l’egida mafiosa del mandamento di Castelvetrano – avendo, per di più, la stessa Corte d’appello, dato atto di come l’impresa del Luppino non avesse «una genesi mafiosa» (pag. 24 della sentenza
impugnata) – né perché fosse da escludere un’espansione lecita degli affari del COGNOME «senza il placet del responsabile» del mandamento di Mazara del Vallo.
Il ricorrente contesta poi: a) l’affermazione fatta dalla Corte d’appello d Palermo nel primo capoverso della pag. 47 della sentenza impugnata, rappresentando che la Corte d’appello muove sempre dalla solo presunta riferibilità di “RAGIONE_SOCIALE al COGNOME; b) quanto al conten dell’intercettata conversazione del 20/09/2017 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME (pag. 47 della sentenza impugnata), che la Corte d’appello di Palermo non indica alcun elemento probatorio dal quale si possa ricavare che il NOME fosse anche solo edotto dell’oggetto della conversazione tra i due interlocutori e che il termine siciliano “picciotti” identifica anche, più comunemente, i lavoratori; c) i passaggi della sentenza impugnata (alle pagg. 47-48) nei quali si afferma che i comprovati incontri tra NOME COGNOME e NOME COGNOME (zio del NOME e dipendente di “RAGIONE_SOCIALE) avevano a oggetto la consegna di denaro da parte del COGNOME al COGNOME e che le consegne di denaro da parte del Messina al Buffa erano avvenute dopo gli incontri tra lo stesso COGNOME e il COGNOME non recano alcun riferimento a un coinvolgimento del Luppino e a una riferibilità allo stesso sia dell’oggetto degli incontri tra il Messina e il COGNOME sia allo scambio di denaro tra il Messina e il Buff d) con riguardo alle altre conversazioni intercettate dalle quali, secondo la Corte d’appello di Palermo, si trarrebbe che fosse il COGNOME a erogare le menzionate somme di denaro (pag. 48 della sentenza impugnata), che: d.1) quanto alla conversazione del 16/10/2017 tra il Buffa e il Messina, che nessun riferimento al Luppino era dato cogliere nel relativo passaggio della motivazione e che l’affermazione fatta dalla stessa Corte d’appello di Palermo nel quarto capoverso della pag. 48 della sentenza impugnata,ometterebbe di indicare da quali elementi probatori la stessa Corte d’appello abbia tratto la convinzione che il COGNOME avesse erogato qualcosa al Messina e, soprattutto, che lo avesse fatto perché gli era stato comandato dal Luppino o lo aveva con lui concordato; d.2) quanto alla conversazione del 23/10/2017 sempre tra il Messina e il Buffa, dalla quale la Corte d’appello di Palermo ha tratto conferma che l’erogatore delle somme fosse il COGNOME, che la stessa Corte d’appello non avrebbe fornito alcun fondamento probatorio a sostegno del proprio assunto che il “ragioniere”, cioè il COGNOME, fosse «un mero esecutore della volontà di qualcun altro, il COGNOME evidentemente» (pag. 49 della sentenza impugnata); d.3) quanto alla conversazione del 08/11/2017 sempre tra il Messina e il Buffa, che la Corte d’appello di Palermo utilizza il riferimento al nome “COGNOME” ai fini dell’identificazione dello stesso co l’imputato, senza confrontarsi con quanto era stato dedotto nell’atto di appello nel quale era stato evidenziato come, dalla visura societaria di “RAGIONE_SOCIALE, risultasse che, nel 2013, affittuario del ramo di azienda era tale COGNOME COGNOME Corte di Cassazione – copia non ufficiale
e che in precedenza era stato amministratore della suddetta società tale NOME COGNOME entrambi, perciò, a stretto contatto con il “ragioniere” NOME. Costituirebbe, pertanto, una mera «suggestione» quanto affermato dalla Corte d’appello di Palermo secondo cui «COGNOME rappresentava la longa manus di NOME nella propria attività prestata per conto di “RAGIONE_SOCIALE“, solo formalment intestata a COGNOME ma di fatto gestita secondo le esclusive indicazioni di NOME» (pag. 49 della sentenza impugnata).
Con riguardo, poi, alla presentazione fatta dal COGNOME all’amico NOME che risultava dall’intercettata conversazione tra i due (pag. 49-50 della sentenza impugnata), il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo avrebbe omesso di chiarire il collegamento tra l’essere un «uomo generoso» ed essere partecipe della consorteria mafiosa, mentre le affermazioni della stessa Corte d’appello secondo cui la frase del Messina «nel senso, dice: qualche cosa storta» costituirebbe riprova dell’assunzione di responsabilità da parte del COGNOME per il mantenimento del Messina nel caso in cui questi fosse stato arrestato nonché della consapevolezza, da parte dello stesso COGNOME, della caratura criminale del Messina e del fatto che questi avrebbe potuto essere ristretto in carcere costituirebbero delle «petizioni di principio, sganciate da qualsivoglia elemento certo o dall’analisi del contesto dell’intercettazione», nella quale, inoltre, la fra del Messina «e non ha il dovere di farlo» escluderebbe categoricamente qualsiasi partecipazione del COGNOME alle dinamiche della consorteria mafiosa.
Quanto all’ulteriore valorizzazione della stessa conversazione tra il Messina e il COGNOME operata dalla Corte d’appello di Palermo, nella parte in cui il Messina diceva al COGNOME, che voleva aprire un centro scommesse, «te lo faccio aprire io» (terzo capoverso della pag. 51 della sentenza impugnata), il ricorrente lamenta che non si comprenderebbe perché la menzionata utilizzazione del plurale non si dovesse piuttosto intendere come un plurale che identifica unicamente i due interlocutori.
Quanto, ancora, all’aiuto che il Messina avrebbe assicurato al Luppino rispetto al concorrente di questi “NOME” (pag. 52-53 e pag. 93 della sentenza impugnata), il ricorrente deduce che la relativa intercettazione del 17/11/2017 sarebbe del tutto priva di valenza indiziante con riguardo sia al soggetto che sarebbe stato danneggiato, sia alle modalità con le quali il Messina avrebbe agito in danno dello stesso, sia all’attribuibilità dell’iniziativa all’imputato.
Il COGNOME contesta poi i passaggi di cui al primo, secondo e terzo capoverso della pag. 52 della sentenza impugnata. Il ricorrente lamenta che non si comprenderebbe da quale elemento sia stata tratta la prova di «un aiuto degno di nota per l’asta», atteso che il COGNOME aveva parlato esclusivamente di «un regalo a tuo padre, senza fornire alcun’altra indicazione da cui poter ricavare l’ipotizzata
cospicuità della dazione». La ricostruzione dei fatti offerta dalla propria difesa sarebbe suffragata anche dal contenuto dell’intercettata conversazione del 16/09/2017 tra i fratelli NOME COGNOME e NOME COGNOME, avente a oggetto anche l’argomento della vendita all’asta della casa paterna, in particolare là dove NOME COGNOME riferisce al fratello NOME: «io gli ho detto spero di non venirti a disturbare gli ho detto, però molto… sicuramente ce li dobbiamo fare prestare, ha detto… da chiunque».
Da altri passaggi della conversazione tra i due fratelli COGNOME si ricaverebbe anche che le dazioni di denaro da parte del Luppino a NOME COGNOME erano dei prestiti il più delle volte garantiti da assegni e che il COGNOME aveva l’intenzione da lui manifestata al fratello NOME, di restituire. Anche in un passaggio della conversazione del 19/04/2018, in particolare, in una riportata frase del Luppino, si trarrebbe la pratica del cambio di assegni tra lo stesso COGNOME e NOME COGNOME e che le erogazioni di danaro dal primo al secondo costituivano dei prestiti.
Il ricorrente conclude asserendo l’assenza della motivazione in ordine alle doglianze della propria difesa circa: a) la mancanza di collegamento tra le eventuali dazioni di denaro da parte di NOME COGNOME in favore di NOME COGNOME e l’ipotesi che lo stesso COGNOME operasse su disposizioni o di concerto con il COGNOME; b) l’esiguità delle dazioni di denaro da parte del Luppino in favore di NOME COGNOME e la liceità di tali dazioni; c) l’insussistenza di qualsiasi collegamento tra sporadiche dazioni di denaro in favore di NOME COGNOME e il fatto che questi se ne avvantaggiasse poi per la presunta famiglia mafiosa di cui sarebbe stato il capo; d) la mancanza di prova circa la consapevolezza, in capo al NOME, delle condotte poste in essere da NOME COGNOME dopo che il NOME gli aveva consegnato il denaro; e) l’insussistenza dell’asserito impiego della forza intimidatrice dell’associazione mafiosa per condurre i propri affari nel marsalese, territorio nel quale, anzi, i concorrenti nel proprio settore erano aumentati e i propri introit erano diminuiti.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, anche rispetto ai criteri dettati dall’art. 192, commi 2 e 3, cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta esistenza di una contropartita economica data da “RAGIONE_SOCIALE» all’imputato «attraverso l’intervento di Messina Dario nella “RAGIONE_SOCIALE” presso il INDIRIZZO, Woohouse e Fiocca», con travisamento della prova «per soppressione» e violazione del principio dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all’art. 533 cod. proc. pen., nonché del contenuto dell’art. 546, comma 1, lett. e), dello stesso codice. Principio e contenuto che sarebbero stati violati per avere la Corte d’appello di Palermo omesso di rispondere a decisive deduzioni difensive, «incidendo in maniera evidente sulla tenuta rappresentativa
della prova intercettiva, costituita dall’esame dei documenti e dei progressivi offerti dalla difesa nell’atto di appello».
Il ricorrente espone che, secondo la Corte d’appello di Palermo, egli avrebbe controllato “RAGIONE_SOCIALE, la quale sarebbe stata solo formalmente intestata a NOME COGNOME (pag. 53 della sentenza impugnata) e avrebbe ricevuto «protezione e supporto in relazione a vicende che hanno interessato alcuni locali/bar all’interno dei quali erano collocate slot machines di proprietà dell’RAGIONE_SOCIALE», con particolare riferimento agli episodi relativi al “Bar Martin” al bar “Woo House” e al bar “Fiocca” (pag. 59 della sentenza impugnata), ciò che avrebbe permesso di «cogliere la reciprocità del rapporto tra lo stesso e Messina» NOME.
Ciò esposto, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello di Palermo, al fine di sostenere la sua cointeressenza in “RAGIONE_SOCIALE e attribuirgli poi una corresponsabilità nelle condotte poste in essere da NOME COGNOME su interessamento di NOME COGNOME (che lavorava per la stessa “RAGIONE_SOCIALE, avrebbe operato un’indebita selezione delle intercettazioni e avrebbe fornito un’interpretazione delle intercettazioni selezionate «parcellizzata e avulsa dal contesto in cui quelle conversazioni avvengono».
In particolare, quanto alla captata conversazione tra presenti del 02/07/2017, valorizzata dalla Corte d’appello di Palermo alle pagg. 53-54 della sentenza impugnata, il ricorrente lamenta che la stessa Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con le deduzioni che erano contenute al riguardo nel proprio atto di appello con le quali era stato evidenziato che, dalla stessa conversazione, sarebbe emersa la prova che il COGNOME: a) aveva in passato aiutato il Corvitto con la sua azienda senza alcuna contropartita economica, lamentandosi con i presenti nella propria automobile solo dell’ingratitudine che aveva mostrato il Corvitto; b) risentito per il comportamento del Corvitto e intenzionato a fargli concorrenza, voleva parlare con tale Dario, non per chiedergli chissà quale “intervento autorevole” per chissà quale fine illecito ma per avere un’interlocuzione diretta con il proprietario di un bar di Marsala; c) non aveva mai condiviso la proprietà, né formale né di fatto, di “RAGIONE_SOCIALE tanto che riferiva ai suoi interlocu che, per fare concorrenza al RAGIONE_SOCIALE, si sarebbe recato a Catania per stipulare dei contratti di noleggio e collocare le proprie macchine nel locali più redditizi; d) al data della conversazione intercettata (02/07/2017) aveva definitivamente interrotto i rapporti con il Corvitto, sicché non poteva avere alcun interesse nelle vicende dei sopra menzionati bar, tutte accadute tra il settembre 2017 e il gennaio 2018.
Quanto alla captata conversazione tra presenti del 05/01/2018 tra il COGNOME e NOME COGNOME (pagg. 54-55 della sentenza impugnata), il quale, come
documentato, era il noleggiatore delle slot machines che erano installate presso la sala giochi dell’impresa individuale del Luppino sita in Campobello di Mazara, INDIRIZZO, il ricorrente deduce che se il COGNOME dichiara al suo interlocutore «di non voler avviare personalmente l’attività finché non avesse individuato un numero di locali che gli garantisse un introito adeguato a sostenere gli stipendi di NOME e NOME NOME» (pag. 54 della sentenza impugnata), ciò significa che lo stesso NOME non aveva ancora «personalmente» iniziato a operare con le slot machines e che NOME COGNOME e NOME COGNOME, dipendenti di “RAGIONE_SOCIALE, non erano alle dipendenze del COGNOME nemmeno indirettamente, come sarebbe confermato anche dalla successiva affermazione del NOME «ma se io non ho le macchine, non vado a fare nessun tipo di operazione per mettere nei guai poi a NOME e a NOME. Per adesso quelli si guadagnano lo stipendio», atteso che, se COGNOME e COGNOME fossero già stati indirettamente alle dipendenze del NOME tramite “RAGIONE_SOCIALE, il COGNOME non avrebbe avuto motivo di prenderli con sé nella sua nuova attività di noleggiatore di slot machines né di temere di mettere nei guai i due facendoli dimettere da “RAGIONE_SOCIALE per venire a lavorare alle sue dipendenze. L’estraneità del Luppino rispetto sia a “RAGIONE_SOCIALE sia alle slot machines sarebbe comprovata dal prosieguo della conversazione, in particolare, sia là dove il COGNOME afferma «quando dico ritiriamo, non è che ritiro io, ritira NOME per conto di COGNOME, le macchine in riduzione», sia là dove il L Bello asserisce «ad uno ad uno forse è meglio. Fargli… farglieli saltare ad uno ad uno è meglio di andarle a mischiare», affermazione, quest’ultima, che comproverebbe come il NOME fosse pronto ad avviare la propria attività come concorrente («fargli saltare» i locali dove erano allocate le slot machines di “RAGIONE_SOCIALE) del RAGIONE_SOCIALE e della sua “RAGIONE_SOCIALE; inoltre, se il Lup avesse partecipato ai profitti di “RAGIONE_SOCIALE, non vi sarebbe stato motivo che egli temesse che le slot machines che si apprestava a collocare nei vari locali potessero “coesistere” («è meglio di andarle a mischiare») con quelle della stessa RAGIONE_SOCIALE Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Sarebbe poi contraddittorio il passaggio della motivazione nel quale la Corte d’appello di Palermo asserisce che il COGNOME riferiva al COGNOME «di avere già individuato i locali migliori, tra i quali, per l’appunto, rientrano il bar Martin e il Woodhouse» (pag. 55 della sentenza impugnata), atteso che tale circostanza non si concilierebbe con l’altra, affermata dalla stessa Corte d’appello, che il titolar del bar “Martin” aveva «provato a cambiare noleggiatore per le slot machines non riuscendo nel suo intento per il pronto intervento dei “protettori” del Luppino».
Il COGNOME lamenta poi che la Corte d’appello di Palermo avrebbe omesso di confrontarsi con il fatto, che era stato riferito dal testimone della polizia giudizia COGNOME e che era stato rappresentato nel proprio atto di appello, che i Carabinieri
del Nucleo operativo di Mazara del Vallo, in occasione del controllo che avevano effettuato il 09/03/2018 presso il bar “Martin”, avevano sì accertato la presenza di slot machines di “RAGIONE_SOCIALE, ma anche di apparecchiature con concessione telematica che consentivano l’accesso a piattaforme di gioco (cosiddetti videoterminali) connesse alla piattaforma Leaderbet.com per conto della quale il COGNOME svolgeva attività di brokeraggio, il che avrebbe consentito di appurare come il COGNOME, con riguardo al bar “Martin”, fosse noleggiatore solo dei suddetti videoterminali connessi alla piattaforma Leaderbet.com , i quali nulla avevano a che vedere con le slot machines di “RAGIONE_SOCIALE, rispetto alle quali egli voleva porsi come concorrente, intendendo collocare successivamente le proprie slot machines nel suddetto bar “Martin” nel quale aveva operato solo con dì, la sua attività di brokeraggio per contolLeaderbet.com .
Sempre a proposito della menzionata conversazione con NOME COGNOME e, in particolare, al fatto che quest’ultimo aveva chiesto al NOME «un aumento della percentuale trattenibile sugli incassi» (pag. 55 della sentenza impugnata), il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Palermo avrebbe travisato il significato della parola «macchine», atteso che, con essa, il NOME stava facendo riferimento non alle slot machines ma ai menzionati videoterminali, già allocati nel bar “Ma rti n”.
Quanto al «campobellese» al quale si fa riferimento, sempre nella conversazione tra il COGNOME e il COGNOME, a proposito di slot machines e della protezione assicurata da NOME COGNOME (detto “COGNOME“) e NOME COGNOME (detto “NOME COGNOME“), esso non sarebbe il COGNOME ma, verosimilmente, NOME COGNOME come risulterebbe anche dal passaggio della stessa conversazione, non considerato dalla Corte d’appello di Palermo, nel quale il COGNOME dice «e se c’è qualcuno che fa danno là dentro per guadagnarsi questi 50 euro, senza che nemmeno so niente io, mi difendono le macchine».
A proposito di quanto è affermato dalla Corte d’appello di Palermo alla pag. 56 della sentenza impugnata, il ricorrente lamenta che la stessa Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con la doglianza, che era contenuta nel proprio atto di appello, secondo cui tutte le intercettazioni richiamate avevano come esclusivi interlocutori NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME «in una ripetuta ma esclusiva triangolazione che mai vede coinvolgere il NOME».
Con riguardo all’intercettata conversazione tra NOME COGNOME e il fratello NOME COGNOME (pag. 58 della sentenza impugnata), il ricorrente argomenta che, quanto al «COGNOME» che viene in essa menzionato a proposito delle slot machines di “RAGIONE_SOCIALE, la Corte d’appello di Palermo avrebbe omesso di confrontarsi con la doglianza difensiva, contenuta nel proprio atto di appello, con la quale era stato evidenziato che, come risultava dalla visura relativa alla suddetta
“RAGIONE_SOCIALE, sin dal 2013 risultava affittuario del ramo d’azienda ta NOME COGNOME e in precedenza era stato amministratore della società tale COGNOME NOME COGNOME.
Il ricorrente lamenta poi che la Corte d’appello di Palermo, nel richiamare le circa 100 pagine che erano state spese dal Tribunale di Marsala per spiegare «il collegamento tra NOME, NOME e Messina» (pag. 59 della sentenza impugnata), avrebbe trascurato diverse specifiche censure che erano state sollevate nel proprio atto di appello, segnatamente, che: a) la propria estraneità rispetto alle sorti d “RAGIONE_SOCIALE e l’effettiva proprietà di tale società in capo a NOME COGNOME era stata puntualmente affermata dal COGNOME nel corso del suo esame e l’imputato aveva anche spiegato la ragione logico-economica per la quale si doveva escludere che egli collaborasse con i suddetti RAGIONE_SOCIALE e “RAGIONE_SOCIALE, cioè che, se l slot machines di RAGIONE_SOCIALE fossero state sue, egli avrebbe collocato nella propria agenzia di scommesse on-line di Campobello di Mazara delle slot machines di detta società e non, come invece era, delle slot machines di proprietà di altri noleggiatori, con i quali doveva dividere i profitti; b) la propria estraneità rispet agli interessi economici di “RAGIONE_SOCIALE inerenti alle sorti delle slot machin che erano collocate presso il bar “Martin”, il bar “Woodhouse” e il bar “Fiocca” risultava dal contenuto della propria intercettata conversazione del 09/09/2017 con NOME COGNOME non menzionata dalla Corte d’appello di Palermo («le slot sono di NOME“; «io faccio tutto il resto… racing… totem… eh… tranne le slot l’indirizzo e-mail cEMAIL era di esclusiva titolarità del NOME e non identificava “RAGIONE_SOCIALE, come era comprovato dal fatto che né NOME COGNOME né NOME COGNOME utilizzavano il suddetto indirizzo; d) l’imputato, nel corso del proprio esame, aveva chiarito che le due e-mail che il COGNOME aveva indirizzato a NOME COGNOME mettendo in copia l’indirizzo EMAIL contenevano in allegato due cedolini di avvenuto versamento in contanti effettuato il 12/04/2017 sul conto corrente di “RAGIONE_SOCIALE che, come era stato esaustivamente spiegato dal COGNOME, erano inerenti al pagamento di alcune macchine, cosiddette “Racing dog”, che il Corvitto aveva venduto tempo addietro al COGNOME e che questi doveva ancora pagare, come era comprovato dalla “C” che compare in alto in ciascun foglio, la quale indicava, appunto, che si trattava non di incassi di “RAGIONE_SOCIALE ma di sold di NOME COGNOME che egli doveva al RAGIONE_SOCIALE; e) nel lungo arco di tempo in cui l’indirizzo e-mail EMAIL era stato sottoposto a intercettazione, nessun’altra e-mail inerente ad “RAGIONE_SOCIALE era stata mandata allo stesso indirizzo, neppure per conoscenza; f) la difesa aveva prodotto una e-mail, proveniente dall’indirizzo EMAIL , con la quale veniva fatta richiesta a “RAGIONE_SOCIALE” di «5 computer racing senza monitor touch», ciò che Corte di Cassazione – copia non ufficiale
confermava quanto era stato dichiarato dall’imputato in ordine al fatto che le macchine “Racing dog”, che era un gioco virtuale, non avevano nulla a che vedere con le slot machines; g) che l’imputato si occupasse solo di apparecchiature elettroniche quali “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” era stato comprovato dagli esiti del controllo che era stato effettuato il 09/03/2018 dai Carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile di Mazara del Vallo presso il bar “Martin” di tale città, in occasione del quale veniva sì accertata la presenza di slot machines di proprietà di “RAGIONE_SOCIALE ma, altresì, di cosiddetti “videoterminali” connessi al piattaforma Leaderbet.com per conto della quale l’imputato svolgeva attività di brokeraggio; h) l’estraneità del Luppino rispetto ad RAGIONE_SOCIALE era comprovata anche dal contenuto dell’intercettata conversazione del 12/06/2016, intervenuta tra il Luppino, NOME COGNOME (detto NOME) e NOME COGNOME all’interno dell’automobile del Luppino, alla luce della quale, se il COGNOME avesse effettivamente partecipato, insieme al COGNOME, ai profitti ricavati dalle sl machines di “RAGIONE_SOCIALE, non sarebbe dato comprendere «per quale motivo il Corvitto avrebbe consigliato al COGNOME di provare ad aprire una sala a Mazara se in tale zona già condivideva le slot machines preso il “Bar Martin”».
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, anche rispetto ai criteri dettati dall’art. 192, commi 2 e 3, cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta partecipazione dell’imputato all’associazione di tipo mafioso “Cosa Nostra” «attraverso i rapporti intrattenuti con NOME NOME (detto NOME), in relazione al mandamento di Castelvetrano); con travisamento della prova in relazione alle dichiarazioni di NOME COGNOME e all’erronea individuazione dell’imputato nel “nipote di COGNOME“», e con mancanza di motivazione con riguardo alle doglianze della propria difesa con le quali era stata rappresentata l’assenza di riscontri alle suddette dichiarazioni «ed altri elementi di segno contrario obliterati dalla Corte d’appello». Con, altresì, ulteriore travisamento della prova «per soppressione» e violazione del principio dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all’art. 533 cod. proc. pen., nonché del contenuto dell’art. 546, comma 1, lett. e), dello stesso codice. Principio e contenuto che sarebbero stati violati per avere la Corte d’appello di Palermo omesso di rispondere a decisive deduzioni difensive, «incidendo in maniera evidente sulla tenuta rappresentativa della prova intercettiva, ed omettendo di esaminare i documenti ed i progressivi offerti dalla difesa nell’atto di appello».
GLYPH p . Il ricorrente affronta 191 à1 il tema dei rapporti con la famiglia mafiosa di Castelvetrano e, in particolare, con NOME COGNOMEdetto NOMECOGNOME, cognato di NOME COGNOME e coinvolto nella già menzionata operazione “Annozero”.
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Il COGNOME afferma anzitutto che la circostanza che l’Allegra gli avrebbe permesso di aprire agenzie di scommesse nel territorio di Castelvetrano, così creando un attrito addirittura con NOME COGNOME, che gestiva le scommesse in tale territorio, per la risoluzione del quale era dovuto intervenire personalmente NOME COGNOME, diversamente da quanto asserito dalla Corte d’appello di Palermo, non era stata «riscontrata» dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME (cugino di NOME COGNOME COGNOMEma era stata riferita per la prima volta dallo stesso COGNOME nel suo interrogatorio del 16/12/2013.
Il ricorrente contesta anzitutto che ritenere che le dichiarazioni del COGNOME si possano considerare riscontrate, quanto all’individuazione dell’imputato come il soggetto appellato dal COGNOME «nipote di COGNOME», dall’«accertato stretto legame tra COGNOME NOME e l’odierno imputato» (pag. 61 della sentenza impugnata), costituirebbe un’operazione «avventata in quanto non ancorata ad alcun altro elemento individualizzante».
Comunque, dalle dichiarazioni del COGNOME, la figura del «nipote di COGNOME» apparirebbe come estranea al sodalizio mafioso, atteso anche che il fatto che l’espansione imprenditoriale del suddetto soggetto nel territorio di Castelvetrano avesse determinato contrasti, non potrebbe essere «posta in collegamento necessario con una qualche condizione di intraneità dell’imprenditore».
Sarebbe, poi, inconferente, il contenuto dell’intercettata conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME menzionata alla pag. 61 della sentenza impugnata. Posto che, in tale dialogo, il COGNOME faceva riferimento a NOME COGNOME come a un soggetto «operante nel settore delle sommesse con NOME», ciò non potrebbe riscontrare le dichiarazioni del COGNOME, atteso che questi aveva parlato di un soggetto che operava nel settore delle «macchinette da gioco» e non nel settore «delle scommesse».
La stessa Corte d’appello di Palermo avrebbe del resto utilizzato l’argomento della «frequentazione tra NOME e COGNOME» solo per affermare il «ruolo di intermediario svolto proprio da COGNOME» (pag. 62 della sentenza impugnata).
Sempre con riguardo alle dichiarazioni del COGNOME, secondo cui «praticamente è nipote, a come ho capito, di COGNOME, però è afferrato a NOME COGNOME. Quando praticamente dovevano aprire le macchinette a Castelvetrano», il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo non avrebbe indicato riscontro alcuno, in particolare, quale sarebbe stata l’agenzia di Castelvetrano riferibile al Luppino dove sarebbero state collocate le “macchinette”, considerato anche il fatto che il COGNOME operava nel settore delle scommesse sportive e non in quello delle “macchinette”/slot machines.
Il ricorrente ribadisce il travisamento, da parte della Corte d’appello di Palermo, delle dichiarazioni del COGNOME per avere questi fatto sempre riferimento
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al settore delle “macchinette” da gioco, il quale individua le slot machines, laddove il Luppino operava nel settore delle scommesse sportive.
Un altro travisamento delle dichiarazioni del COGNOME sarebbe costituito dal fatto che tale collaboratore di giustizia aveva parlato di un «nipote di COGNOME», il quale non poteva essere l’imputato, il quale non era nipote né di un tale “COGNOME” né di “NOME“.
Ancora, poiché il COGNOME era stato arrestato, nell’ambito della cosiddetta “Operazione Eden”, insieme a NOME COGNOME «egli non poteva certamente fare confusione con un nominativo assieme al quale era stato tratto in arresto».
Conclusivamente, perciò, sul punto, «l’intera vicenda evocata dal collaborante lascia inalterato il profilo della dedotta appartenenza del Luppino al sodalizio». Il ricorrente passa poi ad analizzare l’altro elemento, sempre relativo ai suoi ritenuti rapporti con la famiglia mafiosa di Castelvetrano, costituito dal contenuto della conversazione del 08/10/2016 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME. A tale proposito, il ricorrente lamenta la Corte d’appello di Palermo non si sarebbe confrontata con quanto era stato dedotto dalla propria difesa nell’atto di appello, secondo cui dalla suddetta conversazione sarebbe emerso «un asimmetrico rapporto estorsivo e non certo quello tipico della partecipazione ad un medesimo sodalizio». In particolare, l’elemento, che emergeva dalla conversazione, del «danaro che il NOME deve ad NOME ed al soggetto indicato in “Pinu u mazzarisi”» (pag. 62 della sentenza impugnata), correttamente letto, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Palermo, escluderebbe la sussistenza di un rapporto sinallagmatico di compartecipazione che è alla base del ruolo di partecipe. Ciò che sarebbe confermato anche da quanto detto dal COGNOME, esecutore materiale dell’esazione, all’Allegra che «se non avessero sollecitato il Luppino adeguatamente, non avrebbero ottenuto l’auspicata corresponsione del denaro dallo stesso» (pag. 63 della sentenza impugnata). Il ricorréle lamenta ancora che la Corte d’appello di Palermo non avrebbe dato risposta alla doglianza della propria difesa per cui, anche qualora fosse effettivamente emersa la «condivisione tra i sodali delle informazioni relative all’erogazione da parte di NOME di somme ai vari esponenti della consorteria» (pag. 63 della sentenza impugnata), emergerebbe comunque la natura non volontaria di tali dazioni di denaro, essendo, piuttosto, l’imprenditore NOME costretto a effettuare le stesse in conseguenza di una “coazione ambientale”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Sarebbe approssimativa anche la valutazione del contenuto dell’intercettata conversazione del 16/11/2017 tra il COGNOME e l’COGNOME, dal quale risulterebbe soltanto «una logica non estranea a composizioni strategiche dell’imprenditoria lecita» e che sarebbe stata interpretata dalla Corte d’appello di Palermo «secondo una chiave ermeneutica unilaterale confluente con l’ipotesi accusatoria non
avallata da alcun dato esperienziale o regola di esperienza che sia capace di adattarsi alla peculiare situazione imprenditoriale e relazionale del Luppino».
Anche l’intromissione dell’COGNOME negli affari del COGNOME potrebbe ben lasciare spazio alla lettura alternativa di un rapporto di soggezione al quale l’imprenditore COGNOME non è in grado di resistere.
Sarebbe, poi, «paradossale» l’asserto della Corte d’appello di Palermo secondo cui, dalle interlocuzioni dell’imputato con l’COGNOME, emergerebbe «inequivoco l’inserimento del COGNOME nelle dinamiche associative, tanto da essere lui stesso a redarguire il Messina dinanzi allo sconfinamento compiuto da quest’ultimo» (pag. 66 della sentenza impugnata), atteso che sia l’COGNOME sia il Messina «non potevano non essere a conoscenza delle regole da seguire se si fosse trattato delle regole illecite del sodalizio di appartenenza e non di meccanismi regolatori interni al mondo delle scommesse e come tali fatte oggetto di “istruzione” da parte del Luppino».
Con riguardo alla richiesta di denaro da parte dell’COGNOME al COGNOME, il ricorrente contesta che essa possa costituire riprova della tesi del contributo mutualistico da lui versato all’associazione mafiosa nel ruolo di “finanziatore” di essa, atteso che la Corte d’appello di Palermo avrebbe omesso di tenere conto di un passaggio della conversazione tra i due uomini nel quale l’COGNOME, oltre a mostrare titubanza, prospettava proprie difficoltà economiche. Da ciò la «frattura logica della ricostruzione offerta in sentenza», comprovata dal già ricordato fatto, che era emerso dalla conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, della necessità di “pressioni” da esercitare nei confronti del Luppino.
Ancora, nella motivazione non vi sarebbe alcun cenno alle motivazioni e alle modalità con le quali l’COGNOME aveva indotto il Luppino alla consegna di due assegni del valore complessivo di C 2.500,00, «né si traggono elementi di dubbio dalla stessa modalità tracciabile del finanziamento stesso e dalla obiettiva sproporzione fra il presunto vantaggio tratto dall’impresa commerciale e l’occasionale elargizione operata dal Luppino», fermo restando il dubbio che la dazione ridondasse a favore del sodalizio rappresentato dall’Allegra e non fosse invece destinata «al vantaggio economico patrimoniale di quest’ultimo».
Quanto al fatto, valorizzato dalla Corte d’appello di Palermo, che il Luppino fosse messo a parte dall’Allegra di delicate questioni relative alle vicende di “Cosa Nostra” e di alcuni sodali (pagg. 64, 65, 67 della sentenza impugnata), il ricorrente rappresenta che, da tale condotta dell’Allegra, «non v’è chi non veda come sia quest’ultimo a tessere quella tela necessaria a corroborare l’idea nel Luppino di stare dialogando con la persona giusta, al fine di convincere l’interlocutore a fornire l’elargizione richiesta», atteso che gli stessi giudici di appello avevano rammentato come, nella sentenza del 23/03/2020 del Tribunale di Marsala, divenuta
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irrevocabile, di condanna dell’COGNOME per associazione per delinquere, con ruolo direttivo, finalizzata alla realizzazione di attività estorsive, l’COGNOME era st descritto come colui al quale «è riservato l’incarico di avvicinare le vittime, da lui sempre ben conosciute, strumentalizzando il notorio rapporto di parentela che lo lega alla famiglia mafiosa locale» (pag. 19 della sentenza impugnata).
Ciò rafforzerebbe i dubbi circa la posizione del Luppino, anche in ragione della già ricordata frase dell’Allegra che il Luppino «a “Pinu u mazzarisi” glieli ha già dati perché lo teme» (pag. 62 della sentenza impugnata).
2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea interpretazione e applicazione degli artt. 110 e 416-bis cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, nella parte in cui, in essa, nell’affermare l partecipazione dell’imputato all’associazione di tipo mafioso, viene escluso il concorso esterno nella stessa associazione.
Il ricorrente deduce che, anche a seguire la ricostruzione della Corte d’appello di Palermo secondo cui egli avrebbe agito al fine di ottenere la «espansione garantita e protetta delle sue attività sul territorio» (così il ricorso), «altro perseguimento di un proprio tornaconto imprenditoriale, altro l’affectio societabs». La Corte d’appello di Palermo non avrebbe sciolto il dubbio «se l’azione di NOME sia da inquadrarsi nell’ottica dell’ottenimento di una contropartita per i vantaggi ricevuti – il che lo avvicinerebbe alla posizione del concorrente esterno – o piuttosto in quella dell’affiliato che opera disinteressatamente per rafforzamento della consorteria».
Con riguardo agli indici dell’intraneità dell’imputato utilizzati dalla Cort d’appello di Palermo, il Luppino lamenta che la stessa Corte d’appello avrebbe omesso di raccordare gli stessi con quanto nel corso del processo era stato effettivamente accertato. In particolare: a) non si comprenderebbe da dove la Corte d’appello di Palermo abbia tratto l’idea che il COGNOME fosse riconosciuto dai sodali come “uomo d’onore”, atteso che «la sua figura è assimilata più a un bancomat dal quale operare prelievi, piuttosto che a un compagno di militanza»; b) sarebbe «vacua» l’idea che il COGNOME fosse destinatario di notizie riservate, essendo le stesse ascrivibili all’area del «”notorio giudiziario”» o comunque funzionali, come nel caso dei colloqui con l’COGNOME, «al perseguimento di scopi ulteriori e personali dei conversanti»; c) quanto ai reati fine, le concrete modalità della tentata estorsione ai danni di NOME COGNOME testimonierebbero che «se il COGNOME fosse chi si sostiene che sia, questi non avrebbe alcuna necessità di operare per il tramite di soggetti terzi»; d) quanto alla raccolta di fondi per l famiglie dei detenuti, oltre al fatto che l’aiuto era stato dato in favore del so NOME COGNOME il quale era legato all’imputato da risalenti ragioni familiari,
sarebbe decisivo il fatto che l’imputato «non raccoglie affatto fondi, ma destina a tale scopo esclusivamente le sue proprie personali risorse».
Più specificamente, il ricorrente: a) contesta l’affermazione della Corte d’appello di Palermo secondo cui egli «ha assunto un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante» (pag. 80 della sentenza impugnata), atteso che tale impegno «si configura piuttosto come la manifestazione di estemporanee e contingenti esigenze particolari dell’una e dell’altra parte al di fuori di qualsivoglia vincolo associativo»; b) contest l’affermazione della Corte d’appello di Palermo secondo cui egli «fungeva da erogatore di danaro e da assuntore di manodopera» (pag. 80 della sentenza impugnata), atteso che tale circostanza sarebbe «manifestamente controversa», essendosi asseritamente dimostrato come le richieste di denaro da parte dei singoli associati non fossero avanzate in ragione dell’intraneità del Luppino ma fossero «di volta in volta giustificate in base a singole ed eterogenee motivazioni di natura occasionale».
Il COGNOME sostiene poi la contraddittorietà della motivazione là dove la Corte d’appello di Palermo valorizza «l’apertura di agenzie di scommesse che venivano concesse ai vari affiliati, spesso determinando una perdita per l’odierno imputato» (pag. 82 della sentenza impugnata), potendosi ritenere che una tale condotta non fosse libera ma frutto di un’azione costrittiva.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Palermo avrebbe altresì fatto coincidere, con ciò incorrendo nell’erronea interpretazione e applicazione delle norme invocate, il suo «contributo certamente apprezzabile e concreto al rafforzamento dell’associazione» con la prova della sussistenza dell’a ffectio societatis (pag. 80 della sentenza impugnata).
Nel tornare ai valorizzati indici sintomatici della propria partecipazione all’associazione mafiosa, riassunti alla pag. 80 della sentenza impugnata, il ricorrente lamenta la «mancata correlazione fra gli indici enunciati e la relativa base probatoria», anche alla luce delle critiche che erano state avanzate nel proprio atto di appello, atteso che la Corte d’appello di Palermo avrebbe trascurato di fare precedere l’affermazione della sussistenza degli stessi indici sintomatici di appartenenza all’associazione «da una analitica e puntuale ricognizione circa la esistenza dei relativi elementi di fatto».
Dopo avere rappresentato l’insufficienza dei menzionati indici sintomatici nella decifrazione di situazioni peculiari quale quella dell’«imprenditore inserito all’interno di un contesto severamente condizionante e di relazioni personali imposte dal medesimo ambiente» e come sia riconducibile alla fattispecie del concorso esterno la condotta di colui che «si limita a fornire singoli, sia pure ripetuti, contributi rafforzativi, senza tuttavia mai prendere parte al sodalizio»,
ricorrente rappresenta: a) quanto alla conoscenza di informazioni riservate all’associazione, come esse non fossero affatto riservate, «in considerazione del modesto e ristretto contesto ambientale e territoriale e dei fitti rapport interpersonali che lo caratterizzano»; b) quanto al fatto di accompagnarsi stabilmente con soggetti di sicuro spicco all’interno del sodalizio, come si dovesse «tenere conto del medesimo contesto ambientale e delle risalenti relazioni amicali che giustificavano la frequentazione»; c) quanto all’organizzazione di incontri in favore dell’associazione, come tale circostanza sarebbe di «dubbia consistenza»; d) quanto alla raccolta di fondi per le famiglie dei detenuti, come fosse stata data la prova «di un ben diverso contesto relazionale che aveva giustificato l’interessamento in favore di un singolo nucleo familiare»; e) quanto al riconoscimento da parte degli affiliati quale membro del sodalizio, come le attribuite erogazioni di denaro e assunzioni di manodopera venissero richieste e poste in essere dall’imputato non sulla base della sua appartenenza al sodalizio ma «in base a specifiche richieste motivate di volta in volta da specifiche e occasionali esigenze personali alle quali il Luppino stesso riteneva di dover dare seguito, o perché vittima di intimidazione, o per quieto vivere».
Secondo il ricorrente, da quest’ultima notazione discenderebbe come l’associazione non potesse affatto “contare sulla sua disponibilità”, essendo piuttosto necessario «di volta in volta sollecitare, pretendere o giungere a condotte minatorie al fine di poter ottenere i comportamenti ritenuti di volta in volta necessari, così venendo meno requisito dell’essere a disposizione”».
Sarebbe, infine, contrario all’orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione ritenere elemento dimostrativo dell’appartenenza all’associazione il fatto che il Luppino avrebbe «aiuta le consorterie locali ricevendone a sua volta aiuto nell’espansione delle proprie attività imprenditoriali» (pag. 84 della sentenza impugnata), atteso che, secondo il suddetto orientamento, una tale condotta integrerebbe il reato di concorso esterno nell’associazione.
2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. d) ed e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione relativamente al motivo n. 12 del proprio atto di appello, relativo alla mancata acquisizione documentale di cui ai punti 7 e 8 della nota con allegati che era stata depositata dalla propria difesa all’udienza del 10/11/2021 davanti al Tribunale di Marsala e alla mancata audizione, ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., del Carabiniere NOME COGNOME. Con impugnazione dell’ordinanza del 20/12/2022 con la quale la Corte d’appello di Palermo aveva «apoditticamente ritenuto inconferenti le suddette richieste di prova formulate anche ex art. 603 c.p.p., in violazione altresì dell’art. 606 lett. d) c.p.p., trattandosi di prova decisiva al fine del decidere».
Il ricorrente espone in fatto che: a) il 30/09/2019, giorno successivo all’arresto del Luppino, sua moglie NOME COGNOME trovò sul parabrezza della propria automobile un biglietto nel quale si rappresentava che, per pagare un pregresso debito del marito, sarebbe stato necessario recapitargli in carcere gli orologi preziosi e i lingotti d’oro che non erano stati appresi a seguito delle perquisizion che seguirono il suddetto arresto; b) la sig.ra COGNOME denunciò il fatto ai Carabinieri; c) nel corso dell’udienza del 21/04/2021, il colonnello COGNOME aveva riferito che, grazie alle riprese di alcune videocamere di sorveglianza, il responsabile del posizionamento del biglietto era stato individuato nell’appuntato scelto NOME COGNOME; d) questi era stato indagato per il reato di truffa aggravata e il relativo procedimento era stato archiviato; e) la propria difesa aveva ottenuto copia del verbale dell’interrogatorio dell’indagato NOME COGNOME, della richiesta di archiviazione e del decreto di archiviazione; f) il COGNOME aveva affermato di avere posizionato il biglietto al fine di stimolare la sig.ra COGNOME ad attivare canali mafiosi, ciò che avrebbe consentito degli sviluppi investigativi, ancorché gli fosse stato contestato, nel corso del suo interrogatorio, di non avere avvertito di tale iniziativa nessuno dei propri superiori; g) nel proprio atto appello, si sosteneva che il COGNOME avesse mentito, intendendo, piuttosto, dissimulare un’operazione truffaldina; h) il pubblico ministero aveva motivato la propria richiesta di archiviazione sostenendo che «on si intende affermare che il Messina abbia agito, come ha fatto, a fini investigativi non per truffare l Maggio e farsi consegnare i preziosi; ma si ritiene che un dubbio, seppur minimo, residui in merito alle sue intenzioni, così mettendo in crisi l’univocità degli a compiuti».
Ciò premesso in fatto, il ricorrente precisa che l’oggetto della richiesta istruttoria in questione era costituito dal verbale dell’interrogatorio dell’indaga NOME COGNOME dalla richiesta di archiviazione del procedimento a suo carico e dal decreto di archiviazione, oltre che dall’esame dello stesso NOME COGNOME e rappresenta che la ragione della stessa rigettata richiesta consisteva nel fatto che i fatti sopra esposti avrebbero gettato luce su due circostanze di rilievo ai fin del giudizio e cioè che: a) la reazione della sig.ra COGNOME «smentisce vistosamente l’idea che la famiglia COGNOME fosse intranea e avvezza a dinamiche consortili, laddove, ricevuta una richiesta delittuosa, la COGNOME si rivolse ai Carabinieri e non ai pretesi sodali»; b) un Carabiniere (cioè NOME COGNOME) che, avendo partecipato alle indagini che avevano condotto all’arresto del COGNOME, ne conosceva bene la figura, «si sarebbe ben guardato dall’operare una truffa a danno di un affiliato di potenti famiglie di mafia; talché l’averlo fatto, contribu innegabilmente a sciogliere in favore della difesa la domanda centrale di questo
processo», in quanto «racconta quanto un carabiniere pienamente addentro alle indagini credesse alla mafiosità del Luppino».
Ciò dimostrerebbe la pertinenza e la rilevanza delle prove che la Corte d’appello di Palermo ha «escluso nella sua ordinanza».
2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione di legge e il difetto di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti previste dai commi quarto e sesto dell’art. 416-bis cod. pen.
2.7.1. Quanto alla circostanza aggravante dell’essere l’associazione armata, il ricorrente rappresenta che il riferimento, operato dalla Corte d’appello di Palermo, ai precedenti giurisprudenziali da questa citati nulla direbbe della consapevolezza, da parte del Luppino, della natura armata dell’associazione della quale era stato ritenuto fare parte, e che, se fosse sufficiente, ai fini dell’attribuzi dell’aggravante, il riferimento alla consorteria mafiosa «generale», piuttosto che alla sua singola articolazione, si finirebbe con l’applicare la stessa aggravante «a prescindere dalla conoscenza o incolpevole ignoranza che l’agente ne abbia avuto».
Muovendo dal fatto che, nel processo, «di armi nemmeno l’ombra», il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo avrebbe «sovrappo indebitamente la notorietà di un fatto con l’esistenza di accertamenti giudiziali al suo riguardo». Più specificamente, non sarebbe «difficile concedere che il fatto che vi siano sentenze che hanno definitivamente comminato la sanzione per il IV comma dell’art. 416-bis cod. pen. per alcuni soggetti con cui il ricorrente ha avuto contatti costituisca fatto notorio, attenendo la notorietà di quelle decisioni semmai alla loro affiliazione, non anche al dato circostanziale».
2.7.2. Quanto alla circostanza aggravante dell’avere finanziato le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo con il prodotto o il profitto di delitti, il ricorrente, dopo avere richiamato quanto argomentato con riguardo al fatto che “RAGIONE_SOCIALE non sarebbe a sé riferibile, contesta anzitutto la valorizzazione, operata dalla Corte d’appello d Palermo, del contenuto dell’intercettata conversazione del 10/11/2017 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME. Secondo il COGNOME, non si vedrebbe come la rassicurazione data dal COGNOME al COGNOME che lo stesso Messina potrà fargli aprire un centro scommesse possa «ridondare in danno di Luppino». Comunque, anche ad ammettere che il COGNOME sia connesso con tale conversazione, l’aggravante de quo risulterebbe «agganciat ad una circostanza potenziale», atteso che non risulta che il COGNOME abbia poi effettivamente mai aperto un centro scommesse.
Quanto all’affermazione fatta dalla Corte d’appello dì Palermo nel secondo capoverso della pag. 93 della sentenza impugnata, essa sarebbe il frutto di una mera congettura, atteso che dei menzionati casi di apertura di agenzie di scommesse ne era stato in realtà comprovato uno solo, cioè quello di NOME COGNOME.
Il ricorrente ribadisce che, anche a detta della Corte d’appello di Palermo, l’impresa del Luppino non era né geneticamente né susseguentemente mafiosa, mentre essa costituiva, anche a dare credito alla tesi accusatoria, il serbatoio al quale la consorteria attingeva, «non certo il deposito nel quale riversa sostanze per il successivo reimpiego».
Il NOME reitera infine l’eccezione di nullità, che aveva sollevato nel proprio atto di appello e che è stata del tutto trascurata dalla Corte d’appello di Palermo, sull’assunto che la sussistenza dell’aggravante de quo sarebbe stata ritenuta in violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza. Il ricorrente rappresenta in proposito che tale circostanza aggravante sarebbe stata «evocata solo sotto il profilo formale ma in alcun modo enunciata nelle sue concrete cadenze fattuali», atteso che nel capo d’imputazione si contestava all’imputato di avere «diretto e controllato il settore economico dell’esercizio d giochi e scommesse affidando alcune delle relative agenzie ad altri associati mafiosi», il che sarebbe «cosa del tutto differente dall’ipotizzato finanziamento delle imprese con proventi tratti dall’attività illecita».
Né la direzione e controllo del settore dell’esercizio di giochi e scommesse presuppongono che le imprese dirette o controllate dall’associato NOME siano inevitabilmente «finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profi di delitti».
2.8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 393 e 629 cod. pen., nonché dell’art. 416-bis.1 dello stesso codice, e il difetto della motivazione con riguardo alla prova sia degli elementi oggettivo e soggettivo del delitto di tentata estorsione di cui al capo 2) dell’imputazione sia dell’«aggravante mafiosa». Nonché violazione di legge per avere la Corte d’appello di Palermo, con una motivazione contraddittoria e illogica, negato la qualificazione del fatto contestato nel suddetto capo 2) dell’imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone.
2.8.1. Il ricorrente premette che la vicenda di cui al capo 2) dell’imputazione riguardava il tentativo di recupero di un credito di € 140.000,00 che era vantato dalla società RAGIONE_SOCIALE, che faceva capo a NOME COGNOME, nei confronti di NOME COGNOME recupero che l’imputato avrebbe affidato a NOME COGNOME e a NOME COGNOME, soggetti appartenenti a “Cosa Nostra”.
Ciò premesso, il NOME rappresenta che il suddetto credito era relativo a somme che erano effettivamente dovute dal COGNOME ed aveva un’origine perfettamente lecita. Pertanto, difettava l’elemento costitutivo dell’estorsione costituito dall’ingiustizia del profitto e dal corrispondente danno.
Né il profitto, contrariamente a quanto mostrerebbe di ritenere la Corte d’appello di Palermo, potrebbe essere reputato ingiusto per il fatto che, dei 140.000,00 euro, C 40.000,00 sarebbero stati appannaggio dei soggetti che erano stati incaricati del recupero del credito, atteso che, essendo tale “commissione” di C 40.000,00 “interna” alla somma di C 140.000,00 dovuta dal debitore, la stessa “commissione” non potrebbe in alcun modo determinare l’ingiustizia del profitto.
A nulla rileverebbe, pertanto, l’elemento, peraltro opinabile, che il COGNOME potesse avere prospettato all’COGNOME un guadagno «sproporzionato» (pag. 73 della sentenza impugnata) rispetto all’attività che lo stesso COGNOME avrebbe posto in essere per il recupero del credito.
Né rileverebbero l’illiceità delle modalità utilizzate per riscuoterlo, il metod mafioso asseritamente posto in essere e il contesto criminale nel quale la vicenda ebbe a svolgersi.
Il ricorrente lamenta poi che la Corte d’appello di Palermo avrebbe cercato di trasformare in ingiusto il profitto ricorrendo alla sussistenza «dell’aggravante mafiosa». Dopo avere esposto che tale aggravante non è incompatibile con il reato di cui all’art. 393 cod. pen., il ricorrente passa a esaminare la sussistenza di tale circostanza aggravante e a verificare se, riscontrata la stessa, esista un principio che consenta, in virtù di ciò, «di trasformare un profitto lecito in illecito crean artificiosamente l’esistenza di un danno». Verifiche che, viene anticipato, darebbero entrambe un esito negativo.
2.8.2. Anzitutto, il ricorrente deduce che le fonti probatorie non avrebbero affatto comprovato il ricorso al cosiddetto metodo mafioso in occasione della richiesta che era stata avanzata a NOME COGNOME per oltre un anno e deduce, in proposito yche proprio tale arco temporale confliggerebbe con l’effetto che è proprio dell’utilizzo del metodo mafioso. Di un tale effetto non vi sarebbe traccia nella motivazione, mentre la Corte d’appello di Palermo lo avrebbe erroneamente tratto «dalla connotazione dei protagonisti dell’azione».
In secondo luogo, il ricorrente richiama alcuni principi, affermati dalla Corte di cassazione, sull’aggravante della cosiddetta agevolazione mafiosa, sottolineando come da essi si trarrebbe che, ai fini della sussistenza di tale circostanza aggravante, occorrerebbe che ricorra il dolo specifico di far sì che l’associazione di tipo mafioso tragga nel suo insieme beneficio dall’attività svolta, non essendo sufficiente che serva gli interessi di singoli associati, sicché non
rileverebbe «affatto né il semplice scopo di favorire un esponente della cosca né che il risultato realizzi anche il fine dell’associazione».
Ciò posto, il ricorrente lamenta che la motivazione sarebbe meramente apparente atteso che la Corte d’appello di Palermo si sarebbe limitata ad affermare ciò che avrebbe dovuto, invece, essere dimostrato, non avendo la stessa Corte d’appello in alcun modo spiegato perché l’obiettivo perseguito dal NOME si dovesse ritenere essere quello di favorire la cosca e l’interesse collettivo degli associati e non, invece, quello di soddisfare gli interessi di singoli suo appartenenti.
Nel richiamare la sentenza COGNOME delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027-02 e Rv. 280027-03), il ricorrente deduce che l’interesse proprio del terzo che vale a determinare la qualificazione del fatto come estorsione anziché come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone «”deve essere individuato in un ingiusto profitto con danno altrui”, perché diversamente opinando l’interesse “proprio” del terzo non potrebbe avere giuridica rilevanza».
Sarebbe, poi, infondata, anche la tesi secondo cui la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa determinerebbe, per ciò solo, «quell’ulteriore e illecito fine del terzo», atteso che non si comprenderebbe «come nel caso specifico l’agevolazione della cosca creerebbe un danno patrimoniale alla vittima dal momento che non solo era esistente il credito, ma gli era stata richiesta la restituzione solo di una parte».
Il ricorrente deduce, infine, di dubitare che sia percorribile un’esegesi che qualifichi il delitto a partire dai suoi elementi circostanziali.
2.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà e illogicità della motivazione riferimento a due sentenze passate in giudicato con le quali NOME COGNOME e NOME COGNOME sono stati assolti, perché il fatto non sussiste, dai reati di cui «n. 7) e 8)» (recte: n. 8 e 10) dei quali rispondevano in concorso con il NOME. Nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dei reati di trasferimento fraudolento di valori di cui a capi 6), 7), 8) e 10) dell’imputazione, aggravato, quello di cui al capo 6) dell’imputazione, ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., in considerazione della mancanza della prova, ex art. 533 cod. proc. pen., in assenza di indizi valutabili ex art. 192, commi 2 e 3, dello stesso codice, in particolare, della ritenuta consapevolezza dell’imputato della sua sottoponibilità a misure di prevenzione patrimoniali, avendo, altresì, la sentenza impugnata, omesso di confrontarsi con gli specifici motivi di appello che erano stati prospettati in ordine ai suddetti ca d’imputazione.
Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d’appello di Palermo avrebbe trascurato qualsiasi accertamento, che sarebbe stato invece necessario, in ordine all’idoneità delle condotte poste in essere a conseguire effetti di sottrazione.
Il COGNOME contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d’appello di Palermo: a) del fatto che egli sarebbe stato «perfettamente consapevole dell’elevato livello criminale di alcuni dei suoi principali interlocutori» (pag. 96 de sentenza impugnata), atteso che,da tale argomento lnon sarebbe possibile dedurre la «certezza in ordine alla sua effettiva prospettazione di esposizione a una misura di prevenzione»; b) del fatto che egli «decideva di fare ricorso a opere di bonifica per escludere che nella sede principale dei propri affari potessero trovarsi dispositivi di occulta captazione» (sempre pag. 96 della sentenza impugnata), atteso che detta bonifica, in quanto volta a preservarsi da coinvolgimenti in indagini riguardanti altri, non potrebbe essere ricollegata alla prospettiva di potere essere destinatario di misure di prevenzione patrimoniali.
Né sarebbe effettivamente significativo, sempre con riguardo al dolo specifico dei reati, il contenuto della propria intercettata conversazione del 16/11/2017 con NOME COGNOME nel quale egli aveva fatto riferimento a una condizione di difficoltà economica, alla necessità di vendere gli immobili di sua proprietà e a una precedente visita da parte della Guardia di finanza, atteso che, come risulterebbe dal colloquio, tale visita era diretta all’accertamento della regolarità dell’eserciz delle scommesse e del pagamento delle relative tasse e che l’unico oggetto delle riflessioni del Luppino era quello della correttezza del suo comportamento sul piano tributario.
2.9.1. Quanto all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 6) dell’imputazione, il ricorrente rappresenta che, come da lui stesso riferito nel corso del proprio esame, l’associazione “RAGIONE_SOCIALE” era stato l’oggetto di un investimento di più soggetti (egli stesso, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) e il fine di tale investimento esso era quello di consentire ai propri parenti NOME COGNOME (zio) e NOME COGNOME (cugina) di trovare un lavoro.
Tale condotta, secondo il ricorrente, sarebbe estranea alla tipicità del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., in particolare con riguardo al dolo specifico di ta reato.
Inoltre, la Corte d’appello di Palermo non avrebbe indicato da quali elementi probatori abbia tratto che, con il suddetto investimento, il Luppino «ha inteso ottenere dei profitti in ordine ai quali risponde all’associazione» (pag. 99 della sentenza impugnata), atteso che,dall’istruttoria dibattimentale, sarebbe emerso che “COGNOME” attendeva ancora i pagamenti dalla Prefettura e, alla data di esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare, non aveva ancora prodotto utili.
La Corte d’appello di Palermo avrebbe poi travisato la prova là dove attribuisce al Luppino un investimento di C 150.000,00, atteso che l’imputato, di tale somma, ne aveva in realtà investito C 40.000,00.
Il ricorrente contesta anche l’attribuzione della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa. Il Luppino deduce che l’aggravante dell’agevolazione mafiosa dovrebbe essere esclusa quando il vantaggio sia assicurato al singolo associato, ancorché in posizione apicale, e non al sodalizio mafioso in quanto tale. Come era stato riferito dal Luppino nel corso del proprio esame, la piccola somma mensile che veniva consegnata all’Urso gli veniva corrisposta come beneficio personale, con motivazioni particolari che prescindevano del tutto dal necessario dolo specifico di avvantaggiare l’organizzazione di appartenenza.
Anche il contenuto della conversazione del 18/10/2017 tra il Luppino e l’Urso non consentirebbe di ipotizzare che i pagamenti da effettuare una volta avuta la necessaria liquidità non fossero destinati agli impiegati dell’associazione.
2.9.2. Quanto all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 8) dell’imputazione (che il ricorrente indica erroneamente come capo 7), il COGNOME denuncia l’illogicità della motivazione là dove la Corte d’appello di Palermo pretenderebbe di trarre dal contenuto dell’intercettata conversazione del 12/06/2017 tra lo stesso COGNOME e NOME COGNOME, nella quale il COGNOME affermava di possedere un negozio di caffè (pagg. 104-105 della sentenza impugnata), un collegamento tra il bar “RAGIONE_SOCIALE bar” e il Luppino. Inoltre, la Corte d’appello di Palermo non spiegherebbe quale sarebbe la connessione probatoria tra l’effettiva proprietà del bar “RAGIONE_SOCIALE” e la palestra “RAGIONE_SOCIALE” con sede all’interno di un immobile di proprietà dell’imputato.
Con riguardo al contenuto dell’intercettata conversazione del 17/11/2017 tra il COGNOME e NOME COGNOME (pag. 105 della sentenza impugnata), il ricorrente lamenta di avere inutilmente prodotto sia l’ordinanza del Tribunale del riesame sia le motivazioni rese sul punto nella sentenza n. 565/2020, confermata dalla sentenza di appello n. 387/2022, divenuta irrevocabile il 08/09/2022, atti dai quali sarebbe risultato come la suddetta conversazione non dimostrasse l’esercizio, da parte del Luppino, di un concreto potere gestorio sul bar “RAGIONE_SOCIALE” o, comunque, di una signoria sulla relativa impresa. Né la Corte d’appello di Palermo si sarebbe confrontata con l’assenza di prova che il Luppino abbia fatto propri gli utili della stessa impresa. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo, anche violando l’art. 238-bis cod. proc. pen., attesa la valutazione che del contenuto della suddetta conversazione era stata già fatta, con una pronuncia ormai definitiva, da due giudici di merito, avrebbe travisato lo stesso contenuto, dal quale sarebbe emersa l’esclusione che il COGNOME: a) avesse esercitato alcuna ingerenza sulla gestione dell’impresa, avendo affidato il bar in gestione al Pizzolato
(«questo bar me lo gestiscono alcuni amici»); b) avesse partecipato agli utili dell’impresa.
Con riguardo alle intercettate affermazioni del COGNOME, riportate alla pag. 106 della sentenza impugnata, con le quali l’imputato si era lamentato dell’ingratitudine dei fratelli COGNOME, i quali avevano usufruito del bar per 4 ann facendo poi intendere, nell’ipotizzare di chiedere loro C 500,00 al mese, che i due fratelli non gli avevano mai corrisposto somme di denaro, il ricorrente afferma che «tali dati confliggono insuperabilmente con la ipotizzata creazione di una situazione di apparenza giuridica e formale nella titolarità o disponibilità dell’impresa, difforme dalla realtà; l’impresa, invero, risulta essere stata gestit dai COGNOME che hanno fatto propri anche gli utili dell’attività, sfruttando, al pi beni strumentali che NOME ha affermato essere di sua proprietà. In ogni caso, difetta in radice la dimostrazione, anche solo indiziaria, del dolo specifico del delitto».
Il COGNOME, nel sottolineare come la Corte d’appello di Palermo non si confronti con il dato esposto dal Tribunale di Marsala secondo cui la prova del dolo specifico si trarrebbe dal fatto che egli dal 2017 (esattamente, dal 16/11/2017) aveva avuto conoscenza dell’esistenza di indagini a proprio carico, sicché da quella data aveva trasferito a terzi la titolarità di quote societarie e aveva intestato a terzi le impr e le società di nuova costituzione, rappresenta che, nel caso di specie, egli è titolare di imprese, società e quote di società, ciò che militerebbe in senso contrario rispetto al suo asserito timore di essere colpito da misure di prevenzione patrimoniali e al suo fine di eluderne l’applicazione, tanto più con riguardo all’impresa in questione che era stata costituita prima dell’avvio delle indagini a suo carico.
2.9.3. Quanto all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 10) dell’imputazione (che il ricorrente indica erroneamente come capo 8), il Luppino ribadisce l’assenza, anche in questo caso, del dolo specifico del delitto, e lamenta di avere inutilmente prodotto, anche con riguardo ai fatti di cui al capo d’imputazione in considerazione, sia l’ordinanza del Tribunale del riesame sia le motivazioni rese sul punto nella sentenza n. 565/2020, confermata dalla sentenza di appello n. 387/2022, divenuta irrevocabile il 08/09/2022, e ribadisce che dalle intercettate conversazioni che vengono citate dalla Corte d’appello di Palermo non risulterebbe affatto che egli esercitasse un concreto potere gestorio sull’impresa individuale “COGNOME NOME” o che ne percepisse gli utili.
Anzitutto, la conversazione del 08/02/2018, nella quale il COGNOME aveva affermato che «ho pure una società di trasporti» (pag. 109 della sentenza impugnata), sarebbe del tutto generica e non potrebbe, perciò, essere ricondotta all’impresa del RAGIONE_SOCIALE. Anche il riferimento a «una società», piuttosto che a
un’impresa individuale, indurrebbe a escludere che il riferimento fosse all’impresa del Tu m biolo.
Il ricorrente rappresenta poi che alcune delle conversazioni tra il COGNOME e il COGNOME , valorizzate dalla Corte d’appello di Palermo, erano antecedenti la costituzione dell’impresa individuale “COGNOME NOME” (avvenuta il 19/07/2017), sicché dalle stesse non si potrebbe desumere la titolarità, in capo al COGNOME, di un’impresa non ancora costituita.
Ancora, le intercettate conversazioni valorizzate dalla Corte d’appello di Palermo attesterebbero al più un interessamento del Luppino nell’acquisto di alcuni automezzi ma non l’esercizio di un potere gestorio o di una signoria sull’impresa individuale “COGNOME NOME“. In particolare: a) la conversazione del 02/01/2017 avrebbe una valenza neutra, atteso che gli interlocutori facevano riferimento a una non meglio specificata questione attinente a Salaparuta; b) la conversazione del 26/06/2017 attesterebbe un interesse del COGNOME a fornire a sue spese al Comune di Campobello di Mazara un servizio navetta che garantisse i collegamenti tra una comunità di accoglienza che egli intendeva aprire e il centro del suddetto Comune; c) dalla conversazione del 27/02/2018, come sottolineato nel proprio atto di appello, risultava che il mezzo acquistato dal COGNOME per conto e nell’interesse del COGNOME doveva essere intestato alla RAGIONE_SOCIALE, di cui il COGNOME era socio unico e palese, il che escluderebbe ogni finalità elusiva dell’operazione e spiegherebbe perché il pagamento del mezzo fosse stato effettuato dal NOME, con ciò trovando dimostrazione anche l’illogicità della motivazione e la sua carenza rispetto a uno specifico motivo di doglianza dell’atto di appello, là dove la Corte d’appello di Palermo afferma che «e effettivamente, come ha sostenuto la difesa, NOME fosse stato titolare dì un’altra “società” di trasporti, ben avrebbe potuto indicarla» (pagg. 110-11 della sentenza impugnata); d) la conversazione del 20/10/2017, nella quale il COGNOME si sfogava con il COGNOME lamentandosi, parlando al plurale, di avere pagato il pulmino più del suo valore, non sarebbe, neppure essa, significativa. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Insomma, le conversazioni menzionate attesterebbero l’interessamento, il coinvolgimento o, al più, il cointeresse del COGNOME nell’acquisto di automezzi effettuato autonomamente dal COGNOME, senza che, però, la Corte d’appello di Palermo abbia evidenziato prove della riconducibilità dell’impresa di questi al COGNOME, o che l’imputato gestisse la stessa impresa o ne percepisse gli utili.
In ogni caso, mancherebbe la prova, anche solo indiziaria, del dolo specifico del delitto, a proposito della quale il ricorrente ribadisce quanto si è riassunt nell’ultimo capoverso del punto 2.9.2.
2.9.4. Quanto all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 7) dell’imputazione (che il ricorrente indica erroneamente come capo 10), il NOME
deduce che gli elementi valorizzati dalla Corte d’appello di Palermo non raggiungerebbero lo standard probatorio di cui all’art. 533 cod. proc. pen. in quanto non sarebbero idonei a smentire l’assunto difensivo secondo cui la cessione della quota del 10% di “RAGIONE_SOCIALE a NOME COGNOME era avvenuta «al solo fine di risparmiare ed il bene al momento del suo trasferimento era del tutto privo di attività e di qualsivoglia consistenza che rendesse la condotta rilevante sotto il profilo della offensività e del pericolo, dovendosi dunque interpretare l’intervento dell’imputato al momento dell’accertamento da parte della PG, come una semplice consulenza amichevole, inidonea a dimostrare una interferenza gestionale».
Mancherebbe, comunque, la prova del dolo specifico del reato non essendovi prova del fondato timore di potere essere sottoposto a una misura di prevenzione patrimoniale e della volontà di eludere tale misura mediante l’intestazione fiduciaria di “RAGIONE_SOCIALE
2.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., la violazione di legge e la mancanza della motivazione, con riferimento agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e agli artt. 62-bis, 81, 133 e 416-bis, quarto comma, cod. pen., relativamente al trattamento sanzionatorio.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alle proprie doglianze, avanzate nell’atto di appello, relative al trattamento sanzionatorio, con particolare riguardo alla pena base irrogata, alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e agli aumenti di pena per la continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Preliminarmente, è necessario rammentare alcuni principi che sono stati affermati dalla Corte di cassazione in tema di cosiddetta “doppia conforme”, di limiti al sindacato della stessa Corte di cassazione sulla motivazione e sull’interpretazione e la valutazione del contenuto di conversazioni intercettate, e, infine, di partecipazione a un’associazione di tipo mafioso.
Anzitutto, costituisce un orientamento consolidato della Corte di cassazione quello secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, rico la cosiddetta “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prov con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME,
Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, NOME, Rv. 25261501).
È parimenti consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, COGNOME, Rv. 280155-01; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018-01; Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, COGNOME, Rv. 256837-01).
Costituisce, ancora, un principio pacificamente accolto dalla Corte di cassazione – e anch’esso, come i precedenti, condiviso dal Collegio – quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatori del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME Rv. 28074701; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965-01).
3. La Corte di cassazione ha altresì chiarito che, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza dell motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME Rv. 268389-01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01).
4. Il primo comma dell’art. 416-bis cod. pen. prevede la punibilità per il semplice «fa parte di un’associazione di tipo mafioso». A livello di struttura, i delitto si deve classificare come un reato a forma libera e di pura condotta, in
quanto si perfeziona con il compimento di una determinata azione, ossia, con l’entrare a far parte di un’associazione del tipo indicato.
La Corte di cassazione (Sez. U, n. 33745 del 12/072005, COGNOME, Rv. 231670-01. Successivamente, tra le tante: Sez. 2, n. 56088 del 12/10/2017, COGNOME, Rv. 271698-01) ha chiarito che le forme della partecipazione possono essere le più diverse, possono essere non appariscenti e possono assumere connotati che coincidono, all’apparenza, con le normali esplicazioni della vita quotidiana e lavorativa (come avviene, per esempio, per l’imprenditore colluso) e che ciò che rileva è la messa a disposizione – in via tendenzialmente durevole e continua – delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio. “Messa a disposizione” che deriva dall’essere stato ammesso nell’associazione mafiosa da parte di un singolo, il quale, mettendosi a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi, accresce, per ciò solo, la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione. Si richiede, comunque, la prova dell’inserimento nell’associazione e cioè la dimostrazione che il singolo aderente sia stato “assunto” nel gruppo criminale e venga considerato membro o dalla totalità dei componenti o comunque da alcuno degli esponenti di vertice. La prova principale della partecipazione è quindi legata all’acquisizione della formalità di componente del gruppo indipendentemente dal compimento di atti illeciti o di altri atti idonei a rafforzarne la struttura operat ove, però, tale prova manchi e cioè non sia stata acquisita la dimostrazione dell’inserimento formale, effettivo, del singolo nella cosca mafiosa, camorristica o di ‘ndrangheta, per ciò solo non può essere esclusa la prova della partecipazione potendosi la stessa aliunde ricavare proprio dal compimento di una o più attività significative nell’interesse dell’associazione di tipo mafioso. Posto, infatti, che membro sia chi sia stato inserito nel gruppo criminale e aderendovi abbia così rafforzato la struttura criminale operativa del gruppo, sia chi abbia volontariamente e consapevolmente contribuito alla realizzazione degli scopi illeciti dell’ente criminale volendone far parte, non si può escludere che, mancando la dimostrazione dell’inserimento formale, sia possibile acquisire la prova del coinvolgimento attraverso la dimostrata partecipazione a delitti-fine ovvero ad altre attività della cosca che assumano una significatività tale da dimostrare proprio lo stabile inserimento nel contesto criminale di quel determinato gruppo mafioso/camorristicofndranghetistico. In assenza, invece, di dimostrazione dell’inserimento stabile o comunque formale ovvero della partecipazione a uno o più delitti-fine o, comunque, ad attività inequivocabilmente significative per la vita associativa criminale, la prova della partecipazione non si potrà dire raggiunta. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno più di recente ribadito che la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si caratterizza per lo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua “messa a disposizione” in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, Rv. 281889-01).
Quanto alla distinzione tra la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa e il concorso esterno, è stato precisato che essa non ha natura meramente quantitativa, ma è collegata all’organicità del rapporto tra il singolo e l consorteria, per cui deve essere qualificato come contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, anche se lo stesso non abbia mai avuto occasione di attivarsi, mentre, al contrario, va qualificato come contributo concorsuale “esterno” quello dell’extraneus, sulla cui disponibilità il sodalizio non può contare, che sia stato più volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate sulla base di autonome determinazioni (Sez. 2, n. 35185 del 21/09/2020, Cangiano, Rv. 280458-02, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la condanna per partecipazione ad associazione di stampo mafioso dell’imputato che, divenuto direttore del reparto di ingegneria di una struttura ospedaliera grazie al diretto interessamento della cosca, aveva garantito in maniera sistematica l’affidamento e l’aggiudicazione di appalti a esponenti del mondo imprenditoriale vicini al clan).
Sul piano probatorio, la partecipazione a un’associazione di tipo mafioso può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole d esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, si possa logicamente inferire l’appartenenza del soggetto al sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi, come, per esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitur della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici e significativi facta concludentia, idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, cit; Sez. 1, n. 1470 del 11/12/2007, dep. 2008, COGNOME, Rv. 238839-01).
Richiamati tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, il primo, i secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo – i quali, per la loro eviden connessione, possono essere scrutinati congiuntamente – non sono consentiti.
La Corte d’appello di Palermo ha confermato l’affermazione di responsabilità del COGNOME per il reato di partecipazione all’associazione mafiosa “Cosa Nostra” sotto l’egida, in particolare, della famiglia di Campobello di Mazara, facente parte
del mandamento di Castelvetrano, ma con rapporti anche con il mandamento di Mazara del Vallo – sulla base di plurimi indicatori fattuali, i quali erano emersi, principalmente (anche se non esclusivamente), dal contenuto di conversazioni intercettate.
In primo luogo, l’indicatore costituito dal fatto che, dal compendio probatorio, era risultato come il COGNOME – imprenditore che operava nel settore dei giochi e delle scommesse e che frequentava abitualmente diversi soggetti anche di spicco di “Cosa Nostra” (come NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME) – assicurasse ai membri di tale sodalizio criminoso sostegno economico in denaro o ai fini dell’apertura di agenzie di giochi e scommesse o, comunque, del reperimento di un’attività lavorativa, in particolare: a) sostegno economico in denaro a NOME COGNOME, appartenente alla famiglia di mafiosa di Campobello di Mazara, e a sua moglie NOME COGNOME durante la detenzione dello stesso NOME COGNOME (pagg. 26-28 della sentenza impugnata); b) dazioni di denaro (C 500,00 al mese) a NOME COGNOME, anch’egli membro della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, somma che doveva essere erogata a valere sui proventi dall’occulta partecipazione all’associazione “NOME COGNOME” (pagg. 28-30 della sentenza impugnata); c) aiuto a NOME COGNOME, anch’egli membro della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, ai fini dell’apertura di un’agenzia di giochi e scommesse (pagg. 30-32 della sentenza impugnata); d) dazioni di denaro e sostegno nel reperimento di un posto di lavoro in favore di NOME COGNOME già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (pagg. 32-42 della sentenza impugnata); e) dazioni di denaro «affatto modeste» a NOME COGNOME reggente dal mandamento mafioso di Mazara del Vallo (pag. 46 della sentenza impugnata).
In secondo luogo, l’indicatore costituito dal fatto che, dallo stesso compendio probatorio, era risultato come l’indicato sostegno che il Luppino forniva, sotto forma di elargizioni in denaro e di procacciamento di occasioni di lavoro, ai menzionati membri del sodalizio criminoso, lungi dall’essere il frutto di una (peraltro mai specificata) coartazione ai danni dello stesso Luppino o, comunque, di una pressione ambientale, si doveva ritenere connotato piuttosto nei termini di un libero accordo basato sulla reciprocità, con riguardo al sostegno che il COGNOME riceveva da “Cosa Nostra” nell’esercizio della propria attività imprenditoriale nel settore dei giochi e delle scommesse, come emergeva, tra l’altro: a) dall’apertura dell’agenzia del Dell’Aquila, nonostante il COGNOME lo ritenesse un cattivo affare, solo nella prospettiva del sostegno reciproco tra sodali e per rispettare gli accordi con NOME COGNOME (pag. 31 della sentenza impugnata); b) dalla comune intromissione, del Luppino e della famiglia mafiosa, nella vita politica del Comune di Campobello di Mazara, funzionale a potere poi assicurare dei posti di lavoro ai
sodali (pagg. 36-43 della sentenza impugnata); c) dall’aiuto fornito al NOME da NOME COGNOME rispetto al concorrente dello stesso NOME “NOME” (pagg. 52-53 della sentenza impugnata); d) dalla “protezione” ricevuta dal NOME con riguardo a vicende che avevano interessato alcuni locali (i bar “Martin”, “Woodhouse” e “Fiocca”) nei quali erano state collocate lo slot machines di “RAGIONE_SOCIALE (pag. 59 della sentenza impugnata) ; e) dall’estensione degli affari del NOME, il quale operava principalmente a Campobello di Mazara (facente parte del mandamento di Castelvetrano), nella zona del marsalese, che faceva parte del mandamento di Mazara del Vallo, con l’aiuto e la protezione del sodalizio (pagg. 55, 57-58, 60, 62, 65).
La Corte d’appello di Palermo ha ,altresì,diffusamente argomentato in ordine alle ragioni per le quali RAGIONE_SOCIALE (nella quale lavorava lo zio del COGNOME NOME COGNOME), ancorché fosse intestata a NOME COGNOME, si dovesse in realtà ritenere essere sotto il diretto controllo dello stesso COGNOME (pagine 53 e seguenti della sentenza impugnata).
In terzo luogo, gli indicatori costituiti dal fatto che, dalle conversazi intercettate, era emerso che il COGNOME: a) si rapportava con i partecipi di “Cosa Nostra” su un piano assolutamente paritario (pagg. 28 e 68-69, nelle quali ultime si evidenzia come il COGNOME si potesse anche permettere di riprendere con forza NOME COGNOME, capo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, per non essersi adeguatamente attivato per il recupero del credito vantato da NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME); b) fosse posto al corrente di vicende riservatissime di “Cosa Nostra”, le quali, come tali, si dovevano ritenere certamente non comunicabili a un extraneus (pagg. 66, 69); c) conoscesse e rispettasse le regole di “Cosa Nostra”, con riguardo sia alla “competenza” territoriale dei vari mandamenti sia alle gerarchie all’interno degli stessi (pagg 69-70 della sentenza impugnata).
In quarto luogo, l’indicatore costituito dal fatto che il COGNOME, dinnan all’esigenza di recuperare il menzionato credito del COGNOME nei confronti del COGNOME si fosse senz’altro rivolto a un membro della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, di più, al capo di tale famiglia NOME COGNOME (rivolgendosi a lui con autorità tanto da permettersi anche, come si è detto, di rimproverarlo per la sua inerzia).
La deduzione, da tali indicatori fattuali, da parte della Corte d’appello d Palermo, dell’esistenza di un rapporto organico del Luppino con “Cosa Nostra”, per essere stati gli stessi indicatori ritenuti significativi di uno stabile inserim nell’associazione criminosa da parte dell’imputato – sulla disponibilità del quale la stessa associazione poteva contare ai fini del sostentamento, sia economico sia lavorativo, dei suoi membri, ricevendone, in cambio, il Luppino, aiuto e protezione per le proprie imprese – appare, oltre che rispettosa dell’art. 416-bis cod. pen. e
in linea con i principi che sono stati affermati dalla Corte di cassazione a proposito del reato di partecipazione a un’associazione mafiosa, priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità.
In particolare, alle censure del ricorrente, le quali, ad avviso del Collegio, lung dall’evidenziare degli effettivi travisamenti delle risultanze probatorie, tali da f emergere, in termini inequivocabili, la non corrispondenza delle motivazioni delle conformi sentenze dei giudici di merito all’acquisito compendio probatorio, appaiono tradursi, nella sostanza, in una contestazione della mera persuasività della motivazione o nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire alle diverse prove o nell’evidenziazione di ragioni in fatt per giungere a conclusioni differenti in ordine alla valenza probatoria dei vari elementi di prova, il che, come si è detto, non è possibile fare in sede di legittimità
La logicità della motivazione della partecipazione del Luppino a “Cosa Nostra”, in quanto soggetto “a disposizione” di tale associazione, il quale garantiva, in modo sistematico, ai membri di essa, il sostegno di cui si è detto, esclude poi logicamente che lo stesso NOME si potesse ritenere un mero concorrente esterno.
6. Il sesto motivo è manifestamente infondato.
Nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, previst dall’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale svolta in primo grado e alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria. Tale accertamento è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità s correttamente motivata (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, COGNOME Rv. 262620-01; Sez. 4, n. 18660 del 19/02/2004, COGNOME, Rv. 228353-01; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 229666-01).
L’impossibilità di decidere allo stato degli atti sussiste unicamente quando i dati probatori già acquisiti siano incerti, nonché quando l’incombente richiesto sia decisivo, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze ovvero sia di per sé oggettivamente idoneo a inficiare ogni altra risultanza (Sez. 6, n. 20095 del 26/02/2013, Ferrara, Rv. 256228-01; Sez. 3, n. 35372 del 23/05/2007, COGNOME, Rv. 237410-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Palermo, con l’impugnata ordinanza del 20/12/2022, ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto insussistente il presupposto di legge della necessità della sollecitata rinnovazione dell’istruttori dibattimentale, affermando come la richiesta rinnovazione istruttoria, relativa alla vicenda che aveva visto coinvolto il Carabiniere NOME COGNOME fosse inconferente ai fini della decisione.
Tale motivazione appare sufficiente e logicamente corretta, atteso anche che l’asserita decisività del verbale di interrogatorio del suddetto NOME COGNOME, della richiesta di archiviazione del procedimento a suo carico e del decreto di archiviazione, oltre che dell’esame dello stesso NOME COGNOME, appare palesemente smentita dal fatto che, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, nessun rilievo decisivo, al fine di stabilire se il NOME fosse o no partecipe in “Cosa Nostra”, avrebbe potuto essere attribuito né al fatto che la moglie dello stesso ricorrente sig.ra COGNOME avesse deciso di denunciare ai Carabinieri, anziché a “Cosa Nostra”, l’episodio del biglietto che aveva trovato sul parabrezza della propria automobile, né all’opinione che l’asserito truffatore (qualità ritenuta peraltro dubbia dal pubblico ministero, che aveva perciò chiesto l’archiviazione) potesse avere avuto riguardo alla stessa partecipazione, atteso che questa doveva essere accertata, come era stato fatto, sulla base di precisi elementi probatori e non di soggettive reazioni (quella della sig.ra COGNOME di denunciare il fatto ai Carabinieri) o opinioni (quelle che avrebbe asseritamente avuto il Carabiniere Messina).
Il settimo motivo è: 1) manifestamente infondato con riguardo alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell’essere l’associazione armata di cui al quarto comma dell’art. 416-bis cod. pen.; 2) fondato con riguardo alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell’avere finanziato le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo con il prodotto o il profitto di delitti di cui al sesto comma dell’art. bis cod. pen.
7.1. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell’essere l’associazione armata di cui al quarto comma dell’art. 416-bis cod. pen., si deve rammentare che giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva; b) va riferita all’intera associazione di cui si fa parte (pertanto, nella specie, a “RAGIONE_SOCIALE” e non alla famiglia di Campobello di Mazara); c) è addebitabile al singolo associato che sia consapevole della disponibilità di armi da parte dell’associazione o ignori per colpa tale disponibilità.
Con specifico riguardo a “RAGIONE_SOCIALE“, è stato in particolare affermato che: a) in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l’aggravante prevista dall’art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi dell’organizzazione mafiosa denominata “Cosa Nostra” si può ritenere che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile (Sez. 1, n. 5466 del 18/04/1995, COGNOME, Rv. 201650-01); b) in senso analogo, in tema di partecipazione ad associazione di
stampo mafioso, la circostanza aggravante prevista dall’art. 416-bis, q comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consape del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa (Sez. 1, n del 28/09/1998, Bruno, Rv. 211901-01, relativa a una fattispecie concernen l’associazione per delinquere di stampo mafioso denominata “Cosa Nostra”, i riferimento alla quale la Corte ha affermato che, data la sua stabile dotazi armi, questa costituisca fatto notorio non ignorabile); c) in tema di associ per delinquere di stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giud di merito che ritiene sussistente l’aggravante della disponibilità delle arm all’art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., quando il delitto associativo è con agli appartenenti di una famiglia mafiosa aderente all’organizzazione denomin “Cosa Nostra”, anche nel caso in cui la disponibilità delle armi è provata a di un solo appartenente (Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014, Corso, 260919-01); d) in tema di associazioni di tipo mafioso storiche (nella specie, Nostra”), per la configurabilità dell’aggravante della disponibilità di armi richiesta l’esatta individuazione delle stesse, ma è sufficiente l’accertam fatto, della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risul emerse nella pluriennale esperienza storica e giudiziaria, essendo questi ele da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probator 2, n. 22899 del 14/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284761-01).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Palermo ha appurato che non so “Cosa Nostra”, di cui la famiglia di Campobello di Mazara costitu un’articolazione, disponeva di armi, ma anche che: a) anche tale famiglia maf (così come quella di Ccastelvetrano) disponeva di armi, come risultava da plur acquisite sentenze passate in giudicato; b) anche diversi dei soggetti con i NOME si era ripetutamente relazionato (come NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) erano stati condannati per il reato di cui all’art. 416pen. aggravato dall’essere l’associazione armata.
A fronte dei ricordati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazi tali accertamenti in fatto, si deve ritenere che del tutto correttamente d’appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi i all’associazione e, in particolare, alla famiglia mafiosa di Campobello di Ma sia la conoscenza o, comunque, l’ignoranza colpevole, da parte del NOME, di disponibilità, avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potes assumere rilievo, in senso contrario, i fatti che, nel procedimento, non f state rinvenute armi né fosse stato accertato l’uso delle stesse d dell’imputato.
7.2. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggrava dell’essere le attività economiche di cui gli associati intendono assu
mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di più recente giurisprudenza della Corte di cassazione è orientata nel senso che circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva e deve essere riferita all’ dell’associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe richiede un apporto di capitale nelle attività economiche che corrispon reinvestimento delle utilità che sono state procurate dalle azioni criminose consorteria; c) richiede altresì che tale reinvestimento si concreti nell’in in strutture produttive destinate a prevalere, nel territorio di insediamen altre che offrono beni o servizi analoghi.
La Corte di cassazione ha in particolare affermato che: a) ai fini configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività econom finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il delitti – occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell’a economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazi commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli eserci nell’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel ter insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. necessario che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle u procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento re La suddetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all’attività dell’assoc non alla condotta del singolo partecipe e ha, pertanto, natura oggettiva (S n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172-01, con la quale la Corte, applicazione di tale principio, ha censurato la decisione con cui il giudice di aveva ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto cod. pen., ritenendo anapoditticamente certo che i proventi delle estorsioni sodalizio era dedito fossero reinvestiti nelle attività economiche gestite degli interessati alla vicenda, in assenza, tra l’altro, di verifiche in titolarità, alle dimensioni e tipologia dell’attività nonché alla data di co dell’impresa e alle forme di finanziamento di essa); b) la circostanza aggrava cui all’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ricorre quando l’attività eco finanziata con il provento dei delitti esecutivi del programma del sodalizio n limitata a singole operazioni commerciali o alla gestione di singoli esercizi concreti nell’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrano beni o servizi analoghi (Sez. 5, n. 493 05/11/2019, Cordone, Rv. 277653-01, con la quale la Corte, in applicazione tale principio, ha annullato la sentenza di merito che aveva riconos l’aggravante nei confronti di un soggetto, depositario dei proventi del traf Corte di Cassazione – copia non ufficiale
stupefacenti gestito dal sodalizio, senza tuttavia investirli in attività economiche) c) ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comm cod. pen. – che ricorre quando gli associati intendano assumere il controllo di attività economiche, finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezz prodotto o il profitto di delitti e che ha natura oggettiva dovendo essere riferit all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe – occorre si un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia c l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278796-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l’aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento); d) la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell’art. 416-bis cod. pen. – che si configura ove le attività economiche di cui gl associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti – ha natura oggettiva riferita all’attività dell’associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni cosiddette storiche come mafia, camorra e `ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che – appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando e investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del loro programma criminoso un’ignoranza al riguardo in capo a un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Aieta, Rv. 281463-02). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
È necessario segnalare anche quell’orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata ai sensi dell’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto, con violenza o minaccia, di far assegnare lavori in appalto a imprese colluse o di cedere attività commerciali in favore di prestanome mafiosi, atteso che, in tali ipotesi, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione lavori e dei servizi svolti dall’impresa mafiosa, che si giova dell’imposizione criminale, ovvero dai proventi derivanti dall’acquisizione dell’attività commerciale altrui, e il reimpiego si attua attraverso l’investimento di tale profitto nelle at
della medesima impresa mafiosa (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, COGNOME, Rv. 275586-02).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Palermo ha confermato la sussistenza della circostanza aggravante in questione sulla base, essenzialmente, dei seguenti elementi: a) «l’esame della posizione di NOME con riferimento agli interessi della “RAGIONE_SOCIALE” presso i bar Martin, Woodhouse e Fiocca»; b) il contenuto dell’intercettata conversazione del 10/11/2017 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME (progr. 620); c) «a circostanza che soggetti mafiosi o strettamente legati ad ambienti mafiosi grazie all’aiuto del NOME e sotto l’egida dello stesso abbiano avviato agenzie di scommesse, con i connessi cospicui impegni economici, costituisce la rappresentazione più immediata dell’investimento in attività lecite svolto da Cosa Nostra nel variegato contesto territoriale nel quale il NOME era attivamente operativo. Così è avvenuto ad esempio per Dell’Aquila ma anche e come si è visto per il legame intercorrente tra NOME e NOME, che altro non era che la longa manus dello stesso NOME nella attività prestata per conto della “RAGIONE_SOCIALE».
Tale motivazione, anche alla luce dei ricordati principi di diritto che sono stat affermati dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, appare, tuttavia, manifestamente inadeguata.
A proposito di essa, si deve infatti rilevare che: a) quanto all’«esame della posizione di NOME con riferimento agli interessi della “RAGIONE_SOCIALE” presso i bar Martin, Woodhouse e Fiocca», la Corte d’appello di Palermo ha del tutto ha omesso di precisare quale fosse la rilevanza di tali «interessi» ai fini della ritenu sussistenza della circostanza aggravante in considerazione; b) quanto al contenuto dell’intercettata conversazione del 10/11/2017 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, dallo stesso risultava la sollecitazione, da parte del Messina al COGNOME, ad aprire un centro scommesse, senza che, tuttavia, fosse risultato che, a tale sollecitazione, avesse fatto poi seguito l’effettiva apertura, da parte d COGNOME, di un centro scommesse (finanziato con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti); c) sempre a proposito di RAGIONE_SOCIALE – logicamente ritenuta f capo al COGNOME -, la Corte d’appello di Palermo ha omesso di indicare se reputasse che tale società fosse stata finanziata, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodo o il profitto di delitti e, in caso affermativo, sulla base di quali elementi di p fosse pervenuta a reputare ciò; d) quanto all’apertura dell’agenzia di giochi e scommesse di NOME COGNOME, considerato che si tratterebbe dell’unico effettivamente accertato caso di apertura, da parte di altri associati, di consimil agenzie, la Corte d’appello di Palermo avrebbe dovuto valutare anche la dimensione dell’attività economica che sarebbe stata finanziata da “RAGIONE_SOCIALE” con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, al fine di verifi
reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose del sodalizio fosse stato limitato al suddetto singolo esercizio del Dell’Aquila o si dovesse ritenere essersi concretato in un intervento nel settore dei giochi e delle scommesse diretto a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrivano stesso servizio.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con riguardo alla circostanza aggravante di cui al sesto comma dell’art. 416-bis cod. pen., con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Palermo per un nuovo giudizio sul punto della stessa circostanza aggravante, il quale dovrà essere compiuto alla stregua dei ricordati principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione e, quin verificando se gli elementi probatori consentano (o no) di affermare che l’associazione alla quale il Luppino è stato accertato appartenere aveva effettivamente finanziato, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, l’ economica dei giochi e delle scommesse e che il reinvestimento di tali prezzo, prodotto o profitto di delitti si era concretato in un intervento diretto a preval rispetto alle altre strutture del settore che operavano nel territorio insediamento.
L’ottavo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Palermo ha dato ampiamente e adeguatamente conto di come, dal contenuto delle intercettate conversazioni tra il COGNOME e NOME COGNOME e tra il COGNOME e NOME COGNOME (nella quale ultima interveniva anche NOME dell’Aquila), risultasse pacificamente come: a) il COGNOME si fosse rivolto a NOME COGNOME (come si è detto, capo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara) perché si attivasse per recuperare il credito di € 140.000,00 che l’amico dello stesso NOME NOME Moltisanti vantava nei confronti dell’imprenditore palermitano NOME COGNOME: b) l’COGNOME avesse aderito a tale richiesta del COGNOME; c) l’azione per il recupero del credito fosse stata effettivamente materialmente attuata da NOME COGNOME.
Ciò posto, con il motivo di ricorso si contesta tra l’altro che, come è stato ritenuto dalla Corte d’appello di Palermo, tale azione di recupero del credito si possa reputare essere stata compiuta con metodo mafioso e al fine di agevolare l’associazione mafiosa “Cosa Nostra”.
8.1. Con riguardo al primo aspetto, si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza aggravante dell’utilizzo del cosiddetto metodo mafioso, attualmente prevista dall’art. 416.bis.1, comma 1, cod. pen., ha la funzione di reprimere il “metodo delinquenziale mafioso” ed è connessa non alla struttura e alla natura del delitto rispetto al quale la circostanz è contestata, quanto, piuttosto, alle modalità della condotta che evochino la forza
intimidatrice tipica dell’agire mafioso (Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018, COGNOME, Rv. 273190-01).
Pertanto, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, è necessario l’effettivo ricorso, nell’occasione delittuosa contestata, al “metodo mafioso”, i quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo a esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata (e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente) (Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, COGNOME, Rv. 264900-01; Sez. 6, n. 28017 del 26/05/2011, COGNOME, Rv. 250541-01; Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, COGNOME, Rv. 236628-01). Cioè quella coartazione ben più penetrante energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti (Sez. 2, n. 2204 del 31/03/1998, Parreca, Rv. 21117801).
Peraltro, l’aggravante è ritenuta configurabile anche in presenza dell’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente”, cioè privo di un’esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specific comportamenti di violenza o minaccia (Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019, COGNOME, Rv. 277182-01; Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018, COGNOME, Rv. 272884-01; Sez. 2, n. 20187 del 03/02/2015, Gallo, Rv. 263570-01; Sez. 5, n. 38964 del 21/06/2013, Nobis, Rv. 257760-01).
L’aggravante de quo è configurabile nel caso di condotte che presentano un nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa, in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine (non essendo pertanto integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dalla mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti di tale organizzazione) (Sez. 1, n. 26399 del 28/02/2018, COGNOME, Rv. 273365-01).
La giurisprudenza di legittimità ha altresì statuito che la circostanza aggravante del cosiddetto “metodo mafioso”: è configurabile anche a carico di un soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto (Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, De Paola, Rv. 257065-01; Sez. 1, n. 4898 del 26/11/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 243346-01); non necessita che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del
vincolo associativo (Sez. 2, n. 27548 del 17/05/2019, COGNOME, Rv. 276109 Sez. 2, n. 16053 del 25/03/2015, COGNOME, Rv. 263525-01).
Richiamati tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, si deve r che la Corte d’appello di Palermo ha confermato la sussistenza, nella spe dell’aggravante del metodo mafioso sulla considerazione che le richieste al Pi pagare il suo debito erano state rivolte alla persona offesa da un soggetto ma (il COGNOME), che, in quel contesto mafioso, la persona offesa «Abbusca botta» e che il COGNOME si era rapportato al COGNOME «con il sangue agli occh 76 della sentenza impugnata).
Tale motivazione del fatto che la minaccia era stata realizzata in modo tal richiamare alla mente del COGNOME la forza intimidatrice mafiosa di “Cosa No appare, oltre che rispettosa dei principi affermati dalla Corte di cassazione sono sopra ricordati, coerente e priva di illogicità, sicché essa si sottrae in questa sede di legittimità.
8.2. Con riguardo al secondo aspetto, si deve rammentare che, secondo giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza aggravante cosidd dell’agevolazione mafiosa ha natura soggettiva e richiede la sussistenza del specifico di agevolare l’organizzazione criminale di riferimento, finalità c presuppone necessariamente l’intento del consolidamento o rafforzamento de sodalizio criminoso, essendo sufficiente l’agevolazione di qualsiasi attività e dell’associazione, anche se non coinvolgente la conservazione e il perseguime delle finalità ultime tipizzate dall’art. 416-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 17/10/2018, COGNOME, Rv. 274615-01; Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017, dep 2018, COGNOME, Rv. 273538-01).
Richiamato tale principio, affermato dalla Corte di cassazione, si deve ril che la Corte d’appello di Palermo ha confermato la sussistenza, nella spe dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa sulle considerazioni che dagli processuali era emerso: a) da un lato, che una parte (C 40.000,00) della so corrispondente al debito del Pitti sarebbe stata trattenuta dal sodalizio («Di centuquaranta quaranta ve li pigghiati viaultri»; pag. 69 della sen impugnata); b) dall’altro lato, che l’intervento di recupero del credito del stato finalizzato anche a mantenere saldo il controllo del gruppo malavitoso territorio, garantendo ai soggetti protetti dallo stesso gruppo una soddisfazione delle proprie pretese economiche (in particolare, facendo “b figura» con il COGNOME e anche lasciando “odore”, cioè traccia, pres interlocutori palermitani, della propria capacità di trattare e di fare co condizioni vantaggiose a tutti i soggetti coinvolti; pag. 79 della se impugnata).
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Tale motivazione del fatto che il recupero del credito del COGNOME era stato effettuato, oltre che con metodo mafioso, anche al fine di agevolare l’attività di “Cosa Nostra”, appare, oltre che rispettosa del principio affermato dalla Corte di cassazione che si è sopra ricordato, coerente e priva di illogicità, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità.
8.3. Ciò posto, si deve rammentare che, come è stato definitivamente chiarito dalla già citata sentenza Filardo delle Sezioni unite della Corte di cassazione, il discrimine tra le fattispecie di cui agli artt. 393 e 629 cod. pen. è costitu dall’elemento psicologico in quanto, nel primo reato, l’agente ha lo scopo di conseguire un profitto nella convinzione non meramente astratta e arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria, mentre, nel secondo, l’agente è consapevole che il profitto perseguito è, anche solo in parte, ingiusto (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027-02).
Al fine di individuare la qualificazione giuridica da attribuire ai fatti, perta è indispensabile accertare l’elemento psicologico dell’autore della condotta.
Nel caso di concorso di persone nel reato, l’accertamento circa il fine perseguito deve essere esteso a tutti i concorrenti.
Nell’ipotesi in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela d un diritto altrui, infatti, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle ragioni in luogo di quello di estorsione occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo ed esclusivo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effett titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile, ad esempio, nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé o di qualunque altra utilità, anche di natura non patrimoniale.
Così, per accertare quale dei due reati sia configurabile, risulta determinante verificare se i terzi eventualmente concorrenti del preteso creditore abbiano, o no, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio, atteso che, qualora ciò sia accaduto, i terzi (e il creditore) risponderanno di concorso in estorsione, laddove, invece, se tutti i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astra giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027-03).
Nelle specifiche situazioni nelle quali la condotta sia compiuta in un contesto caratterizzato dall’inserimento in ambito mafioso e ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., inoltre, si deve fare riferimento quale delle due ipotesi previste da tale norma sia in concreto contestata.
Il cosiddetto metodo mafioso, infatti, riferendosi alle modalità dell’azione, non è in astratto incompatibile con il reato di cui all’art. 393 cod. peri., comportando il raggiungimento di una finalità ulteriore rispetto alla riscossione del credito, pur se è possibile valorizzare tale aggravante, in uno ad altri elementi, quale dato sintomatico del dolo di estorsione (Sez. 2, n. 2331 del 17/11/2023, dep. 2024, Bianco, Rv. 285717-01).
La cosiddetta agevolazione mafiosa, nella quale la condotta è finalizzata alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé eventualmente di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta invece la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 cod. pen., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi (Sez. 2, n. 9526 del 17/12/2021, dep. 2022, Biancoviso, non massimata; Sez. 2, n. 5622 del 12/11/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282594-01).
Ritenendo che i fatti di cui al capo 2) dell’imputazione integrassero il delitto di tentata estorsione, la Corte d’appello di Palermo ha fatto corretta applicazione di tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, avendo esattamente reputato che l’accertata ulteriore finalità di agevolare l’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, interessata sia a ottenere parte delle somme di spettanza del creditore COGNOME sia a mantenere il controllo del territorio operando come affidabile intermediario nel recupero dei crediti, fosse significativa della sussistenza di un interesse diverso rispetto al semplice recupero del credito e dell’esistenza, perciò, degli estremi dell’estorsione, a nulla rilevando che il credito del Moltisanti fosse effettivament esistente e che al debitore non fosse stata richiesta una somma superiore all’ammontare dello stesso credito.
9. Il nono motivo non è consentito.
9.1. Si deve anzitutto chiarire che il delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui all’art. 512-bis cod. pen. non ha natura di reato plurisoggettivo improprio, ma rappresenta una fattispecie a forma libera che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o altro bene o ut sicché colui che si renda fittiziamente titolare di tali beni con lo scopo di aggira le norme in materia di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, o di agevolare la commissione deì reati di ricettazione, riciclaggio o impiego di beni di provenienza illecita, risponde a titolo di concorso nella stessa figura criminosa posta in essere da chi ha operato la fittizia attribuzione, in quanto con la sua condotta cosciente e volontaria contribuisce alla lesione dell’interesse protetto dalla norma (Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, COGNOME, Rv. 277075-01; Sez. 2, n, 2243 del 11/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259822-01),
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Da tanto discende, come è stato chiarito dalla Corte di cassazione, che l’accertamento di responsabilità dell’interposto risponde alle ordinarie regole probatorie in punto di condotta materiale e dì dolo e che un’eventuale pronunzia assolutoria non è destinata di necessità ad innescare ricadute sulla posizione dell’interponente (Sez. 2, n. 39774 del 07/05/2022, COGNOME, Rv. 283989-03).
Pertanto, il fatto che i ritenuti interposti COGNOME e COGNOME possano essere stati assolti dai reati di cui, rispettivamente, al capo 8) e al capo 1 dell’imputazione, dei quali erano stati chiamati a rispondere, in concorso con il COGNOME, in separati giudizi, diversamente da quanto lo stesso COGNOME mostra dì ritenere, non produce necessariamente effetti sulla posizione di tale imputato del presente processo.
Si deve altresì affermare che l’interpretazione del contenuto di conversazioni intercettate che possa essere stata data in altri provvedimenti giurisdizionali non poteva evidentemente vincolare la Corte d’appello di Palermo nell’esercizio del proprio autonomo potere di interpretare lo stesso contenuto.
9.2. Si deve poi ribadire che delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. può essere commesso anche da chi non sia ancora sottoposto a misure di prevenzione patrimoniali e ancora prima che il relativo procedimento sia iniziato, occorrendo solo, ai fini della configurabilità del dolo specifico di eludere le disposizioni di leg in materia di prevenzione patrimoniale, che l’interessato possa fondatamente presumere l’avvio di detto procedimento (Sez. 5, n. 1886 del 07/12/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282645-01).
Il delitto di trasferimento fraudolento di valori è un reato di pericolo astratt essendo sufficiente, per la sua integrazione, che l’agente, sottoposto o sottoponibile a una misura di prevenzione, compia un qualsiasi negozio giuridico al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali, sicché la valutazione attinente al pericolo di elusione della misura deve essere compiuta ex ante, su base parziale, ovvero alla stregua delle circostanze che, al momento della condotta, erano conosciute o conoscibili da un uomo medio in quella determinata situazione spazio-temporale (Sez. 2, n. 7317 del 18/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284386-01; Sez. 2, n. 12871 del 09/03/2016, Mandatari, Rv. 266661-01)
9.3. Passando a esaminare ciascuna delle quattro fattispecie di reato, cominciando da quella di cui al capo 6) dell’imputazione, la Corte d’appello di Palermo ha argomentato (pagine da 99 a 104 della sentenza impugnata) che, dal contenuto delle intercettate (e testualmente riportate) conversazioni del Luppino sia con NOME COGNOME sia con NOME COGNOME (reggente del mandamento mafioso di Mazara del Vallo), si doveva ritenere essere emersa sia la fittizia attribuzione (a NOME COGNOME e a NOME COGNOME NOMECOGNOME, da parte del Luppino – il quale, in una fase
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della propria vita imprenditoriale connotata da un crescente allarme per eventuali indagini anche di natura patrimoniale, vi aveva investito «circa quarantamila euro» (pag. 103 della sentenza impugnata) – dell’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, sia la destinazione al profitto di tale operazione, in contrasto con l’assetto associativo della stessa “RAGIONE_SOCIALE Salah”, sia, infine, che parte degli “utili” (costitu essenzialmente, da erogazioni pubbliche) attesi dalla società di fatto che era stata costituita attorno all’attività di “COGNOME” avrebbero dovuto andare a benefico di NOME COGNOME (ancorché egli fosse del tutto estraneo al patto societario), cui i NOME, non essendo stati ottenuti gli stessi “utili”, aveva versato alcune “mensilità” da C 500,00.
Nel motivo di ricorso, il ricorrente non si confronta in realtà compiutamente con tali argomentazioni, le quali, in un modo che appare del tutto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste, hanno dato conto dell’attribuzione fittizi delle risorse che erano state investite dall’interponente NOME in “NOME COGNOME“.
Le stesse argomentazioni risultano altresì idonee a confermare la sussistenza della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, avendo la Corte d’appello di Palermo con esse adeguatamente evidenziato come il reato di cui all’art. 512bis cod. pen. fosse stato commesso dal Luppino anche al fine di agevolare l’attività di “Cosa Nostra”, erogando parte degli “utili” dell’associazione “NOME COGNOME” al capo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara (NOME COGNOME), con il già evidenziato intento di ottenere la “protezione” della stessa famiglia (nel senso della sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa quando l’erogazione continuativa di denaro a una consorteria di tipo mafioso da parte di un imprenditore sia finalizzata a ottenerne la “protezione”: Sez. 3, n. 23335 del 28/01/2021, COGNOME, Rv. 281589-02).
9.4. Quanto alla fattispecie di cui al capo 7) dell’imputazione, la Corte d’appello di Palermo ha argomentato (pagine da 111 a 116 della sentenza impugnata) che, alla luce sia del contenuto dell’intercettata (e testualmente riportata) conversazione del Luppino con NOME COGNOME (dipendente dell’unità locale di Marsala di “RAGIONE_SOCIALE, da cui risultava come, nonostante la cessione della quota di “RAGIONE_SOCIALE da parte del Luppino, l’COGNOME continuasse a chiedere direttive all’imputato e gli facesse una sorta di rapporto periodico dell’attività della società (oltre al carattere fittizio della carica di fo amministratrice della stessa società in capo a NOME COGNOME), sia dei dati che erano stati rinvenuti sulla casella di posta elettronica e sul telefono cellulare (sms) del NOME, da cui risultava come il principale interlocutore della consulente del lavoro NOME COGNOME con riguardo alle posizioni lavorative in “RAGIONE_SOCIALE fosse sempre lo stesso NOME, sia, infine, del contenuto dell’intercettat conversazione con NOME COGNOME da cui risultava la richiesta di questi al
NOME di risolvere un problema lavorativo della moglie del COGNOME, dipendente di RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, si doveva ritenere essere emersa la fittizietà della cessione della quota di “RAGIONE_SOCIALE da parte del NOME, il quale, infatti, come risultava dagli indicati elementi di prova, aveva continuato, a distanza di anni da tale cessione, a essere l’effettivo dominus della società e a finanziare la stessa.
Tale argomentazione della fittizietà della cessione della quota di “RAGIONE_SOCIALE appare del tutto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste e, a fronte di ciò, il ricorrente, con il motivo di ricorso, lungi dall’evidenziare dei della stessa argomentazione che si possano ritenere rilevanti ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., si limita, sostanzialmente, a prospettare una diversa interpretazione del contenuto delle menzionate intercettazioni e dei menzionati documenti, il che non è possibile fare in sede di legittimità.
9.5. Quanto alla fattispecie di cui al capo 8) dell’imputazione, la Corte d’appello di Palermo ha argomentato (pagine da 104 a 107 della sentenza impugnata) che, dal contenuto delle intercettate (e testualmente riportate) conversazioni del NOME sia con NOME COGNOME (conversazione del 12/06/2017), da cui risultava come, proprio nel momento in cui passavano davanti al “Roialto Lounge bar” (come risultava dal rilevatore GPS che era stato installato sull’automobile in uso all’imputato), il NOME avesse detto allo Scaturchio «questo bar mio è», sia con NOME COGNOME (conversazione del 17/11/2017), da cui risultava come, parlando del “RAGIONE_SOCIALE bar”, e riferendosi al COGNOME, il COGNOME avesse affermato «da quattro anni che lavori con il mio bar! Con il mio bar!», si doveva ritenere essere emerso che il COGNOME, circa 4 anni prima di quest’ultima conversazione e, quindi, prima dell’iscrizione dell’impresa nel registro dele imprese (che era del 15/09/2014), il COGNOME avesse finanziato con risorse proprie l’avvio dell’attività imprenditoriale.
Tale argomentazione della fittizietà dell’attribuzione a NOME COGNOME della titolarità del “RAGIONE_SOCIALE” appare del tutto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste e, a fronte di ciò, il ricorrente, con il motivo di ricorso, dall’evidenziare dei vizi della stessa argomentazione che si possano ritenere rilevanti ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., si limita, sostanzialmente, prospettare una diversa interpretazione del contenuto delle menzionate intercettazioni (la diversa interpretazione delle quali da parte di altri giudici, com si è detto, non vincolava la Corte d’appello di Palermo) e una diversa valutazione della loro valenza probatoria, il che non è possibile fare in sede di legittimità.
Del tutto correttamente la Corte d’appello di Palermo ha negato che l’integrazione del reato di trasferimento fraudolento di valori potesse essere esclusa in ragione della mancanza di prova dell’ingerenza del Luppino nella
gestione dell’impresa (come pure, si deve dire, di prova della percezione, da dell’imputato, dei relativi utili), in considerazione della natura di reato i a effetti permanenti della fattispecie di cui all’art. 512-bis cod. pen. ( 25608 del 22/04/2022, Monfreda, Rv. 283629-01), la quale si consuma, perciò, con il trasferimento della titolarità delle risorse destinate alla cos dell’impresa.
9.6. Quanto alla fattispecie di cui al capo 10) dell’imputazione, la d’appello di Palermo ha argomentato (pagine da 107 a 111 della sentenz impugnata) che, dal contenuto delle intercettate (e testualmente ripor conversazioni del Luppino sia con NOME COGNOME (titolare dell’impre individuale di noleggio auto con conducente “COGNOME NOME“), dalle quali e risultato come il COGNOME fosse l’effettivo dominus, dal punto di vista sia economico sia gestionale, dell’impresa individuale “COGNOME Antonino”, sia con NOME COGNOME (collaboratore del COGNOME), da cui risultava come, transitando in per le vie di Mazara del Vallo, il COGNOME avesse detto al COGNOME di posse una società di trasporti («ho pure una società di trasporti»») sita nell Mazara del Vallo, cioè nella città dove aveva sede l’impresa individuale “COGNOME NOME“, si doveva ritenere essere emerso che il COGNOME avesse fittiziame attribuito al COGNOME la titolarità della suddetta impresa individuale.
Tale argomentazione della fittizietà dell’attribuzione di tale impre COGNOME appare del tutto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste fronte di ciò, il ricorrente, con il motivo di ricorso, lungi dall’evidenziar della stessa argomentazione che si possano ritenere rilevanti ai sensi dell’a cod. proc. pen., si limita, sostanzialmente, a prospettare una di interpretazione del contenuto delle menzionate intercettazioni e una div valutazione della loro valenza probatoria, il che non è possibile fare in s legittimità.
9.7. Posta la fittizia attribuzione – che, come si è detto, si deve ritener stata adeguatamente motivata dalla Corte d’appello di Palermo – da parte NOME, della titolarità dell’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, di “RAGIONE_SOCIALE” e dell’impresa individuale “COGNOME Antonino” ai rispetti indicati soggetti interposti, la stessa Corte d’appello si deve ritene motivato in modo non contraddittorio né manifestamente illogico anche in ordin al fine dello stesso NOME di eludere, non facendo apparire la propria tit delle suddette associazione e imprese, le disposizioni di legge in materia di m di prevenzione patrimoniali.
La Corte d’appello di Palermo ha in proposito valorizzato il fatto che, base dell’esame del contenuto delle conversazioni intercettate, si doveva rit che il NOME avesse frequentato esponenti di spicco di “Cosa Nostra” (com
NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME già dalla fase iniziale della propria attività imprenditoriale (come era stato anche dichiarato dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME nel suo interrogatorio del 16/12/2013), essendo pienamente consapevole del livello criminale dei suddetti suoi interlocutori, e come tali “pericolose” frequentazioni avessero condotto l’imputato, il quale ben conosceva le vicende del territorio nel quale operava, a preoccuparsi per un suo possibile coinvolgimento in indagini che avrebbero potuto portare ad aggredire le sue disponibilità patrimoniali, tanto che il COGNOME aveva deciso di fare effettuare delle opere di “bonifica” per evitare che, nella sede principale dei propri affari, s trovassero occultati dispositivi di captazione delle conversazioni (come risultava dall’intercettata conversazione del 25/10/2017), e aveva manifestato a NOME COGNOME di stare vendendo i propri cespiti anche in quanto indagato (come risultava dall’intercettata conversazione della conversazione con l’Allegra del 16/11/2017).
Tale motivazione appare, come si è anticipato, esente da contraddizioni e da illogicità manifeste, mentre le doglianze che sono state avanzate al riguardo dal ricorrente appaiono sostanzialmente prospettare, piuttosto che un vizio rilevante ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., una diversa valutazione del significato probatorio delle suddette menzionate prove e una diversa conclusione in ordine alla loro valenza probatoria, il che non è possibile fare in sede di legittimità.
Né il fatto che l’imputato fosse titolare di ulteriori imprese, anche in forma societaria, si può ritenere di per sé comprovare, a fronte degli indicati elementi di prova, la mancanza dell’elemento soggettivo del reato con riguardo alla fittizia attribuzione della titolarità delle utilità indicate nei capi 6), 7), 8) dell’imputazione.
10. Il decimo motivo è fondato.
Alle pagine da 86 a 93 del proprio atto di appello (settimo motivo di appello), il Luppino aveva contestato, con delle specifiche argomentazioni: a) sia la determinazione della misura della pena base per il più grave reato di partecipazione all’associazione mafiosa “Cosa Nostra” di cui al capo 1) dell’imputazione; b) sia la determinazione della misura degli aumenti di pena per i meno gravi reati di tentata estorsione pluriaggravata di cui al capo 2) dell’imputazione e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 6), 7), 8) 10) dell’imputazione (quello di cui al capo “6” aggravato); c) sia, infine, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (delle quali era stato chiesto che fossero considerate prevalenti rispetto alle ritenute circostanze aggravanti).
Dalla lettura della sentenza impugnata risulta come la Corte d’appello di Palermo abbia del tutto omesso di motivare in ordine a tali doglianze, con le conseguenze che il motivo è fondato e che la stessa sentenza deve essere
annullata anche in relazione al trattamento sanzionatorio, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata in relazione all’aggravante di cui all’art. 416- sesto comma, cod. pen. e al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo
bis, giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo. Dichiara
inammissibile il ricorso nel resto. Spese delle parti civili nel prosieguo.
Così deciso il 03/04/2024.