Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30117 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30117 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME NOMECOGNOME nata il 31/12/1982 a Napoli COGNOME NOME, nato il 03/05/1995 a Napoli COGNOME NOMECOGNOME nato il 21/09/1974 a Napoli Sanges SaIntore, nato l’08/09/1989 a Napoli COGNOME NOMECOGNOME nato il 03/07/1979 a Melito di Napoli COGNOME NOME nato il 22/02/1986 a Napoli
avverso la sentenza in data 14/06/2024 della Corte di appello di Napoli visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’annullamento con rinvio in relazione all’aggravante, nei confronti di NOME COGNOME e per l’inammissibilità di tutti g altri ricorsi;
uditi i difensori, Avv. NOME COGNOME e Avv. NOME COGNOME per COGNOME, Avv. COGNOME anche in sost. dell’Avv. COGNOME per COGNOME, Avv. NOME COGNOME
Accorretti anche in sost. dell’Avv. COGNOME per COGNOME NOME e per COGNOME che hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 14 giugno 2024 la Corte di appello di Napoli ha giudicato sugli appelli proposti avverso la sentenza pronunciata dal G.u.p. del Tribunale di Napoli in data 27 marzo 2023, con cui in sede di rito abbreviato NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME erano stati riconosciuti colpevoli del reato d partecipazione a consorteria armata di camorra, con posizione apicale per COGNOME, COGNOME e COGNOME (capo A), COGNOME, COGNOME, COGNOME, NOME, Attrice, nonché NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME erano stati riconosciuti colpevoli di partecipazione ad associazione armata dedita al narcotraffico, volta ad agevolare il clan camorristico, con posizione apicale per COGNOME, COGNOME e COGNOME (capo B), NOME COGNOME era stato riconosciuto colpevole del delitto di detenzione illegale e cessione di eroina, aggravatc ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. (capo C), i citati COGNOME, COGNOME, COGNOME COGNOME e NOME COGNOME erano stati riconosciuti colpevoli del delitto continuato di detenzione e preparazione di quantitativi di eroina, cocaina e hashish, aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. (capo D).
La Corte di appello ha accolto il concordato sulla pena proposto da COGNOME NOMECOGNOME COGNOME e COGNOME, ha rideterminato la pena nei confronti di COGNOME e nei confronti di COGNOME previa esclusione, quanto a quest’ultimo, della recidiva, -ha sostituito la pena accessoria dell’interdizione perpetua con l’interdiz;one temporanea dai pubblici uffici nei confronti di NOME COGNOME, ha confermato la sentenza di primo grado nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, ritenendo che dovesse ritenersi suffragata, alla luce delle risultanze probatorie, costituite da dichiarazioni di collaboratori di giustizi da conversazioni intercettate e da esiti di indagini di polizia giudiziaria, l’ipot accusatoria incentrata sull’operatività di un clan camorristico, originariamente federato con altri gruppi e poi operante autonomamente nel quartiere di Scampia nel comparto delle INDIRIZZO, e di un’associazione volta all’approvvigionamento e cessione di sostanze stupefacenti, facente capo al clan, in cui la posizione apicale era ricoperta dal latitante NOME COGNOME poi tratto in arresto nel 2016, e dalla moglie di lui NOME COGNOME e nel quale NOME COGNOME svolgeva i compiti di luogotenente del boss.
Ha proposto due ricorsi NOME COGNOME tramite i suoi difensori.
•
2.1. Con l’atto a firma dell’Avv. COGNOME nel primo motivo sono dedotti violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 416-bis cod. pen. e alla valorizzazione di confuso materiale captativo, in assenza di riscontri e di attività di indagine.
Si contesta la mancanza di vaglio critico della tesi difensiva e la sussumibilità del compendio probatorio nel paradigma normativo di cui alla contestazione.
Gli elementi raccolti, ove valorizzabili ai fini del giudizio di partecipazion all’associazione dedita al narcotraffico di cui al capo B), sono stati ritenuti idonei suffragare la partecipazione in posizione apicale alla consorteria camorristica, quali dati sintomatici della contiguità al clan, pur in assenza di evenienze fattuali tali d connotare la condotta di adesione al diverso consesso criminoso.
Nessuno dei 14 collaboratori, le cui dichiarazioni erano state valorizzate al fine di comprovare l’esistenza del clan, aveva fornito elementi a carico della ricorrente, come soggetto interessato dalle attività illecite del marito e dalle relativ associazioni criminose.
Tale dato era stato indebitamente svalutato in relazione al momento storico delle propalazioni.
Neppure NOME COGNOME la cui collaborazione era iniziata nel 2019, pur tratteggiando l’operatività del clan COGNOME e di quelli coinvolti nell’operativi illecita riguardante la zona nord di Napoli, e pur parlando del clan COGNOME, aveva fatto riferimento alla ricorrente.
Si richiamano gli orientamenti giurisprudenziali in merito alla configurabilità di un’associazione di stampo mafioso incentrati sulla connotazione del metodo e sull’estrinsecazione della capacità intimidatoria e si rileva che agli atti manca l prova dell’esistenza di un apporto apprezzabile della ricorrente e di condotte corrispondenti ai criteri legali previsti dalla norma.
La lettera di COGNOME, valorizzata dalla Corte, conteneva direttive in ordine ad incombenze ricollegabili all’operatività di un’associazione dedita al narcotraffico, in essa parlandosi di pezzi e di sistema di piazza.
Né, ai fini del controllo del territorio, avrebbe potuto farsi riferimento a vicenda relativa all’alloggio popolare nella disponibilità di NOME COGNOME, erroneamente interpretata alla luce delle conversazioni intercettate.
Non sussistevano indici certi e inequivocì della partecipazione attiva e consapevole della ricorrente alla consorteria mafiosa.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’ipotesi associativa di cui all’art. 74 d.P.R. 309 del 1990.
La Corte aveva proceduto ad un’illogica valutazione del compendio riveniente dalle conversazioni intercettate, travisandone il contenuto e giungendo a conclusioni in termini di certezza, non consentite dal materiale utilizzato.
Il giudizio di merito era frutto della violazione di canoni ermeneutici in tema di partecipazione ad un’associazione ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990, a fronte di una base probatoria effimera, inidonea a comprovare un contributo fattuale continuativo, tale da conservare o accrescere la capacità e la vita · dell’ente, assistito dalla consapevolezza dell’appartenenza e dalla volontà di fornire un contributo.
Si contesta il significato attribuito alla conversazione con COGNOME del 25/5/2015, nella cui parte finale si fa riferimento a tale NOME e non alla ricorrente.
Si contesta altresì l’interpretazione della conversazione n. 1017, priva di concreto significato e invece ritenuta prova regina della partecipazione alle operazioni del settore degli stupefacenti, essendosi dato per scontato che COGNOME, in macchina con la ricorrente, avesse ricevuto una telefonata da un fornitore di droga e che la ricorrente avesse ordinato a COGNOME di rassicurare l’interlocutore circa il rispetto dell’appuntamento, quando unico dato certo era il successivo riferimento ad una truffa assicurativa.
2.3. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e apparenza di motivazione circa l’applicazione dell’art. 416-bis, comma 2, cod. pen. e dell’art. 74, comma 1, d.P.R. 309 del 1990.
Il ruolo apicale era stato attribuito alla ricorrente sulla base di una viziat lettura del dato captativo.
Le espressioni della ricorrente, correlate alle dichiarazioni confessorie di NOME COGNOME, rese nell’ambito del processo relativo all’omicidio NOMECOGNOME, che vedeva imputato anche NOME COGNOME, non inneggiavano a logiche camorristiche, ma esprimevano la paura di divenire dopo il pentimento dello zio e, successivamente, alla luce degli intenti confessori del marito, bersaglio di vendette trasversali, senza che potessero intendersi come sintomatiche di adesione e compartecipazione.
La Corte aveva finito per dare rilievo al legame con il reale promotore dell’associazione, cioè COGNOME senza una doverosa verifica dell’esercizio effettivo del ruolo di vertice, non emergente dalla conversazione n. 771 del 1/7/2015 e non desumibile dalla conversazione con COGNOME in cui la ricorrente si lamentava della pochezza della retribuzione economica corrispostale, nella convinzione di aver diritto di essere aiutata nelle spese quotidiane, quale moglie di un affiliato, quando ad un capo non avrebbe potuto corrispondersi uno stipendio.
2.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’aggravante dell’associazione armata, oggetto di contestazione nel capo A) e nel capo B).
Gli episodi narrati non sfioravano la ricorrente, non essendosi dato conto della consapevolezza da parte di lei circa la disponibilità di armi.
2.5. Con il quinto motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen.
La Corte non aveva dato conto del percorso alla base del diniego delle attenuanti generiche e del trattamento sanzionatorio, in relazione alle circostanze di fatto e alla personalità dell’agente, a fronte delle censure difensive e del memoriale con cui la ricorrente aveva inteso chiarire la propria condotta.
2.6. Nel primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta integrazione del reato associativo di cui al capo A).
Erroneo era il percorso che aveva condotto i giudici di merito a ravvisare l’ipotesi associativa di cui al capo A), riconducibile al clan COGNOME.
Secondo la contestazione si trattava di struttura già inserita in un cartello criminale e poi costituitasi in federazione con altri clan, fino a rendersi autonoma dopo il 2013: era stata dai giudici valorizzata la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Napoli del 27 novembre 2019, che aveva accertato la responsabilità penale, fra l’altro, di COGNOME NOME per la partecipazione al clan COGNOME, a fronte di contestazione che ricalcava quella formulata in questa sede.
Ma, a fronte delle censure difensive, non si era tenuto conto che il riferimento all’esistenza di diversi cartelli camorristici non avrebbe potuto costituire la base per superare il dato formale della contestazione della contestuale sussistenza di più federazioni/cartelli camorristici e della singola compagine associativa, quale autonomo fenomeno criminoso.
Secondo le logiche della fusione-scissione con nascita di nuova alleanza permanente, era incompatibile l’unitarietà dei cartelli, cui aveva partecipato il clan COGNOME e l’alterità soggettiva del singolo clan.
Il fenomeno associativo unitario riconosciuto fino al 2013 avrebbe comportato la perdita di autonomia del pregresso gruppo criminale, incapace di esprimere una propria forza di intimidazione.
Non avrebbe dunque potuto valorizzarsi la separata sentenza per dare riscontro alla capacità offensiva del clan COGNOME dal 2011 al 2013.
Lo sviluppo argomentativo dei giudici di merito era erroneo, in quanto la holding criminosa di cui al capo A) non si era avvalsa di una propria forza di intimidazione, se non quella ereditata dai consorzi/federazioni di cui il clan COGNOME aveva fatto parte.
La Corte di appello aveva fornito una motivazione inidonea a superare le censure di tipo ontologico e comunque illogica, essendosi dato rilievo al fatto che il clan Marino, nonostante l’unione o separazione con altre compagini associative,
avesse continuato a mantenere nel tempo la propria struttura associativa allorquando era proprio questo il dato da superare.
Era stato comunque segnalato come in ordine alla possibilità di ritenere sussistente il clan COGNOME dal novembre 2013 erano stati valorizzati elementi probatoriamente irrilevanti, essendosi finito per accreditare la natura mafiosa di un consorzio incardinato in un territorio a storicità mafiosa.
Quanto al tema della gestione degli alloggi di edilizia popolare, era stato sottolineato come non potesse valorizzarsi l’episodio concernente la casa nella disponibilità di NOME COGNOME, in quanto si poneva in antinomia la ravvisabilità di un potere egemonico in danno della moglie del boss NOME COGNOME, trattandosi semmai di rivendicazione personale di NOME COGNOME, membro della consorteria dedita al narcotraffico.
La replica della Corte era fondata su un ragionamento illogico.
Altrettanto avrebbe dovuto dirsi per l’episodio dell’orologio di COGNOME, emergente da un colloquio tra la ricorrente e COGNOME, ritenuto idoneo ad attestare la posizione di sudditanza dei commercianti locali al clan, ma senza puntuale confronto con le deduzioni difensive, a fronte di un indebito riferimento al fatto del servirsi di un commerciante da parte di più soggetti, quando si trattava di comportamento di un solo presunto sodale, e dell’utilizzo da parte del commerciante, in riferimento a NOME COGNOME, del termine “amico”.
2.7. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla intraneità con ruolo di vertice attribuita alla ricorrente con riguar alle associazioni di cui ai capi A) e B).
Alla base della decisione vi era la sicurezza nell’attribuire alla ricorrente il ruol di portavoce del marito latitante, di trait d’union tra il clan e il marito, di capo che assumeva poteri decisionali in mancanza del coniuge, di soggetto che partecipava alle vicende giudiziarie del clan, quale membro effettivo e di vertice, ciò che aveva indotto a reputare inconsistenti le censure formulate e ad escludere la possibilità di una alternativa interpretazione delle conversazioni riportate nell’atto di appello, fermo restando che il giudizio si era fondato solo sul dato captativo, in tale prospettiva potendosi ravvisare un difetto di corrispondenza tra l’iter motivazionale e le effettive acquisizioni processuali.
Nel caso di specie la motivazione della sentenza impugnata non era tale da saldarsi con quella di primo grado, in quanto in essa vi era solo una risposta parziale e illogica alle deduzioni difensive, e inoltre, quanto alla valutazione d intercettazioni telefoniche e ambientali, l’interpretazione fornita dalla Corte era viziata da primigenia omessa motivazione e da un parziale o totale travisamento della prova.
Era stato peraltro dedotto in sede di impugnazione che la ricorrente non aveva partecipato a reati, ma era solo interessata al mantenimento mensile, che non aveva partecipato alle attività del clan, che aveva pronunciato frasi contro coloro che sceglievano la via della collaborazione corp la giustizia per timore che la sua famiglia potesse essere vittima di vendette trasversali, che non aveva mai fatto pervenire “imbasciate”, che aveva avuto un rapporto solo personale con il coimputato COGNOME per un titolo di credito che sussisteva con il predetto, incaricato di custodire soldi e preziosi personali di COGNOME.
Ciò posto, il motivo di ricorso ripercorre le conversazioni valorizzate in chiave accusatoria, segnalando con riguardo a ciascun tema come la Corte, nell’assecondare la valutazione del primo Giudice, avesse di volta in volta omesso di valutare le deduzioni difensive, volte a prospettare la corretta chiave di lettura dei dialoghi e avesse finito per travisarne il significato.
In particolare tali rilievi avrebbero dovuto valere in relazione ai dialoghi da cui erano stati desunti dai giudici di merito l’ingerenza circa le retribuzioni connesse alla piazza di spaccio, il potere disciplinare nei confronti degli affili l’interessamento per il sistema di vigilanza sul territorio, il coinvolgimento i forniture di droga piuttosto che in una truffa assicurativa, la conoscenza delle dinamiche interne del sodalizio e degli incontri degli associati con il marito latitante, le decisioni assunte e la pretesa posizione di comando, la condivisione di logiche e principi camorristici, l’avversione alla scelta di collaborare con la giustizi da parte di alcuni affiliati, la pretesa veste di ambasciatrice del marito che l ricorrente avrebbe assunto, a fronte di contatti tenuti da altri e per il tramite “pizzini”, l’invito che la ricorrente avrebbe rivolto ai consociati a mantenere controllo del territorio, la mediazione nella vicenda COGNOME–COGNOME, la pretesa deliberazione di epurazione di un affiliato, la valenza della condotta rispetto alla vicenda COGNOME, l’intendimento di intervenire per aver chiarimenti dal clan COGNOME a seguito dell’omicidio di NOME COGNOME.
Contrariamente a quanto prospettato dalla Corte, avrebbe dovuto ritenersi che la ricorrente era solo la moglie di COGNOME ed era interessata unicamente e unilateralmente a ricevere la “mesata” spettantele, senza che ella fornisse in cambio alcun contributo tale da rendere configurabile una sua messa a disposizione e dunque una sua attiva, biunivoca, partecipazione al clan e all’associazione dedita al narcotraffico.
2.8. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’attribuzione alla ricorrente di ruolo apicale nelle associazioni di c ai capi A) e B).
Richiamate le nozioni di promotore, capo e organizzatore e segnalata la necessità che il soggetto eserciti effettivamente funzioni apicali risolutive nella vit
7 GLYPH
del gruppo o di coordinamento dell’attività dei consociati, si rileva che la Corte di appello non aveva evidenziato come la ricorrente fosse da intendersi vertice del duplice sodalizio, al di là del fatto che ella ricevesse mensilmente il mantenimento quale moglie del boss con esclusione della partecipazione alla ripartizione degli utili.
Anche in questo caso si ripercorrono conversazioni intercettate, sottolineandosi la mancata valutazione delle relative deduzioni difensive e il travisamento delle risultanze in merito al preteso ruolo di alter ego del marito, a fronte di contatti tenuti da altri affiliati, al potere sanzionatorio, all’intervento questione degli stipendi, alla discussione con COGNOME NOME, al fatto di aver manifestato l’interesse ad ottenere esclusivamente il mantenimento quale compagna del boss, senza coinvolgimento nelle dinamiche sottese alle spiegazioni fornitele dall’interlocutore, alla mancanza di reazioni di fronte all’infedeltà di preteso accolito, al comportamento tenuto nella vicenda COGNOME, alla reazione rispetto a condotte confessorie inerenti alla vicenda dell’omicidio COGNOME/Salierno, alla questione dei rapporti con la COGNOME e alla vicenda COGNOME/COGNOME.
2.9. Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. contestata al capo B).
Si segnala che a fronte di contestazione della finalità agevolativa, la Corte aveva fatto indebitamente riferimento anche all’utilizzo del metodo mafioso, peraltro incompatibile con la configurabilità di un’associazione diversa da quella di cui all’art. 416-bis cod. pen., dovendosi ritenere superato un orientamento giurisprudenziale di segno diverso.
Sotto il versante dell’agevolazione dell’associazione camorristica, la motivazione della sentenza impugnata avrebbe dovuto reputarsi illogica e mancante di un effettivo confronto con le deduzioni formulate nell’atto di appello.
In particolare, era stato sottolineato che rispetto a soggetto partecipe ad associazione mafiosa l’aggravante non avrebbe potuto applicarsi in relazione alla partecipazione all’associazione dedita al narcotraffico, volta a realizzare il programma del sodalizio mafioso, con conseguente assorbimento del motivo a delinquere.
A fronte dei principi affermati, con riguardo alla natura dell’aggravante, dalla sentenza COGNOME delle Sezioni Unite, non si comprendeva comunque, nel caso di reati plurisoggettivi necessari, la ragione per cui ai singoli autori dovessero applicarsi regimi differenti in ordine alle circostanze di natura soggettiva, non potendosi ritenere bastevole, diversamente dai reati a concorso eventuale, la mera conoscenza dell’esistenza della finalità in capo ad altri partecipi dello stesso sodalizio e dovendosi invece ritenere necessaria la ricorrenza dell’aggravante e la
finalità che la connota in relazione a ciascun partecipe senza alcuna possibilità di una comunicazione intersoggettiva.
In concreto l’aggravante avrebbe dovuto essere esclusa sotto il profilo soggettivo, per l’unitarietà della scelta volitiva della ricorrente, ravvisando altrimenti una violazione del ne bis in idem.
2.10. Con il quinto motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’aggravante dell’associazione armata, come declinata ai capi A) e B).
La Corte aveva motivato sul punto senza confrontarsi con i rilievi difensivi con particolare riguardo al tema dell’imputazione soggettiva almeno in termini di ignoranza colposa.
2.11. Con il sesto motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
La Corte aveva arbitrariamente negato le attenuanti invocate, limitandosi a riproporre un ragionamento illogico, peraltro originato dal travisamento delle conversazioni intercettate, sulla cui base era stato desunto il ruolo e l’atteggiamento assunto dalla ricorrente, e dalla mancata valutazione delle deduzioni difensive, volte a segnalare la condotta processuale della predetta, che aveva voluto chiarire la portata della propria condotta e che già dopo l’arresto di COGNOME aveva preso le distanze da quel mondo criminoso.
Ha proposto ricorso con atti separati a firma dei suoi difensori NOME COGNOME
3.1. Nell’atto a firma dell’Avv. COGNOME con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. contestato al capo A).
La Corte di appello non aveva dato risposta ai motivi di appello, limitandosi a richiamare le conclusioni cui era pervenuto il primo giudice, senza valutare specificamente la situazione successiva al ritenuto inserimento del ricorrente e senza esaminare il tema della distinzione tra associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. e associazione dedita al narcotraffico e senza dar conto degli elementi che avrebbero consentito nel caso di specie di ravvisare l’utilizzo del metodo mafioso, al di là di quanto occorrente per il controllo di una piazza di spaccio.
La Corte aveva fatto riferimento allo spirito di devozione verso il boss, all’esercizio del potere assoluto e del potere sanzionatorio da parte del capo, alla presenza di un organigramma e di ruoli, desumendo tali elementi da una lettera inviata a COGNOME e dalle conversazioni intercettate.
Ma le conclusioni non erano condivisibili.
Non era ravvisabile lo spirito di devozione, considerando il transito di sodali in altri gruppi: in realtà si era comparata l’attività di riposizionamento e la volont di vendetta verso altri sodalizi, quali attività rientranti in logiche camorristiche.
Il potere sanzionatorio si esprimeva in termini lontani da quello tipico di clan di camorra ed era comunque correlato all’unica attività svolta, cioè quella relativa al narcotraffico.
L’organigramma era elemento tipico del reato associativo, anche di quello riferito alla materia degli stupefacenti.
Il preteso potere assoluto non era quello tipico di un clan di camorra.
Unica finalità del sodalizio era la gestione del narcotraffico nel territorio dell Case Celesti.
A fronte di ciò, per corroborare l’opposto assunto erano stati considerati singoli, sporadici episodi, come quello legato all’abitazione della Rispoli, che segnava il distacco dell’associazione da quella riconducibile al clan COGNOME.
L’assistenza agli associati non conduceva a conclusioni diverse.
Non esisteva un clan con connotazioni camorristiche, tanto che dopo l’arresto di COGNOME si registrava una situazione di crisi legata alla flessione nella vendita di stupefacenti.
Quanto al controllo della gestione degli alloggi di edilizia popolare, solo uno era l’episodio ritenuto indicativo, riguardante NOME, moglie di NOME.
Inoltre, a dimostrazione del fatto che non vi fosse stata prosecuzione tra clan COGNOME e nuova compagine, era significativo che l’abitazione della Rispoli fosse stata affidata a soggetto meritevole di sanzione e in precedenza sottoposto a punizione, situazione non coerente nella prospettiva di una linea di continuità con il clan COGNOME.
Tutti gli elementi rilevabili dimostravano che l’associazione viveva dei soli proventi dell’attività di spaccio.
Quanto alla posizione e al ruolo del ricorrente la Corte di appello non aveva valutato i motivi di appello e la memoria difensiva ed aveva affrontato superficialmente l’esame dei fatti.
Del ricorrente aveva parlato il solo collaboratore NOMECOGNOME riferendosi ad un episodio di cui aveva avuto notizia de relato senza affermare che il soggetto aveva fatto parte del gruppo di fuoco, fermo restando che il ricorrente non era stato indagato per tale fatto, all’epoca non era maggiorenne e il suo ruolo rientrava nel settore degli stupefacenti, senza che egli si distinguesse per una posizione preminente.
Indebitamente la Corte aveva ritenuto che il soggetto che si era firmato “RAGIONE_SOCIALE” nel manoscritto recuperato presso COGNOME al momento del suo
arresto corrispondesse al ricorrente, quando mai lo stesso era stato chiamato con tale nome nelle conversazioni intercettate. Inoltre, numerosi elementi conducevano a sminuirne il ruolo, anche nel rapporto con COGNOME, non avendo comunque partecipato ad attività diverse da quelle relative alla materia degli stupefacenti.
Segnala il ricorrente che il messaggio rinvenuto presso COGNOME al momento del suo arresto, avvenuto il 16 aprile 2016, faceva riferimento ad un episodio occorso il 13 aprile 2016, il che valeva a rendere non plausibile che lo stesso fosse stato inviato dal ricorrente che dal dicembre 2015 era stato allontanato dall’organizzazione, non essendo pertinenti sul punto i rilievi della Corte di appello.
3.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di cui all’art. 74, comma 1, d.P.R. 309 del 1990, contestato al capo B).
Indebitamente era stata attribuita al ricorrente la veste di organizzatore.
Già dalla richiesta cautelare emergeva che il ricorrente non si occupava di rifornimento, di distribuzione degli stipendi, di rapporti con i gruppi viciniori servizi di staffetta per la merce in entrata e in uscita, della blindatura delle por di servizio, che inoltre aveva fallito nel ruolo di vedetta, essendo altres improbabile che guadagnasse circa diecimila euro al giorno, posto che COGNOME ne guadagnava circa duemila.
Inoltre, il ricorrente non si interessava di accantonamento della sostanza e non era addetto al taglio, non comprendendosi in realtà quale fosse il suo ruolo, salvo un’occasionale presenza in una pattuglia di controllo della vendita dello stupefacente.
3.3. Nell’atto a firma dell’Avv. COGNOME con il primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato associativo sub A).
Era stata contestata la sussistenza di un’associazione camorristica ed era stata dedotta la mancata valutazione dei rilievi difensivi, essendosi inoltre contestata la concludenza degli elementi valorizzati in chiave accusatoria.
La Corte di appello aveva valorizzato la vicenda dell’abitazione della Rispoli, il carattere fisiologico delle tensioni all’interno del sodalizio, la partecipazione al vicenda dell’orologio di COGNOME e del pestaggio di COGNOME, le dichiarazioni del collaboratore COGNOME non ritenute de relato, l’individuazione nel ricorrente del soggetto firmatosi come “RAGIONE_SOCIALE” nel manoscritto reperito presso COGNOME.
Pur non contestandosi l’esistenza di un clan camorristico, alla luce del concordato in appello del soggetto indicato come suo capo, erano censurate come illogiche e contraddittorie le richiamate valutazioni della Corte con riguardo alla
ritenuta partecipazione del ricorrente al clan, con ruolo qualificato, fondata sugli stessi elementi comprovanti la partecipazione al sodalizio dedito al narcotraffico.
Nella vicenda COGNOME il ricorrente non era comparso, se non quando era stato denigrato da NOME COGNOME in quanto non appartenente alla stirpe NOME.
Nessun ruolo aveva dunque il ricorrente in tale vicenda, ritenuta sintomatica. Relativamente alla vicenda dell’orologio, rispetto alla quale era stato prospettato un errore di persona, la Corte non aveva fornito specifica risposta, limitandosi a richiamare gli assunti del primo giudice.
Relativamente alla vicenda COGNOME, era stata prospettata la sua inconsistenza dimostrativa, posto che. se si fosse trattato di soggetto apicale di clan camorristico, COGNOME non avrebbe assunto un atteggiamento baldanzoso. Ma la Corte non aveva fornito specifica risposta.
Quanto ai 13 collaboratori, solo COGNOME aveva fatto menzione del ricorrente riferendosi alla sua presenza ad un episodio risalente ad epoca in cui aveva 17 anni e comunque da ritenersi anteriore alla data della contestazione.
La dichiarazione era inoltre de relato e proveniente da coimputato, occorrendo particolare rigore nella valutazione, non emergente dalla sentenza impugnata, fermo restando che il ricorrente era stato indicato come soggetto che spacciava alle INDIRIZZO e che a carico del predetto non vi erano riscontri.
Si trattava dunque di dichiarazioni coerenti con la partecipazione all’associazione dedita al narcotraffico, ma non al clan camorristico.
Relativamente al manoscritto a firma “COGNOME“, la motivazione non era condivisibile, in quanto congetturale, non rilevando che nessun altro componente avesse il nome NOME, a fronte del frequente utilizzo di soprannomi, fermo restando che il documento era riferito ad affari in materia di stupefacenti.
Avrebbe dovuto dunque considerarsi che se la prova dell’appartenenza al sodalizio dedito al narcotraffico può influire sulla prova dell’appartenenza al clan camorristico, la stessa non è comunque sufficiente, attesa la diversità del bene protetto e degli elementi costitutivi, non essendo stato spiegato, se non in forza di argomenti congetturali, su quali basi il ricorrente potesse dirsi appartenente al clan, ben potendosi prospettare la partecipazione all’associazione dedita al narcotraffico al di fuori della compartecipazione all’associazione mafiosa, anche in relazione all’intensità del dolo specifico previsto dalla fattispecie incriminatrice.
3.4. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ruolo apicale, attribuito al ricorrente con riguardo al capo B).
Con motivazione generica, incentrata sul modo di esercizio o di non esercizio del potere disciplinare, la Corte aveva respinto la censura volta a sollecitare una riqualificazione della posizione del ricorrente nell’ambito della consorteria dedita al narcotraffico.
Era stata valorizzata una sola conversazione cui era stata data un’interpretazione illogica, a fronte della rilevata mancata investitura ufficiale d rappresentanza di COGNOME, cui il ricorrente avrebbe aspirato.
Il ruolo apicale non aveva trovato riscontro concreto o semmai riscontro negativo.
Si richiamano sul punto argomenti esposti nel secondo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME
3.5. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 416-bis.1 cod. pen.
Indebitamente era stato fatto riferimento al metodo mafioso, a fronte di contestazione riferita alla finalità agevolativa e contraddittoriamente era stata desunta tale finalità dall’uso del metodo.
Peraltro, il fine di agevolare il clan era stato assertivamente ravvisato sulla base di un periodico tributo di vassallaggio, in assenza del riferimento a dati fattuali, ferma restando la necessità di correlare l’aggravante alla cosciente ed univoca finalità agevolatrice.
Era inoltre illegittimo l’aumento di pena applicato nei confronti di soggetti già chiamati a rispondere dell’intraneità al clan, ciò da cui discendeva una duplicazione sanzionatoria.
Hanno proposto ricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME tramite il loro difensore.
4.1. Relativamente alla posizione di COGNOME è dedotta violazione di legge in relazione alla mancanza di motivazione circa l’entità della pena imputabile ad aumento per la continuazione.
Sulla base dei principi affermati dalle Sezioni Unite la Corte, dopo aver riconosciuto il vincolo della continuazione con un reato separatamente giudicato, avrebbe dovuto determinare la pena imputabile agli aumenti per la continuazione motivando sul punto, ciò che non era avvenuto.
4.2. Relativamente alla posizione di COGNOME, è dedotta violazione di legge in relazione all’annesso riconoscimento del vincolo della continuazione con reato giudicato con sentenza della Corte di appello di Napoli, divenuta irrevocabile il 22 settembre 2020.
La Corte aveva ritenuto che le condotte fossero estranee al medesimo disegno criminoso, ma dal capo di imputazione si evince che trattasi di condotte arrestatesi nel 2017, con parziale sovrapposizione temporale, riguardanti fatti commessi nel comprensorio di edilizia popolare Case Celesti, inserite dunque nell’ambito di operatività del sodalizio e inquadrabili nello stesso disegno criminoso.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME tramite il suo difensore.
5.1. Con il primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., contestato al capo A).
Censura l’assunto che l’intraneità del ricorrente fosse desumibile dalla gestione della cassa del clan e dalla cura della latitanza del capo-clan NOME COGNOME, aspetti frutto di travisamento del dato probatorio o non idonei ad attestare la messa a disposizione del sodalizio.
Riportata la motivazione utilizzata dalla Corte di appello, il ricorrente segnala che il giudizio della Corte, come quello del primo giudice, era frutto di travisamento delle conversazioni intercettate, riprodotte nel ricorso, dalle quali non poteva trarsi la conclusione che il denaro e gli oggetti preziosi, che il ricorrente in passato aveva custodito e di cui poi si era impossessato, fossero di pertinenza del clan nel suo complesso, emergendo che soldi e gioielli erano di proprietà di singoli soggetti, senza alcun riferimento al ruolo del ricorrente quale custode o gestore della cassa del clan, posto che il predetto stava restituendo il denaro ai singoli tenendosi distinti i crediti singolarmente vantati dai soggetti coinvolti.
Peraltro, l’intraneità al clan non avrebbe potuto desumersi dalla sola gestione della latitanza di COGNOME.
La sentenza impugnata non aveva dato atto di una vera e propria messa a disposizione del ricorrente in favore del clan nel suo complesso, non essendo stato comunque spiegato in che cosa la stessa si sarebbe sostanziata al di là di una condotta favoreggiatrice, fermo restando che avrebbe potuto prospettarsi un mero concorso esterno, ove fosse stato rilevato un contributo rilevante per la conservazione e il rafforzamento del sodalizio, accertamento comunque mancante.
5.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma quarto, cod. pen.
giudici di merito non si erano pronunciati sull’aggravante anche se avevano applicato una pena che teneva conto della stessa e non avevano dato conto dell’imputabilità soggettiva di detta aggravante. I
Una motivazione era stata formulata con riguardo all’aggravante di cui all’art. 74, comma 4, d.P.R. 309 dl 1990, ma la stessa non avrebbe potuto valere per il ricorrente cui non era contestato il capo B), dovendosi considerare la mancanza di un riferimento alla specifica imputabilità dell’aggravante al ricorrente, in quanto direttamente a conoscenza o in stato di ignoranza dovuta a colpa.
5.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche.
Non era chiara la ragione per cui la pena base era stata determinata in anni dodici di reclusione in assenza di specifico riferimento all’aggravante di cui al comma quarto.
Era viziata inoltre la motivazione alla base del diniego delle attenuanti generiche.
Era censurabile il riferimento ad una condotta delittuosa protratta dopo l’arresto del capoclan, posto che era stato dato conto del suo allontanamento dopo che egli si era appropriato di soldi e gioielli appartenenti ad alcuni sodali.
In ogni caso la motivazione era apparente, in quanto basata su riferimenti generici al fatto e alla personalità dell’agente.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME tramite il suo difensore.
Deduce violazione di legge in relazione all’art. 416-bis.1 cod. pen.
La Corte non aveva considerato che in relazione al ricorrente non ricorreva uno stabile inserimento nel sodalizio e che era insussistente il motivo a delinquere.
Avrebbe dovuto aversi riguardo al risultato avuto di mira dal soggetto agente e dunque al fatto che il ricorrente avesse agito nella convinzione di apportare un vantaggio all’associazione, ciò che nel caso di specie non ricorreva, in assenza della finalità specifica.
Non era emerso altro elemento volitivo se non quello della prestazione occasionale di un contributo nel taglio della sostanza stupefacente, potendosi semmai ipotizzare che il ricorrente avesse agito per favorire non l’associazione ma i concorrenti.
All’udienza di discussione, in conseguenza di un vizio di notifica, è stata disposta la separazione della posizione dell’ulteriore ricorrente NOME COGNOME
CONSIDERATO IN DIRITTO
Tutti i ricorsi risultano inammissibili, salvo quello presentato nell’interesse di NOME COGNOME che deve essere rigettato.
Muovendo dai ricorsi presentati nell’interesse di NOME COGNOME deve preliminarmente deve valutarsi il tema della configurabilità dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., contestata al capo A), che ha formato oggetto del primo motivo formulato sia nell’atto a firma dell’Avv. COGNOME sia in quello a firm dell’Avv. COGNOME.
2.1. Sul punto le deduzioni difensive risultano manifestamente infondate.
Al di là del fatto che il soggetto individuato come capo del clan COGNOME nel periodo cui si riferisce la contestazione, cioè NOME COGNOME ha ammesso la propria responsabilità, concordando la pena nel giudizio di appello, ciò che è stato realisticamente considerato in uno dei ricorsi presentati nell’interesse di NOME
Celentano un elemento in parte qua decisivo, deve comunque osservarsi che i Giudici di merito, le cui sentenze, in quanto sostanzialmente conformi, devono essere lette congiuntamente e sincronicamente, hanno ampiamente motivato in ordine all’effettiva operatività nel corso degli anni dell’indicata consorteria camorra.
Hanno in particolare rilevato sulla base delle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia e di plurime sentenze definitive, che hanno preso in esame le dinamiche criminali sviluppatesi nei territori di Scampia e Secondigliano, che il clan COGNOME, avente base familiare e connotato da una specifica sfera di influenza territoriale, nel corso degli anni aveva conservato nella sostanza la propria identità, pur avendo in varia guisa concorso a costituire cartelli criminali più ampi, poi di volta in volta disarticolati da sanguinose faide e ricostituitisi sulla base nuove alleanze, da ultimo con la potente consorteria COGNOME, fino a quando dal 2013 aveva operato autonomamente, peraltro mantenendo una propria riconoscibile fisionomia e soprattutto la propria base territoriale, costituita da comparto denominato Case Celesti.
Si è dato conto di come la veste di capo fosse stata assunta da NOME COGNOME resosi in passato responsabile di efferati crimini, il quale aveva potuto continuare a svolgere un ruolo egemonico anche in stato di latitanza, cessato solo nell’aprile del 2016 in conseguenza del suo arresto.
In tale quadro si è dunque rilevato come il clan COGNOME avesse agito nel corso degli anni e avesse continuato ad operare come clan di camorra, connotato da tutti gli elementi che valgono a delineare una consorteria riconducibile allo schema di cui all’art. 416-bis cod. pen.
In particolare, si è sottolineato (in linea con arresti giurisprudenzial consolidati: fra l’altro Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2021, dep. 2022, Bolla, Rv. 279555 – 15) come tale consorteria avesse acquisito una consolidata fama criminale, derivante da una concreta capacità di intimidazione e di assoggettamento, funzionale al controllo e all’esercizio di un’influenza egemonica in un determinato ambito territoriale.
In tale prospettiva si è fatto riferimento non solo al monopolio nella gestione dei traffici in materia di stupefacenti, attuata attraverso un’articolazion organizzativa operante sotto l’egida del clan, ma anche ad altri significativi profili indicativi di quella pervasiva sfera di controllo e di correlata capacità d intimidazione.
Si è dunque sottolineato come al clan facesse capo nella sostanza la gestione degli alloggi di edilizia popolare, quale forma di controllo del territorio, anche ne presupposto che non potessero insediarsi soggetti non graditi.
Del tutto in linea con tale assunto risulta la vicenda dell’alloggio lasciato da NOME COGNOME, che avrebbe dovuto essere appannaggio di altro soggetto vicino al clan, vicenda in relazione alla quale era insorta una disputa, con la COGNOME, moglie di uno dei fratelli NOME, che alla fine aveva acconsentito al subentro di un altro inquilino, pretendendo tuttavia una somma di denaro, circostanza aspramente stigmatizzata proprio da NOME COGNOME.
Sta di fatto che in tale quadro uno degli esponenti di punta del clan aveva esplicitamente affermato nel corso di una conversazione intercettata (cfr. pag. 56 della sentenza di primo grado) “Perché decidete vali- chi mettere la gente nelle case? Qui decidiamo noi e non voi!”.
Inoltre, sulla base di una ricostruzione tutt’altro che illogica, i Giudici di meri hanno valorizzato anche l’esercizio di una effettiva capacità di assoggettamento nei confronti degli operatori economici: è stato al riguardo citato l’episodio della riparazione di un orologio appartenente a NOME COGNOME con il gioielliere che aveva omesso di chiedere un compenso, qualificando il COGNOME come amico e peraltro nel contempo facendo comprendere di essere grato del controllo territoriale esercitato dal clan, fermo restando che lo stesso gioielliere, parlando con NOME COGNOME, moglie di COGNOME aveva solo con cautela segnalato che vi era chi si presentava a prelevare merce senza pagare; è stato altresì fatto riferimento all’azione di forza nei confronti di altro gioielliere, al q a scopo intimidatorio era stato fatto presente che si trattava di azione nell’interesse della famiglia, in particolare di COGNOME e di sua moglie (pag. 78 della sentenza di primo grado).
Non può inoltre sottacersi il dato assai rilevante, posto in luce nelle sentenze di merito, che il clan doveva guardarsi dai clan rivali e dunque era attento a possibili ingerenze nel territorio di riferimento, tanto che dopo l’arresto d COGNOME, allorché il clan si era trovato in difficoltà, era stato avvertito c allarme un episodio culminato in uno scippo subito nella zona delle INDIRIZZO da una commerciante (pag. 51 della sentenza di primo grado), a dimostrazione della stretta correlazione tra il clan e un definito ambito territoriale, nel quale esprimeva la sua capacità di assoggettamento.
2.2. A fronte di tale analisi, risultano del tutto inidonee a vulnerare l ricostruzione operata nella sentenza impugnata e in quella di primo grado le deduzioni difensive, volte a censurare l’assunto della configurabilità di un clan di camorra, inquadrabile nell’alveo applicativo dell’art. 416-bis cod. pen.
In primo luogo, non sono individuate fratture logiche del ragionamento, tali da disarticolarne la concludenza, ma sono in varia guisa addotti profili valutativi inerenti al merito, insuscettibili di esame in questa sede, come in relazione
•
all’episodio della riparazione dell’orologio o alla valenza della vicenda riguardante NOME COGNOME
In secondo luogo, va rimarcato come limpidamente e correttamente sia stata . valorizzata la stratificazione di accertamenti contenuti in sentenze irrevocabili, da ultimo quella del G.i.p. del Tribunale di Napoli in data 27 novembre 2019, riguardante il medesimo contesto associativo e riferita ad un periodo in parte sovra pponi bile.
Tali accertamenti sono stati del resto vivificati dalle dichiarazioni di var collaboratori di giustizia, tra i quali NOME COGNOME che aveva ampiamente parlato del clan COGNOME e della sua operatività nel territorio delle Case Celesti, indicando i vari componenti, a cominciare dal suo capo NOME COGNOME.
In terzo luogo, sono del tutto infondati i rilievi volti a sminuire la rilevanza quegli accertamenti, nel presupposto della insussistenza di un’unica consorteria operante nel corso degli anni e della conseguente necessità di ridefinire la struttura associativa e la fama criminale del clan al di fuori dei cartelli criminali ai quali n corso degli anni aveva aderito.
Ed invero si è già detto che, secondo la incensurabile ricostruzione dei Giudici di merito, il clan COGNOME aveva conservato fisionomia e sfera territoriale di controllo e di azione, ivi manifestando con continuità la sua consolidata fama criminale, a prescindere dalle alleanze e dalla disarticolazione dei cartelli via via affermatisi: d qui la correttezza del giudizio fondato anche su pregressi accertamenti irrevocabili, peraltro inverati dalle nuove risultanze acquisite, per lo più, attraverso attività intercettazione, che avevano consentito di rilevare la permanente operatività del clan nella sua zona di influenza fino al 2016.
Deve aggiungersi che, a fronte di una contestazione nella quale si dava comunque atto delle travagliate vicende dei sodalizi criminali, non avrebbe potuto ravvisarsi alcun vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa e nel contempo, portando alle estreme conseguenze gli assunti difensivi, peraltro formulati genericamente e in termini astratti, si sarebbe semmai potuto prospettare un aggiuntivo -non sostitutivo- patto criminale alla base dei cartelli di volta in vol costituiti, non tale da elidere tuttavia la valenza di quello da cui aveva tratto origi il clan e la sua persistente operatività nella medesima zona, in cui aveva manifestato e continuato a manifestare, anche dopo il venir meno delle alleanze, la sua fama criminale.
Né varrebbe obiettare che la primaria attività del clan era costituita dalla gestione dei traffici in materia di stupefacenti, alla base della contestazione di cui al capo B), avente ad oggetto la costituzione di una associazione rilevante ai sensi dell’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990.
E’ stato al riguardo difensivamente invocato anche il tenore del biglietto inviato a Manganello dai suoi luogotenenti e rinvenuto nel covo in cui COGNOME venne rintracciato e tratto in arresto: tale biglietto, ritenuto prova fondamentale dell’esistenza e dell’operatività del clan, conteneva indicazioni anche in ordine al sistema di spaccio e si è dunque affermato che lo stesso avrebbe semmai potuto attestare l’esistenza dell’associazione dedita al traffico di stupefacenti.
Sul punto va tuttavia rimarcato come i Giudici di merito abbiano correttamente dato conto dell’ammissibilità del concorso tra l’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. e quella di cui al citato art. 74, essendo stato debitamente richiamato il consolidato orientamento in forza del quale il concorso è ravvisabile «anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi» (Sez. U, n. 1149 del 25/09/2008, dep. 2009, Magistris, Rv. 241883 – 01), fermo restando che deve riconoscersi valenza primaria al «profilo programmatico dell’utilizzo del metodo, che, nell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., ha una portata non limitata al traffico di sostanze stupefacenti, ma si proietta sull’imposizione di una sfera di dominio in cui si inseriscono la commissione di delitti, l’acquisizione della gestione di attività economiche, di concessioni, appalti e servizi pubblici, l’impedimento o l’ostacolo al libero esercizio di voto, il procacciamento del voto in consultazioni elettorali» (Sez. 6, n. 31908 del 14/05/2019, COGNOME, Rv. 276469 – 01; Sez. 6, n. 563 del 29/10/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 265762 – 01).
Nel caso di specie si è perciò rilevato come la configurabilità di un’articolata organizzazione alla base della gestione dell’attività di approvvigionamento e spaccio di stupefacenti -organizzazione della quale il giudice di primo grado ha ampiamente delineato i profili strutturali, in relazione al contributo convergente di plurimi soggetti dediti a sistematica attività di spaccio, sulla base di modalità prestabilite e in vista di ricavi da ripartire-, non valesse ad escludere l concomitante configurabilità di un clan di camorra, connotato da pervasiva capacità di assoggettamento di un determinato ambito territoriale, riconducibile al paradigma di cui all’art. 416-bis cod. pen., clan sotto il cui controllo e a vantaggio del quale operava, peraltro senza una piena coincidenza sul piano soggettivo, quell’organizzazione dedita al traffico di stupefacenti.
Sono inammissibili, in parte perché manifestamente infondati e in parte perché volti a sollecitare un’alternativa lettura del compendio probatorio, non consentita in sede di legittimità, in assenza dell’individuazione di fratture logiche e di profili di contraddittorietà della motivazione, i primi due motivi del ricorso firma dell’Avv. COGNOME e il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME
riguardanti la partecipazione di NOME COGNOME alle consorterie di cui ai capi A) e B).
3.1. Ai fini del relativo scrutinio deve premettersi che nel caso di specie ricorre un’ipotesi di . «doppia conforme», in quanto la Corte di appello ha inteso richiamare per intero la motivazione della sentenza di primo grado, introducendo rilievi volti a confutare talune deduzioni difensive: su tali basi deve ritenersi che le due sentenze possano essere lette congiuntamente, in quanto costituenti un unico corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 – 01).
Ed ancora, più in generale, va rilevato che «l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali» (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 – 01; in senso analogo, successivamente, Sez. U, n. 31/05/2000, iakani, Rv. 216260 – 01).
D’altro canto «l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopic evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento» (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794 – 01).
A fronte di ciò deve rimarcarsi come l’illogicità e contraddittorietà extratestuale, prevista dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., dopo la modifica introdotta dalla legge n. 46 del 2006, possa assumere rilievo in quanto si traduca in un travisamento della prova, deducibile in sede di legittimità ove lo stesso emerga solo dalla sentenza di appello o sia stato già devoluto al giudice di secondo grado (Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Africano, Rv. 281665 – 01; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, COGNOME, Rv. 280155 – 01), sempreché detto travisamento, inerente al «significante» e desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, «sia
idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato» (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758 – 01): peraltro la parte che deduce il .vizio «deve a) identificare l’atto processuaie cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato» (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085 – 01).
3.2. Ciò posto, risulta in primo luogo del tutto inconferente il rilievo che quadro probatorio sia essenzialmente costituito da esiti di operazioni di intercettazione, in quanto siffatte risultanze ben possono costituire base esclusiva di un giudizio di penale responsabilità, fermo restando che «in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità» (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01).
3.3. Deve inoltre rimarcarsi come i motivi di ricorso siano volti a contestare gli assunti accusatori e gli elementi alla cui stregua è stata ritenuta l’atti partecipazione di NOME COGNOME sia al clan sia all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, attraverso la meticolosa riproposizione delle deduzioni difensive, incentrate su una difforme lettura delle conversazioni intercettate, da cui sarebbe derivata una viziata motivazione, correlata anche al travisamento del dato probatorio.
3.4. Può peraltro osservarsi che i Giudici di merito hanno desunto il diretto coinvolgimento della ricorrente da una pluralità di elementi, taluni dei quali dotati di particolare forza esplicativa: in particolare è stato dato conto che NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME, non solo conosceva gli altri componenti del sodalizio, ma costantemente si confrontava con loro su questioni inerenti alla gestione del clan, essendo a conoscenza delle regole e dell’assoggettamento dei membri al rischio di sanzioni in caso di inadempienze; la predetta, in particolare, interloquiva su vicende rilevanti, come quella riguardante l’alloggio di NOME COGNOME, e sui compensi spettanti non solo riduttivamente come moglie del capo, ma come appartenente al sodalizio (cfr. pag. 15 della sentenza impugnata: conversazione n. 9827, ma anche conversazione n. 667, in
cui, parlando con NOME, richiamava gli accordi, senza indugiare nell’ascolto delle spiegazioni che cercava di fornirle l’interlocutore), essendo inoltre in contatto con il marito dapprima latitante e poi detenuto, da cui poteva ricevere talune indicazioni anche in merito ai compensi (di qui la conversazione n. 221, ·in cui COGNOME le chiedeva conferma circa la destinazione di euro 300,00); si esprimeva in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’inflizione di sanzioni (pag. 18 della sentenza impugnata) e si faceva ella stessa promotrice di iniziative volte ad ottenere tale risultato, come nel caso dell’intervento sollecitato al marito tramite NOME COGNOME perché infliggesse sanzioni a NOME, reo della grave imprudenza di aver parlato in casa della donna di vicende del clan, ovvero disponeva l’epurazione di un soggetto, nei cui confronti il marito aveva da tempo disposto la sanzione, da lei tuttavia tenuta in sospeso per pietà, fino a quanto aveva ritenuto inevitabile quella scelta (pag. 17 della sentenza impugnata e pag. 99 della sentenza di primo grado).
Ma oltre a ciò, i Giudici di merito hanno valorizzato anche altri elementi.
Innanzi tutto, hanno dato conto di come la ricorrente, diversamente da altre donne legate a soggetti in posizione di vertice, si interessasse dell’andamento dell’attività, mostrando di voler fare le veci del marito, secondo quanto prospettato da un personaggio di rilievo come NOME COGNOME (pag. 15 della sentenza impugnata: conv. n. 2866).
Inoltre, hanno rilevato che dopo l’arresto di NOME COGNOME, nel momento in cui il clan aveva subito una fase di crisi, con il rischio di una diaspora dei suo membri, proprio la ricorrente aveva saputo porsi come punto di riferimento, da un lato sollecitando più attenti controlli rispetto al rischio di invasioni di campo, c avrebbero potuto esporla direttamente, come quando si era registrata la presenza di soggetti armati, dall’altro confrontandosi con soggetti dediti allo spaccio in merito alla situazione che si era venuta a creare (pag. 54 della sentenza di primo grado).
Ed ancora hanno segnalato che proprio la ricorrente era stata interpellata, a testimonianza del ruolo assunto, per risolvere la vicenda COGNOME–COGNOME, che vedeva coinvolta la potente consorteria COGNOME, e nel dicembre 2016, a ridosso dell’omicidio COGNOME, aveva espresso l’intenzione, pur manifestando timori, di andare a chiedere spiegazioni ai referenti del clan COGNOME (pag. 19 della sentenza impugnata).
Quale dato centrale dell’intera ricostruzione i Giudici di merito hanno peraltro valorizzato quanto emerso nelle fasi del processo che si stava celebrando per il duplice omicidio Montanino-Salierno, che vedeva come imputati, fra l’altro NOME NOME, NOME COGNOME e COGNOME NOME, in quella fase ancora latitante.
A seguito dell’inattesa confessione da parte di NOME COGNOME la ricorrente, presente alle udienze del processo, secondo quanto ricostruito in base alle conversazioni intercettate, aveva espresso il suo forte disappunto nei confronti dei pentiti, fra l’altro censurando il comportamento tenuto a suo tempo da NOME COGNOME non consono ad un uomo di camorra, e per contro dichiarando che avrebbe preferito un ergastolo piuttosto che accettare l’idea di una collaborazione con la giustizia, dovendo le scuse invocate da NOME nei confronti delle vittime essere rivolte piuttosto alle famiglie degli appartenenti al clan (si rinvia a pag. 1 della sentenza impugnata e alle pagg. 61 e segg. della sentenza di primo grado).
Tutt’altro che illogicamente tale condotta è stata intesa quale segno di condivisione delle logiche camorristiche, vissute dall’interno, risultando surrettizie le spiegazioni fornite ex post circa l’avvertito timore di pene ingiuste e di vendette trasversali nei confronti dei familiari degli imputati, e dovendosi peraltro rilevar come analogo atteggiamento la ricorrente avesse tenuto dopo che lo stesso COGNOME, ormai detenuto, aveva manifestato l’intenzione di confessare la propria responsabilità, ciò che aveva suscitato nella predetta una irata e preoccupata reazione, nel presupposto che l’intera famiglia dovesse subire la relativa «vergogna».
3.5. Orbene, nei motivi di ricorso sono state ripercorse tali valutazioni alla luce di una alternativa lettura delle conversazioni intercettate, da un lato allegate al ricorso ma in concreto riportate nei motivi solo frammentariamente, senza che possa dirsi rappresentato il radicale travisamento del «significante», a fronte di una motivazione in cui, con riguardo alle conversazioni rilevanti, si è confermato il valore già attribuito ai colloqui nella sentenza di primo grado, sulla base d un’interpretazione del loro contenuto e dell’inquadramento del risultato interpretativo all’interno del complessivo ragionamento probatorio.
In tale prospettiva non è dato ravvisare in nessun caso profili di illogicità della motivazione e neppure un travisamento delle prove tale da disarticolare la complessiva ricostruzione, sia pur valutata in relazione a singoli segmenti argomentativi.
I motivi di ricorso in particolare non risultano in alcun modo idonei a svilire la valenza rappresentativa delle impegnative proclamazioni di condivisione di valori camorristici emergenti dai dialoghi riferiti alla confessione in sede processuale di NOME COGNOME non potendosi attribuire valenza dirimente all’alternativa lettura offerta ex post dalla ricorrente.
Ma allo stesso modo non risultano vulnerati i passaggi nei quali si fa riferimento all’attivismo della ricorrente nei dialoghi con gli altri partecipi, al interessamento per i compensi spettanti a lei e ad altri, alla sua piena conoscenza delle regole, alle sue varie interlocuzioni concernenti il tema delle sanzioni e
all’interessamento nella vicenda COGNOME-Salerno, oltre al manifestato proposito di interlocuzione con la consorteria COGNOME.
In tutti i casi infatti il ricorso si risolve nella frammentaria prospettazione un diverso significato attribuibile alle conversazioni, risultando solo suggestivi alcuni passaggi argomentativi riferiti a singoli colloqui, come quello coinvolgente tale NOMECOGNOME che in realtà devono essere per lo più valutati nella loro interezza, come risulta del resto nitidamente evidente nel caso della proclamazione di indifferenza della ricorrente rispetto alte spiegazioni offertele da NOME a fronte de richiamo al rispetto delle regole concordate, fermo restando che il riparto degli introiti implicava da un lato la «mesata» e dall’altro la suddivisione di quote tra gl esponenti di quello che è stato definito il «direttorio» (cfr. anche pag. 114 della sentenza di primo grado) e che, secondo quanto risulta dalla complessiva ricostruzione, a NOME COGNOME non interessava tanto incidere su quei criteri ma assicurarsi che gli stessi venissero rispettati, in primo luogo a vantaggio suo e del marito.
Lo sforzo difensivo di offrire una rappresentazione volta a nnarginalizzare la posizione della ricorrente, quale semplice moglie di un capo, interessata esclusivamente alla «mesata» spettantele in tale veste, non può dunque trovare in questa sede condivisione, a fronte delle plausibili e non illogiche valutazioni dei Giudici di merito, che devono essere prese in considerazione quali elementi di un complessivo mosaico, senza che in nessun caso possano dirsi idonei a disarticolare la ricostruzione meri frammenti di alcuni colloqui, a fronte della nitida valenza attribuita a quelli in cui, da un lato, vengono in rilievo le plurime interlocuzio della ricorrente e dall’altro la sua consolidata condivisione e attuazione delle regole stabilite, incidenti sia sull’operatività del clan sia sulla concreta gestione del traff di stupefacenti.
Né può sottacersi che la pretesa di vulnerare la motivazione attraverso la prospettazione di una diversa chiave di lettura, oltre che di per sé non consentita, muove comunque da una aprioristica scelta dei canoni di valutazione, individuati in termini astratti e non calati nella concreta realtà di quel determinato clan e men che mai rapportati alle peculiari fasi operative in cui lo stesso si trovava – con un capo dapprima latitante e poi tratto in arresto – e dunque costretto ad agire sulla base di indicazioni rivenienti da chi poteva rivestire posizioni apicali in forza d precise investiture o, secondo le contingenze, anche solo in via di fatto.
Risulta volto a minimizzare la valenza di alcuni elementi in una prospettiva di merito, preclusa in questa sede, quanto difensivamente dedotto in ordine all’asserita assenza di contatti diretti o indiretti della ricorrente con il marito peraltro sono stati in più occasione desunti da conferme o assicurazioni che la predetta era in grado di fornire, essendo irrilevante che non siano stati reperiti
lettere o biglietti da lei spediti o ricevuti-, in ordine all’incidenza della ricor sull’esercizio del potere disciplinare e in ordine al ruolo di rilievo da lei assun nella fase di fibrillazione seguita all’arresto di COGNOME.
Parimenti risulta irrilevante che della ricorrente non abbiano parlato i collaboratori di giustizia, a fronte del fatto che il clan COGNOME faceva comunque capo a COGNOME e ad altri soggetti della famiglia e che la moglie del predetto svolgeva comunque un ruolo di fatto al di là di una strategia di comando formalizzata.
Del tutto ininfluenti devono ritenersi i frammentari riferimenti alle vicende connesse all’implementazione degli strumenti di sicurezza e di controllo, fermo restando che quanto esposto sul punto nel motivo di ricorso non vale ad elidere la rilevanza del fatto che quegli strumenti fossero installati a tutela e a vantaggio della ricorrente.
3.6. Gli elementi valutati e valorizzati dai Giudici di merito possono dunque dirsi idonei a sorreggere la conclusione da essi raggiunta in ordine alla diretta partecipazione della ricorrente sia al clan di camorra sia all’associazione dedita al traffico di stupefacenti, costituente l’attività di maggior rilievo facente capo al cl nel territorio di riferimento, gestita tramite un assetto organizzativo non limitato soggettivamente ai membri del clan, ma comunque in grado di procurare a quest’ultimo cospicui introiti.
Non rileva che la ricorrente avesse o meno direttamente commesso reati, a fronte del fatto che ella era permanentemente a disposizione della consorteria, quale punto di riferimento dei membri, in piena coerenza anche con la sua veste di moglie del capo, che, come riconosciuto da COGNOME, aveva scelto di non limitarsi ad una passiva accettazione degli eventi, ma intendeva incidere sulla vita del clan e sullo sviluppo della sua azione.
D’altro canto con riguardo alla partecipazione all’associazione dedita al narcotraffico i Giudici di merito non si sono limitati a tratteggiare la derivazione d tale partecipazione dalla statica condivisione della logica e degli interessi del clan, ma hanno anche segnalato come la ricorrente non solo fosse adusa a fornire le vetture ove necessario, ma all’occorrenza partecipasse direttamente ad operazioni in materia di stupefacenti, essendo stato a tal fine richiamato l’episodio (emergente dalla conversazione n. 1017, pag. 17 della sentenza impugnata), in cui ella doveva recarsi ad un appuntamento con NOME COGNOME, appuntamento non riferibile ad una mera truffa assicurativa, secondo quanto difensivamente prospettato in base ad un frammento centrale della conversazione, a fronte della necessità inizialmente avvertita dai conversanti di dar conto della presenza o del passaggio di una vettura del commissariato di Scampia.
77 /
Analoghi rilievi devono formularsi con riguardo al terzo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME e al quarto motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME concernenti il ruolo apicale attribuito alla ricorrente.
Anche in questo caso le deduzioni risultano da un lato generiche e dall’altro reiterative di censure formulate in una prospettiva di merito, come tali non consentite in sede di legittimità.
Va del resto rilevato che i Giudici di merito hanno inteso valorizzare l’attivismo della ricorrente nei diversi momenti e in relazione ai diversi profili inerenti alla v del clan e dell’organizzazione dedita al narcotraffico, dando peraltro specifico rilievo da un lato alle impegnative proclamazioni dei valori camorristici e dall’altr al ruolo di punto di riferimento degli altri componenti della consorteria, soprattutto nella fase di fibrillazione della stessa conseguente all’arresto di COGNOME.
Ed ancora va rimarcato come, secondo la ricostruzione operata, la ricorrente fosse in grado di farsi portavoce del marito o comunque di attuare o prendere decisioni in tema di sanzioni nei confronti di soggetti in varia guisa inaffidabili.
Né va sottaciuto che la ricorrente condivideva le regole della consorteria le quali non avrebbero potuto essere mutate a scapito di lei e contro la sua volontà, salva una diversa valutazione del capo, cioè di NOME COGNOME essendo peraltro irrilevante che in alcuni casi si fosse registrato il versamento di somme inferiori rispetto al dovuto, circostanza del tutto inidonea a smentire la posizione della ricorrente, come difensivamente prospettato in termini puramente astratti e avulsi dalla concreta operatività della consorteria nel lasso di tempo preso in esame, ma solo a far risaltare eventuali responsabilità del soggetto cui l’omesso integrale versamento avrebbe dovuto ascriversi.
Posto che la posizione apicale deve essere riconosciuta non solo a chi sia il capo o sia nominato formalmente reggente, ma anche a chi per la sua autorevolezza sia in grado di porsi come punto di riferimento della consorteria, consolidandone l’esistenza e l’attività, deve ritenersi che del tutto corretto risul l’inquadramento della posizione della ricorrente operato dal primo Giudice e dalla Corte di appello, avuto riguardo al menzionato attivismo correlato anche alla sua veste di moglie del capo e al ruolo di consolidamento svolto soprattutto nella fase di fibrillazione conseguente all’arresto di COGNOME allorché era possibile una diaspora dei membri ed era a rischio la stessa operatività nel settore degli stupefacenti, non esponendosi dunque la motivazione emergente dalla sincronica valutazione delle sentenze di merito ai rilievi difensivi, che non individuano fratture logiche del ragionamento e si limitano, come già osservato, a reiterare censure correlate alla lettura delle conversazioni intercettate, oltre che a proporre in termini astratti, disancorati dalla concreta ricostruzione, il tema dell
/7
GLYPH
(
configurabilità sotto il profilo giuridico di una posizione apicale, riferibil entrambe le associazioni.
.5. Manifestamente infondato risulta il quarto motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME riguardante la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416bis. 1 cod. pen. in relazione al delitto associativo di cui al capo B).
5.1. Deve sul punto sgomberarsi il campo dall’ultroneo riferimento fatto dalla Corte territoriale al profilo del metodo mafioso, quando in concreto l’aggravante era contestata in relazione al profilo agevolativo e come tale limpidamente ritenuta e ravvisata dal primo Giudice.
Sta di fatto che comunque la Corte ha motivato anche in ordine a tale profilo, rilevando come risulti evidente che l’operatività dell’associazione dedita al narcotraffico fosse funzionale all’interesse primario del sodalizio mafioso che nel traffico di stupefacenti rinveniva la base essenziale delle sue entrate.
Va d’altro canto rilevato che nel caso della ricorrente, moglie del capo e in varia guisa attiva all’interno del clan anche in funzione dell’operatività in materia di stupefacenti, la finalizzazione agevolativa costituiva un dato coessenziale al suo complesso ruolo, come fin qui esaminato.
5.2. Risultano del tutto infondati i rilievi difensivi che si vorrebbero trar dall’insegnamento delle Sezioni Unite.
Ed invero, deve in primo luogo rimarcarsi che non v’è incompatibilità tra la finalità di agevolare l’associazione mafiosa, riferita ai reati fine, e l’appartenenz alla consorteria (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, COGNOME, Rv. 218377 – 01; Sez. 2, n. 20935 del 07/04/2017, COGNOME, Rv. 269642 – 01).
In secondo luogo, va rimarcato come l’aggravante in esame abbia natura soggettiva e inerisca alla specifica finalizzazione della condotta (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734 – 01), fermo restando che la stessa si comunica anche a chi sia comunque consapevole della finalità perseguita dal concorrente e che anche con riguardo ad un reato associativo, che assuma natura strumentale, la condotta ben può essere valutata in funzione del risultato derivante dal contributo dei concorrenti necessari ed eventuali.
In tale quadro la valutazione dei Giudici di merito risulta del tutto immune dalle censure formulate.
Del tutto infondati e genericamente formulati risultano i motivi riguardanti il carattere armato dei sodalizi.
In realtà la Corte, richiamando le valutazioni del primo Giudice, ha rilevato come sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori fosse emersa la disponibilità
di armi, utilizzate in fatti di sangue e comunque anche per ronde armate a tutela del territorio e della piazza di spaccio.
Deve aggiungersi che il primo Giudice aveva fra l’altro richiamato conversazioni, coinvolgenti anche la ricorrente, nelle quali si faceva riferimento alla disponibilità di armi (conv. n. 891, pag. 86 della sentenza di primo grado), ciò che non ha formato oggetto di specifica censura.
Di qui l’inammissibilità dei motivi anche sotto il profilo del coefficient psicologico in capo alla ricorrente, che non era peraltro limitato all’ignoranza derivante da colpa.
Inammissibili, perché interamente volti a sollecitare una diversa valutazione inerente al merito, in assenza di profili rilevanti in sede di legittimit risultano infine i motivi proposti nell’interesse della ricorrente in ordine trattamento sanzionatorio.
E’ stato dato conto delle ragioni per cui sono state negate le invocate attenuanti e la pena è stata determinata nella misura fissata in primo grado, essendosi valorizzata la pervicace condivisione di valori camorristici e la costante partecipazione alle sorti delle consorterie ed essendosi non arbitrariamente negato rilievo alle deduzioni formulate ex post circa il significato da attribuirsi alle conversazioni intercettate, conversazioni che in realtà non possono dirsi illogicamente interpretate, a fronte delle assertive giustificazioni, e ch coerentemente sono state valutate ai fini della formulazione di un corrispondente giudizio personologico.
E’ inammissibile il ricorso presentato -con atti separati dei due difensorinell’interesse di NOME COGNOME.
8.1. Posto che nel ricorso a firma dell’Avv. COGNOME si mostra di accettare il riconoscimento dell’esistenza di un clan di camorra, che viene invece contestato nel primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME ben possono richiamarsi con riferimento a tale motivo i rilievi già formulati in sede di esame dei motivi di ricorso presentati nell’interesse di NOME COGNOME (cfr. retro, sub 2 del «Considerato in diritto»).
Sulla base di un’ampia ricostruzione del quadro probatorio i Giudici di merito hanno infatti rilevato come il clan COGNOME, al di là dei suoi trascorsi, avesse continuato ad operare nel medesimo territorio e come di esso avesse assunto il comando NOME COGNOME.
L’esistenza di un gruppo coeso in grado di esercitare capacità intimidatoria, forte della sua fama criminale, via via confermata, è stata desunta sia dalla stratificazione di accertamenti contenuti in sentenze irrevocabili sia dalle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, uno dei quali, NOME COGNOME aveva parlato anche di NOME COGNOME quale componente del gruppo di fuoco e quale partecipe all’operazione nel corso della quale era stata incendiata la vettura usata nell’omicidio COGNOME, per come direttamente appreso da COGNOME dai protagonisti. ·
Tale quadro ha trovato plurime conferme probatorie attraverso le conversazioni intercettate, sulla base delle quali è stato dato conto non solo dell’articolazione organizzativa tramite la quale veniva gestito un lucroso traffico di stupefacenti, ma prima di tutto dell’esercizio del pervasivo controllo con metodo mafioso di una determinata area territoriale corrispondente al comparto delle Case Celesti.
In tale prospettiva si è già detto della gestione degli alloggi di edilizia popolare e di altri episodi attestanti la concreta attivazione di modalità connotate da intimidazione evocata o agita.
8.2. Relativamente alla posizione di NOME COGNOME, i Giudici di merito (pagg. 80 segg. della sentenza di primo grado) hanno fatto riferimento all’episodio riguardante tale COGNOME, nei confronti del quale il ricorrente, inequivocamente identificato, dopo aver rivendicato il rispetto di patti relativi alla compravendita un veicolo, aveva inseguito il predetto, che si comportava in modo baldanzoso, e lo aveva violentemente colpito: è stato al riguardo osservato come nell’occasione il ricorrente avesse avuto occasione di ribadire la necessità di affermare il potere egemonico del clan, anche a costo di arrivare ad uccidere, e come inoltre si fosse rivolto a COGNOME intimandogli di non aprire il negozio all’indomani, a testimonianza della capacità di intimidazione del clan.
Su tali basi si è dato conto non solo dell’esistenza dell’associazione inquadrabile nel paradigma di cui all’art. 416-bis cod. pen., connotata dell’esercizio da parte degli organi apicali di potere disciplinare e sanzionatorio, ma anche del diretto coinvolgimento del ricorrente, quale partecipe di rilievo, fra l’altro a stret contatto con il capo COGNOME.
Proprio in tale prospettiva è stato inoltre valorizzato il biglietto rinvenuto n covo di Orta di Atella, in cui venne tratto in arresto COGNOME documento a firma dei due soggetti che maggiormente erano a contatto con lui, quali suoi luogotenenti, cioè COGNOME e NOME COGNOME, quest’ultimo firmatosi «Insigne», con evocazione del noto calciatore di nome NOMECOGNOME
La riferibilità a COGNOME di tale nomignolo è stata ampiamente giustificata dai Giudici di merito, essendosi segnalato come tutti gli elementi convergessero nell’indicare lo stretto collegamento con il capo di NOME COGNOME e come per contro non fossero noti altri soggetti che potessero utilizzare il riferimento a NOME COGNOME.
Al rilievo difensivo per cui lo stesso ricorrente era stato raggiunto da misure disciplinari volte ad allontanarlo o a ridimensionarne il ruolo, è stato contrapposto nelle sentenze di merito che in realtà in prosieguo di tempo si era registrato un riavvicinamento anche nei contatti tra il ricorrente e NOME COGNOME
A questo riguardo si è anche osservato che dallo stesso biglietto rinvenuto era venuta in evidenza una consolidata prassi basata sull’utilizzo di analoghe modalità di comunicazione ed inoltre è stata richiamata la circostanza in cui COGNOME aveva ricevuto una lettera proveniente da COGNOME (conv. 8562, pag. 24 della sentenza impugnata).
A fronte di ciò il primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME risult generico e reiterativo e sviluppa deduzioni difensive in una prospettiva di merito, senza individuare vizi del ragionamento della sentenza impugnata con riguardo alla rilevanza delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME all’esercizio del metodo mafioso, alla rilevanza dei profili e degli episodi valorizzati a tal fine nell conformi sentenze di merito, all’attribuibilità del biglietto a firma «COGNOME».
Analoghi rilievi devono formularsi anche con riguardo al primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME in relazione al diretto coinvolgimento nel clan di NOME COGNOME, ivi formulandosi assertive contestazioni in ordine all’episodio COGNOME, alla vicenda COGNOME, al biglietto rinvenuto nel covo COGNOME.
Né può affermarsi che il ruolo del ricorrente all’interno del clan sia stato desunto solo da elementi inerenti al suo coinvolgimento nel settore degli stupefacenti: il quadro probatorio valorizzato in realtà consente di rilevare come i Giudici di merito abbiano da un lato definito l’operatività del clan Marino e dall’altro abbiano rilevato la dipendenza da esso dell’organizzazione dedita al traffico di stupefacenti nel comparto delle Case Celesti, osservando che il ricorrente, attivo in tale settore, era comunque strettamente in contatto con il capo del clan e con gli altri componenti di esso, avendo direttamente contributo alla sua azione e al mantenimento della sua sfera di influenza.
Deve aggiungersi che il primo Giudice ha fra l’altro posto in evidenza come il ricorrente, al manifestarsi di segnali di crisi del clan, dopo l’arresto di NOME COGNOME e la confessione di NOME COGNOME avesse avvertito il rischio della formazione di fazioni interne al clan e tuttavia avesse tenuto a ribadire con forza la propria fedeltà «alla famiglia COGNOME» (pag. 70 della sentenza di primo grado), manifestazione eloquente di solidarietà camorristica.
Il secondo motivo dei ricorsi presentati dai due difensori di NOME COGNOME concerne il tema della posizione apicale attribuita al ricorrente ed è parimenti inammissibile, in quanto ancora una volta funzionale alla prospettazione
di una diversa valutazione di merito, non ancorata all’individuazione di vizi deducibili in sede di legittimità, e comunque formulato in termini aspecifici e manifestamente infondati.
Deve al riguardo osservarsi·che, secondo i Giudici di merito, il ricorrente ha svolto di fatto funzioni apicali, anche se, formalmente, il capo NOME COGNOME, prendendo atto dei modi irruenti e sgarbati di COGNOME, invisi ad altri sodali, aveva designato formalmente COGNOME come suo luogotenente, nella fase della sua latitanza.
Tuttavia, sulla base del concreto esame del compendio probatorio nelle sentenze di merito si è segnalato come NOME COGNOME avesse continuato ad assumere, di fatto, un ruolo di primario rilievo, tanto da poter esercitare poteri disciplinari e da vedersi contestato da COGNOME, in una circostanza, il mancato esercizio di quei poteri (pag. 25 della sentenza impugnata), elemento certamente idoneo ad attestare una posizione di supremazia, peraltro suffragata dal rapporto epistolare con COGNOME, gestito dal ricorrente e da COGNOME come confermato dal biglietto a firma «Insigne».
Il ruolo di fatto svolto era tale da riverberarsi sulla gestione del traffico stupefacenti, nella piazza di spaccio costituita dal comparto INDIRIZZO dovendosi sul punto osservare come nella sentenza impugnata si dia rilievo al fatto che il ricorrente conseguisse utili in misura superiore ad altri (cfr. anche pag. 145 della sentenza di primo grado), interloquisse alla pari con COGNOME, desse direttive in ordine ai luoghi di spaccio (cfr. anche pag. 131 della sentenza di primo grado) o alla sostituzione dei pusher all’interno del sottoscala, concludesse o disponesse operazioni di rifornimento (cfr. anche pag. 151 della sentenza di primo grado), risultando comunque aggiornato su tutto.
Tale ricostruzione si sottrae alle assertive contestazioni formulate nei motivi di ricorso, inidonei a vulnerarla sulla base di un diverso approccio valutativo e comunque manifestamente infondati.
Il terzo motivo del ricorso a firma dell’Avv. NOME COGNOME è manifestamente infondato.
Si contesta la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. segnalandosi l’indebito riferimento all’uso del metodo mafioso e alla desumibilità della finalità di agevolazione del clan da tale metodo, contestandosi inoltre la cosciente ed univoca finalità agevolatrice e deducendosi infine l’incompatibilità dell’aggravante con la contestazione dell’intraneità al clan.
Va in realtà rimarcato come la Corte abbia sul punto rilevato che il traffico di stupefacenti era garantito dalla forza del clan e che peraltro a quest’ultimo erano devoluti in misura cospicua i ricavi: di ciò era ben a conoscenza il ricorrente,
(
membro di rilievo del clan, risultando tutt’altro che illogica la conclusione che egl agisse con la finalità di agevolare l’operatività del clan nel suo insieme, tanto più alla luce della sua posizione all’interno di esso e della vicinanza al capo.
Deve peraltro ribadirsi che egli era certamente consapevole della finalità· perseguita da coloro che concorrevano con lui nel traffico di stupefacenti, dovendosi peraltro escludere, secondo quanto già rilevato (cfr. retro, sub 5.2 del «Considerato in diritto»), qualsivoglia incompatibilità dell’aggravante riferita a capo B), con la contestazione al capo A) del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
I ricorsi presentati nell’interesse di NOME COGNOME e di NOME COGNOME sono inammissibili.
11.1. Quanto alla posizione di Sanges, si rileva che il predetto ha concordato la pena in sede di appello: la doglianza proposta, inerente al quantum di pena imputabile a titolo di continuazione risulta dunque assorbita dal consenso prestato alla determinazione di una pena che non può dirsi né illegale né comunque illegittima per violazione di criteri di calcolo (sul punto si rinvia, da un lato, pe limitazione dell’impugnazione al risultato finale, in quanto correlato a pena illegale, a Sez. 3, n. 15801 del 01/04/2025, Admi, Rv. 287834 – 01, e a Sez. 5, n. 7399 del 12/12/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287632 – 01; e, dall’altro, per la possibilità di impugnazione in caso di pena illegittima per errore di calcolo nei passaggi intermedi, a Sez. 1, n. 14325 del 01/04/2025, COGNOME COGNOME, Rv. 287879 – 01).
11.2. Relativamente alla posizione di COGNOME viene censurato il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati giudicati in questa sede e quelli oggetto di separata sentenza, divenuta irrevocabile il 22 agosto 2020.
Va tuttavia rilevato che sul tema si era pronunciato il primo Giudice e che il relativo motivo di appello aveva formato oggetto di rinuncia nel corso del giudizio di appello, ciò di cui la Corte territoriale ha dato atto, senza che su tale specific profilo sia stata formulata alcuna doglianza, cosicché il motivo deve ritenersi in questa sede non consentito.
E’ inammissibile il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME.
12.1. Il primo motivo è reiterativo e volto a sollecitare una diversa lettura del compendio probatorio, discendente soprattutto dalle conversazioni intercettate, e si risolve nella prospettazione di un’alternativa valutazione inerente al merito, non consentita in sede di legittimità.
Deve in primo luogo rilevarsi che il giudizio circa l’intraneità del ricorrente a clan è stato formulato sulla base di plurimi elementi, correlati a due profil essenziali: la circostanza che egli avesse lungamente curato la latitanza di NOME
COGNOME, organo di vertice della consorteria, e che, in ragione dell’attività commerciale facente capo al ricorrente e al padre, il ricorrente avesse svolto funzioni di tesoriere per conto degli esponenti di vertice del clan, a cominciare da NOME COGNOME, acquisendo denaro, gioielli e beni di pertinenza dei predetti, quali organi apicali del clan, in modo da facilitarne l’occultamento e scongiurare il rischio di misure ablative, anche se in prosieguo di tempo, in conseguenza di una situazione di crisi personale, egli si era appropriato di quelle ricchezze entrando in conflitto con gli esponenti del clan, fino a quando era stato in grado di restituire progressivamente, almeno in parte, i valori sottratti.
La prolungata attività di gestione della latitanza, tale da consentire al vertice del clan di sottrarsi alla cattura e di continuare a gestire il clan, non avrebbe potuto considerarsi alla stregua di un mero favoreggiamento personale, sia perché protratta nel tempo in concomitanza con l’operatività del clan sia perché strettamente connessa a tale operatività propiziata dalla funzione di comando svolta da COGNOME.
D’altro canto, l’ulteriore profilo della veste di cassiere/tesoriere costituiva sua volta un tassello fondamentale per la vita del clan e dei suoi organi di vertice e dunque un contributo dinamico alla sua capacità di conservazione e tutela dei profitti, non riducibile a mera statica ricezione di beni aventi provenienza delittuosa.
12.2. A fronte di ciò il motivo di ricorso indugia nella deduzione di una diversa interpretazione delle conversazioni intercettate e nella prospettazione dell’assenza di uno stabile contributo alla vita e alla conservazione della consorteria, senza misurarsi con il significato effettivo delle condotte accertate, così come valutato non illogicamente dai Giudici di merito.
Deve del resto aggiungersi che, secondo quanto posto in evidenza dal primo Giudice, COGNOME interloquiva con NOME COGNOME su questioni rilevanti inerenti alla vita del clan e, nella fase in cui stava procedendo alla restituzione de valori di cui s’era appropriato, aveva come referente NOME COGNOME cui erogava somme da ripartire per quote tra i componenti del direttorio.
In tale quadro è stato sottolineato come NOME COGNOME temesse che NOME COGNOME potesse non operare una ripartizione equa e come nel contempo COGNOME, per propiziare un atteggiamento accomodante di NOME COGNOME avesse assicurato a costei una somma aggiuntiva, peraltro confidando nell’ulteriore fiducia da parte del capo, nei cui confronti si dichiarava disponibile sacrificare la sua vita (cfr. pag. 114 della sentenza di primo grado).
Si tratta di elementi che convergono nel senso di dar conto del ruolo dinamico svolto dal ricorrente, ben oltre i limiti di un concorso esterno, e della piena condivisione da parte sua delle logiche del clan, a cominciare dal rispetto per il
capo, pur in una situazione critica legata al suo pregresso grave tradimento della fiducia in lui riposta dagli organi della consorteria.
Il secondo motivo, concernente l’aggravante dell’associazione armata, è · inammissibile, perché il ricorrente non ha in alcun modo attestato di aver proposto quel tema nel giudizio di appello, lamentando una corrispondente mancata valutazione di uno specifico motivo. Va peraltro rimarcato che l’intera motivazione delle sentenze di merito consente di rilevare come fosse consolidata e diffusa la consapevolezza degli intranei di poter disporre di armi, come in concreto confermato non solo dai pregressi fatti di sangue ma anche da più recenti conversazioni concernenti la disponibilità di armi, compreso il riferimento contenuto nel biglietto inviato da COGNOME e NOME COGNOME a COGNOME in cui si faceva riferimento a «38», intesa come arma.
Il terzo motivo relativo al trattamento sanzionatorio è inammissibile, perché volto a sollecitare un diverso giudizio di merito in assenza di profili di arbitrarietà della valutazione della Corte territoriale e del primo Giudice.
Ed invero la pena base è stata determinata sulla base del ruolo di partecipe in associazione armata, nel quadro della pena autonomamente prevista, mentre il diniego delle attenuanti generiche si è non illogicamente fondato sulla consistenza della condotta del ricorrente, che aveva avuto una funzione rilevante e la cui partecipazione si era protratta nel tempo, a prescindere dalla pregressa incensuratezza.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME è infondato.
Si assume che le condotte del ricorrente non fossero volte ad agevolare il clan, in tal senso deponendo la circostanza che il predetto non era organicamente inserito nella consorteria.
Sul punto va rimarcato come, al di là del fatto che la Corte valorizza anche la dipendenza dal metodo mafioso riconducibile al clan e in un ambiguo passaggio, all’inizio di pagina 33, sembra prospettare che il ricorrente fosse associato, tuttavia debba prendersi atto che la motivazione di seguito esposta nella sentenza impugnata sia idonea a giustificare l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., in quanto, in primo luogo, nel passaggio decisivo muove dal corretto presupposto che NOME COGNOME non partecipava al contesto associativo e, in secondo luogo, dà non illogicamente rilievo al fatto che il ricorrente è fratello di un esponente di rilievo del clan, cioè NOME COGNOME, e al fatto che il contributo da lui fornito attraverso la condotta di detenzione, preparazione e custodia dello stupefacente, era correlato a quello di soggetti come COGNOME NOME e
COGNOME, inseriti nel sodalizio dedito al narcotraffico, strettamente collegato al clan, e pienamente a conoscenza delle dinamiche operative che presupponevano una
gestione dell’attività di spaccio sotto l’egida del clan, cui erano destinati in var guisa i ricavi.
A tali elementi, di per sé idonei a legittimare l’estensione dell’aggravante al ricorrente, dovendosi ritenere che, quand’anche non avesse avuto di mira
l’agevolazione del clan, egli era comunque consapevole della finalità perseguita dai concorrenti nel reato (secondo l’insegnamento di Sez. U n. n. 8545 del
19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734 – 01, cit.), la Corte territoriale ha aggiunto che vi era traccia di tale consapevolezza nelle conversazioni intercettate,
dalle quali risulta che egli agiva anche come intermediario di «imbasciate»
ricevute: si tratta di un quadro argomentativo che il motivo di ricorso non confuta, risultando dunque infondato.
16. In conclusione, il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato con condanna del predetto al pagamento delle spese processuali.
I ricorsi di NOME COGNOME, di NOME COGNOME, di NOME COGNOME, di NOME COGNOME e di NOME COGNOME devono essere dichiarati inammissibili con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell’inammissibilità, a quello della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso di COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Gaetano, COGNOME NOME e COGNOME NOME, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso 1’8 maggio 2025