Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7086 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7086 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a NAPOLI il 03/03/1975
avverso la sentenza del 15/01/2024 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per l’imputata l’avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Napoli, in funzione di giudice del rinvio a seguito dell’annullamento della decisione assunta nel precedente giudizio d’appello, ha confermato la condanna di COGNOME NOME, pronunziata a seguito di giudizio abbreviato, per il reato di associazione a delinquere di tipo camorristico.
In particolare, per come ritenuto nelle diverse sentenze di merito succedutesi nel corso della vicenda processuale, è stata ritenuta l’intranietà dell’imputata al clan COGNOME, storica famiglia camorrista da tempo presente nel rione partenopeo della Sanità, guidata da NOME COGNOME, marito della COGNOME.
Nell’annullare con rinvio la precedente sentenza d’appello, la Prima Sezione di questa Corte ha ritenuto fondata ed assorbente l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni il cui contenuto è stato ritenuto dimostrare la responsabilità dell’imputata, in quanto il decreto autorizzativo era stato adottato sulla base dei presupposti previsti dall’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, pur non riguardando l’attività captativa un reato di “criminalità organizzata”, posto che le indagini, contro ignoti, inerivano a un omicidio e connessi reati in armi aggravati ai sensi dell’art. 7 del decreto citato. In tal senso il giudice di legittim contrariamente a quanto sostenuto dal giudice del merito ed alla luce dei principi espressi dalle sentenze delle Sezioni Unite COGNOME, COGNOME e COGNOME affermava che per delitti di “criminalità organizzata” devono intendersi tutti i reati di tipo associativo, anch comuni, correlati ad attività criminose più diverse, con esclusione delle ipotesi di mero concorso nei reati commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolarne l’attività.
Conseguentemente la Prima Sezione disponeva il rinvio alla Corte d’appello di Napoli al fine di verificare, in primo luogo, se il decreto autorizzativo avesse ad oggetto un reato di “criminalità organizzata” secondo la ricostruzione della relativa nozione fornita in sede rescindente ovvero, in caso di risposta negativa, se fosse possibile reputare adeguatamente motivato il citato decreto autorizzativo in riferimento ai diversi presupposti richiesti dagli artt. 266 e 267 c.p.p. ai fini dell’autorizzazione dell’indagi tecnica.
Il giudice del rinvio, dopo aver richiamato gli orientamenti giurisprudenziali in merito alle deroghe che l’obbligo di conformarsi ai principi enunciati in sede rescindente subisce in caso di modifica legislativa intervenuta dopo la sentenza di annullamento, ha focalizzato la sua attenzione sull’incidenza che l’intervento normativo contenuto nell’art. 1 d.l. 10 agosto 2023, n. 105 ha esercitato sulla disciplina speciale dei presupposti e delle modalità esecutive delle intercettazioni disposte nei procedimenti riguardanti delitti di “criminalità organizzata”, contenuta nell’art. 13 del citato d.l. n. 152 del 1991. Ed in ta senso, con specifico riferimento all’interpolazione di quest’ultima disposizione ad oggetto i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ha ritenuto che
l’intervento normativo, conforme all’interpretazione che della suddetta disposizione aveva fornito il giudice di primo grado, abbia mera natura di interpretazione autentica, trovando dunque applicazione anche nei procedimenti in corso. Muovendo da tali considerazioni, il giudice del rinvio ha dunque confermato l’utilizzabilità nel presente procedimento delle intercettazioni disposte nel corso delle indagini e la loro valutabilità a sostegno della prova della responsabilità dell’imputata.
Avverso la sentenza propone ricorso l’imputata articolando quattro motivi.
2.1 Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione di legge e vizi di motivazione in riferimento alla ritenuta utilizzabilità delle intercettazioni eseguite presso l’abitazio della Staterini.
2.1.1 In via preliminare, si osserva che il giudice del rinvio non avrebbe risposto ai precisi e puntuali rilievi formulati con la sentenza rescindente in merito all’utilizzabilità de intercettazioni, preferendo, invece, giungere ad un’affermazione di correttezza della interpretazione formulata dal giudice di primo grado sulla base esclusivamente della qualificazione dell’art. 1 comma 1 d.l. 105 del 2023 come norma di interpretazione autentica. Ne deriva, seconda la difesa, che, qualora questa Corte non dovesse condividere l’interpretazione sostenuta nella pronuncia impugnata, dichiarando, al contrario, di aderire alla tesi della natura innovativa della norma in esame, la tenuta della motivazione della sentenza verrebbe meno, data l’assenza nel giudizio rescissorio di ulteriori considerazioni in grado di giustificare la ritenuta utilizzabilità d intercettazioni.
2.1.2 Venendo al merito delle doglianze, la ricorrente eccepisce che, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata e nell’arresto di legittimità evocato dai giudici del merito, la disposizione da ultima citata avrebbe invece natura innovativa del sistema. In proposito si osserva anzitutto come la disciplina introdotta dal legislatore dei requisit formali tipici delle norme di interpretazione autentica, come disciplinati dal paragrafo n. 3 lett. I) della circolare del 2001 sulla formulazione tecnica dei testi legislativi de Presidenza della Camera dei Deputati.
Alle medesime conclusioni, prosegue il ricorso, si giunge analizzando le relazioni e i pareri assunti nel corso dei lavori preparatori della legge di conversione del decreto, dai quali non emergerebbero elementi a sostegno del carattere interpretativo della norma. In particolare, si sottolinea come il Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati, nel proprio parere, avesse sollecitato il legislatore a chiarire la natura della norma in esame, dal momento che alla stessa non erano stati conferiti i crismi tipici delle norme di interpretazione autentica. Pertanto, ad avviso della difesa, il mancato recepimento da parte dello stesso legislatore delle descritte sollecitazioni deve essere letta come un inequivocabile segno della volontà legislativa di introdurre una disposizione di natura squisitamente innovativa.
Tale conclusione troverebbe, altresì, conferma nel fatto che tra i delitti a cui il decreto i parola estende la disciplina speciale in tema di intercettazione viene menzionato anche quello di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., introdotto in epoca successiva all’avvento del d.l. n. 152 del 1991. Un intervento in tal senso, si precisa, non si concilierebbe con i principi dettati dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale, secondo la quale si avrebbe una norma di interpretazione autentica solo se la disposizione a cui si vuole conferire tale carattere sia compatibile con l’originario assetto normativo della norma in cui era inserita la disposizione che si ritiene essere stata interpretata. Tale argomento non sarebbe superabile nemmeno aderendo alla tesi della Corte territoriale secondo cui ben è possibile che una disposizione di legge contenga una pluralità di norme di diversa natura, alcune interpretative e altre innovative, in quanto, avverte la ricorrente, le norme di natura innovativa dovrebbero essere disciplinate separatamente dalle altre, non potendosi ritenere che un medesimo comma sia composto da due parti di segno opposto.
Ancora, si evidenzia come la tesi della interpretazione autentica non trovi una giustificazione nella volontà del legislatore di risolvere un contrasto giurisprudenziale sul concreto perimetro applicativo della disciplina dell’art. 13 d.l. 152 del 1991, dal momento che le già richiamate sentenze delle Sezioni Unite sarebbero già univoche e concordi nell’escludere che i reati in cui è solamente contestata l’aggravante di cui all’art. 7 dell stesso decreto rientrino nella definizione di delitti di “criminalità organizzata”.
Infine, la stessa previsione di una norma transitoria che proietta retroattivamente l’applicazione della novella sarebbe logicamente incompatibile con la affermata intenzione del legislatore di fornire la mera interpretazione autentica della norma speciale.
2.1.3 In via subordinata, la ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art comma 1 d.l. n. 105 del 2023 sotto un duplice profilo. In primo luogo, si rileva la violazione dell’art. 77 comma 2 Cost. per l’eterogeneità e la mancanza di intrinseca coerenza delle materie trattate nel decreto-legge. In secondo luogo, si eccepisce l’incompatibilità con l’assetto costituzionale del diritto vivente che ha attribuito alla norm censurata la natura di legge di interpretazione autentica, in quanto ritenuto lesivo dei diritti fondamentali della persona sanciti negli artt. 3, 13, 15, 117 Cost, e art. 8 CEDU.
2.2 Con il secondo motivo, la ricorrente deduce violazione di legge e vizi di motivazione in riferimento alla idoneità del compendio probatorio a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la condotta di partecipazione della COGNOME all’associazione camorristica di cui all’imputazione.
2.2.1 In tal senso, la difesa lamenta che il giudice del rinvio non avrebbe condotto un penetrante e rigoroso accertamento sull’effettiva appartenenza dell’imputata all’associazione criminosa, omettendo di prestare adeguata rilevanza al legame di coniugio tra la donna e il COGNOME, il quale giustificherebbe la presenza della prima nell’abitazione del capo clan, la sua partecipazione alle conversazioni con quest’ultimo e
la conoscenza di determinate dinamiche che avvenivano sotto la sua diretta percezione. Proprio in ragione di tale vincolo familiare, la difesa rileva che, in ossequio ai princip dettati dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice del rinvio avrebbe dovuto apprezzare, tra le condotte poste in essere dall’imputata, solo quelle estranee al contesto e alle dinamiche familiari effettivamente rivelatrici di un concreto e consapevole contributo apportato alla vita della consorteria mafiosa.
Al contrario, sostiene la difesa, il giudice del rinvio ha attribuito valore probator esclusivamente agli elementi ricavabili da sole tre intercettazioni relative a conversazioni intervenute nel ridotto arco temporale di tre giorni, incorrendo così in una motivazione illogica e contradditoria anche per travisamento del loro contenuto. In particolare, si lamenta che il parametro di valutazione delle dichiarazioni impiegato dalla Corte, basato sulla distinzione tra l’utilizzo consapevole da parte dell’imputata della prima persona plurale per attestare il suo contributo nella specifica vicenda e della terza persona singolare per riferirsi, invece, alle condotte tenute dal solo marito, sconti una profonda illogicità intrinseca e sia scarsamente dimostrativo della concreta realizzazione di comportamenti attivi nell’ambito del sodalizio, specialmente se si considera che la COGNOME appartiene allo stretto nucleo familiare del COGNOME e che il diffuso ricorso all prima persona plurale è una caratteristica propria del dialetto napoletano.
2.2.2 Con specifico riferimento alla intercettazione n.757 del 27 gennaio 2016, la difesa individua un ulteriore profilo di contraddittorietà intratestuale nel fatto che la Cort nell’attribuire all’imputata un ruolo centrale nelle attività dirette al dominio del clan territorio del rione Sanità, avrebbe omesso di valutare un passaggio della conversazione intercettata, il cui contenuto, volendo prestare adesione al parametro valutativo sopra descritto, avrebbe dovuto condurre la sentenza impugnata ad affermare la totale estraneità della COGNOME dalle vicende dell’associazione. In particolare, l’imputata, utilizzando con il suo interlocutore la terza persona singolare, attribuisce al solo marito la paternità delle azioni dirette a riacquisire il dominio territoriale, chiarendo, inoltre, la sua ferma opposizione rispetto alla eventuale scelta di lasciare il quartiere non fosse dipesa da logiche di predominio sul territorio del sodalizio, ma fosse giustificata dalla volontà di proteggere il proprio nucleo familiare e dalla paura che l’allontanamento avrebbe esposto la famiglia al rischio di attentati o che il coniuge venisse “venduto” alle forze dell’ordine.
Sotto altro profilo il ricorso eccepisce l’omessa considerazione del narrato del collaborante COGNOME NOME, “braccio destro” del marito e del figlio della COGNOME, i quale, come riportato nei motivi d’appello, aveva escluso la configurabilità in capo all’imputata di un qualsivoglia ruolo attivo nella consorteria criminale.
2.2.3 Ancora, i medesimi vizi sono lamentati anche in riferimento alla conversazione n. 1153 del 30 gennaio 2016, nella quale la COGNOME sollecita l’esigenza di reagire nei
confronti di soggetti che stanno chiedendo senza autorizzazione tangenti a nome della famiglia.
In particolare, il ricorso censura il valore probatorio attribuito dal giudice del rinvio forma plurale adoperata dall’imputata durante la conversazione, evidenziando come l’uso della prima persona plurale per riferirsi ai “COGNOME” fosse esclusivamente finalizzato ad evocare il cognome della sua famiglia e non per qualificare sé stessa come membro del clan.
Questo rilievo, ad avviso della difesa, troverebbe un ulteriore sostegno nel fatto che le dichiarazioni rese dall’imputata nel corso dell’intera conversazione non sono espressive, come invece sostenuto nella sentenza impugnata, di una volontà di far conseguire un risultato positivo all’associazione, ma sarebbero, al contrario e nuovamente, indicative di un comportamento teso a preservare il marito dal possibile intervento degli inquirenti. 2.2.4 Ulteriori profili di censura vengono rilevati in riferimento alla conversazione n. 1235 del 31 gennaio 2016, ad oggetto l’asserita partecipazione dell’imputata all’attività di consegna di sostanze stupefacenti per conto del clan. In primo luogo, si lamenta che la Corte territoriale, nel desumere la prova della condotta della COGNOME solo sulla base della conversazione intercettata, sarebbe incorsa in un travisamento del suo contenuto, dal momento che nessun passaggio della conversazione consentirebbe di attribuire un effettivo ruolo dell’imputata nella trattativa per la cessione dello stupefacente. In secondo luogo, l’insufficienza del quadro indiziario a carico dell’imputata emergerebbe anche dalla mancata individuazione da parte del giudice del rinvio di ulteriori elementi idonei a corroborare l’ipotesi che la isolata condotta di spaccio sia indicativa dell’effettiv assunzione di un ruolo dinamico-funzionale nell’ambito operativo del sodalizio. Questo rilievo, sottolinea la difesa, acquista maggior vigore se si considera che la stessa sentenza impugnata contiene un elemento di contraddittorietà intratestuale, nel punto in cui si afferma che solo “all’occorrenza” l’imputata si prestava all’attività di consegna di sostanze stupefacenti. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2.5 Ancora, nessun valore indiziario della stabile adesione dell’imputata nell’associazione si ricaverebbe dal contenuto della già menzionata intercettazione n.775 relativa al presunto suo ruolo di intermediaria degli affiliati nella trasmissione de messaggi destinati al marito, in quanto il giudice del rinvio avrebbe omesso di considerare i profili di intrinseca contraddittorietà contenuti nella richiamata sentenza d’appello annullata, la quale, pur sostenendo che la mera disponibilità manifestata nel fare da tramite con gli affiliati fosse indice di una adesione al programma criminoso, non ha escluso che il compito di consegnare le cd. “imbasciate” fosse legata a motivi di natura familiare e di tutela del coniuge, né tantomeno ha provato che l’imputata abbia concretamente provveduto alla consegna dei messaggi.
2.2.6 Un ultimo elemento di contraddittorietà e manifesta illogicità della decisione impugnata viene individuato nel fatto che il giudice del rinvio, aderendo alla tesi del
giudice di primo grado secondo la quale il contenuto di una ulteriore intercettazione (la n. 1584 del 6 febbraio 2016) consentirebbe di escludere un ruolo della Staterini nella gestione delle c.d. “mesate” degli affiliati ed avendo così escluso l’unica condotta indicativa di un effettivamente riconoscibile ruolo associativo, sarebbe dovuto pervenire ad un epilogo assolutorio per la ricorrente, non potendo ritenere, per le ragioni già indicate, gli elementi desumibili dalle sole tre residue conversazioni sufficienti a fondare la responsabilità dell’imputata per il reato oggetto di contestazione.
2.3 Con il terzo motivo, la ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in riferimento alla mancata riqualificazione giuridica del fatt contestato sotto il titolo del concorso esterno in associazione mafiosa o del favoreggiamento. In particolare, si denuncia che il giudice del rinvio nel rigettare il motivo di appello formulato al riguardo non avrebbe tenuto in debito conto una serie di elementi contrastanti con la struttura oggettiva e soggettiva del reato di cui all’art. 416-bis c.p quali l’ambito familiare in cui si sono esaurite le condotte dell’imputata, consistenti nel solo sostegno ai singoli associati, l’assenza di contestazione di reati-fine e, da ultimo, i fatto che la ricorrente era intervenuta solo in situazioni di particolare tensione, in cu prevaleva il forte timore per la libertà personale o per l’incolumità del marito.
2.4 Con l’ultimo motivo, il ricorso deduce vizi di motivazione in ordine al denegato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti.
Il primo motivo è nel suo complesso infondato e per certi versi manifestamente infondato.
2.1 Prioritaria, in ordine logico, è l’esame della questione di legittimità costituzionale d d.l. n. 105 del 2023 sotto il profilo della violazione dell’art. 77 co. 2 Cost. per difett omogeneità e di intrinseca coerenza delle materie trattate nel suddetto decreto, nonché per la mancanza di una situazione di fatto comune comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite lo strumento del decreto-legge. La questione sollevata dalla difesa è manifestamente infondata.
In primo luogo, è opportuno ripercorrere i criteri dettati dalla giurisprudenza costituzionale circa i limiti entro i quali il giudice può esercitare un sindacato sul decret legge, i quali non sono funzionali solamente al rispetto degli equilibri fondamentali della forma di governo, ma valgono anche a scoraggiare un modo di legiferare caotico e disorganico che pregiudica la certezza del diritto.
Come evidenziato anche di recente dalla Corte costituzionale (sentenza n. 146 del 2024 e sentenza n.29 del 1195) «la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale,
quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell’adozione del predetto atto, di modo che l’eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fu dell’ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione . Pertanto, non esiste alcuna preclusione affinché la Corte costituzionale proceda all’esame del decreto-legge e/o della legge di conversione sotto il profilo del rispetto dei requisiti di validità costituzionale relativ preesistenza dei presupposti di necessità e urgenza». Nel sindacato devoluto all’interprete, inoltre, un ruolo cruciale compete al requisito dell’omogeneità, che si atteggia come «uno degli indici idonei a rivelare la sussistenza (o, in sua assenza, il difetto) delle condizioni di validità del provvedimento governativo» (Corte Cost. sentenza n. 151 del 2023). La «evidente estraneità della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita» assurge, pertanto, a indice sintomatico della manifesta carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza (Corte Cost. sentenza n. 22 del 2012). L’osservanza delle prescrizioni dell’art. 77 Cost. impone, quindi, «una intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. L’urgente necessità del provvedere può riguardare, cioè, una pluralità di norme accomunate o dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione» (Corte Cost. sentenza n. 8 del 2022).
Dunque, il requisito dell’omogeneità, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, non presuppone che il decreto-legge riguardi esclusivamente una determinata e circoscritta materia, ma che le sue disposizioni, pur se eterogenee dal punto di vista materiale, siano accomunate da una finalità comune e presentino un’intrinseca coerenza dal punto di vista funzionale. Ne consegue, che per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, quel che rileva è il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante nell’intervento normativo d’urgenza.
Nel caso di specie, è evidente come, nonostante l’eterogeneità delle materie trattate, il decreto in esame si giustifica nel suo nucleo più rilevante in ragione della ritenuta necessità ed urgenza di interventi migliorativi dell’efficienza e celerità del processo penale e di quello civile – e dunque del servizio giustizia nel suo complesso considerato – in relazione ad alcune criticità rilevate. In particolare, questa ratio legis emerge nitidamente se si esaminano i primi punti del preambolo del decreto dove vengono configurate le finalità principali perseguite dall’intervento normativo: l’obiettivo introdurre disposizioni in materia di processo penale per consentire il suo efficace svolgimento rispetto ad alcune tipologie delittuose e per rendere efficiente e sicura
l’attività di intercettazione; l’obiettivo di garantire i più alti standard di cap investigativa rispetto a fattispecie di reato di particolare gravità e, nel contempo assicurare elevati ed uniformi livelli di sicurezza, aggiornamento tecnologico, efficienza, economicità e capacità di risparmio energetico dei sistemi informativi funzionali alle attività di intercettazione eseguite dagli uffici del pubblico ministero; infine, l’intent garantire un più celere svolgimento dei procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni, nel rispetto compiuto dei diritti.
Peraltro, l’omogenea finalità alla base dell’intervento normativo non è in alcun modo intaccata dalla eventuale presenza nel testo del decreto in esame di cd. “norme intruse”, dal momento che solo quest’ultime, ispirate a tutt’altra finalità rispetto a quella elett come prioritaria dal testo legislativo, travalicano i limiti imposti alla funzione normati del Governo, sacrificando il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo. Come sostenuto dall’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale, le “norme intruse”, nel testo di un decreto-legge, contraddistinte da contenuti che non possono più essere ricondotti ad una finalità unitaria, sia pure largamente intesa, danno luogo ad una legislazione frammentata, spesso incoerente, di problematica interpretazione, che aggrava il fenomeno dell’incertezza del diritto e reca così pregiudizio sia all’effettiv godimento dei diritti che all’ordinato sviluppo dell’economia. Tuttavia, la presenza nel decreto di norme intruse non inficia la legittimità dell’intero testo normativo, ma impone al giudice di verificare la compatibilità costituzionale solo di quelle norme non riconducibil all’omogeneo obiettivo perseguito dal legislatore.
Alla luce dei principi evocati, la questione di legittimità costituzionale relati all’incompatibilità tra il decreto-legge in esame e l’art. 77 Cost. deve essere dunque ritenuta inammissibile, in quanto fondata su argomenti generici (posto che il ricorrente non evidenzia per quali ragioni sarebbe la disposizione impugnata e non quelle estranee alla finalità principale del decreto, per come sopra enucleata, a dover essere qualificata come eccentrica rispetto agli scopi dell’intervento normativo) e non in linea con i parametri delineati dalla giurisprudenza costituzionale.
2.2 Venendo ora all’esame della questione posta in via principale con il motivo in esame, si chiede a questa Corte di verificare se l’intervento legislativo formulato nel già citat art. 1 d.l. 105 del 2023 abbia carattere innovativo rispetto al preesistente dato normativo, ovvero si tratti di disposizione avente contenuto interpretativo del medesimo. Sono evidenti le conseguenze che discendono da tale differente inquadramento della norma: ove essa possieda carattere meramente interpretativo la sua funzione sarebbe quella di mera precisazione del contenuto che la norma aveva sin dall’origine e, per questa ragione, sarebbe dotata di efficacia lato sensu retroattiva; se, al contrario, debba concludersi per la natura innovativa della disposizione, opererebbero gli ordinari criteri di efficacia nel tempo della legge – e in particolare delle norme processuali – valendo esse solo per l’avvenire.
Il Collegio, ritenendo non decisivi gli argomenti spesi dalla difesa al fine di smentire la posizione assunta dal giudice del rinvio, intende aderire alla tesi della natura interpretativa della norma censurata, condividendo il percorso argomentativo già tracciato in tal senso da Sez. 2, n. 47643 del 28/09/2023, Putignano, Rv. 285524.
In via preliminare, va ribadito, come ricordato dal giudice delle leggi, che la funzione propria della norma interpretativa è quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta d legislatore (Corte Cost. sentenze n. 163 del 1991 e 413 del 1988).
2.2.1 Passando ora all’analisi degli indici di novità evidenziati nel ricorso, non persuade il primo argomento speso dalla difesa legato all’asserita carenza nella norma censurata dei requisiti formali tipici delle norme di interpretazione autentica e al mancato recepimento da parte del legislatore delle sollecitazioni alla modifica della disposizione in oggetto emergenti dagli atti parlamentari.
Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale è consolidata nel ritenere che il carattere interpretativo di una norma discenda «non già dalla qualificazione che tali leggi danno di sé stesse», ma da ulteriori fattori considerati unitariamente, quali la volontà legislativa alla base dell’intervento, l’esistenza di difformità interpretative all’interno de giurisprudenza di legittimità, la comparazione tra gli obiettivi originari perseguiti d legislatore del 1991 e quelli presi in considerazione dalla previsione normativa di nuovo conio (Corte cost., sentenza n. 311 del 2009).
Ne consegue che l’intervento normativo operato dal d.l. 105 del 2023, pur in assenza di una formale attribuzione del carattere interpretativo della norma, deve essere qualificato in tali termini, in quanto gli intendimenti del legislatore sono delineati nella Relazion illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto. Si legge nella citata Relazione al testo richiamato che obiettivo del legislatore è quello di «realizzare un allineamento di sistema, in quanto relativo ad istituti comuni alle investigazioni in materia di criminalit organizzata», muovendo dalla considerazione dell’inserimento nel catalogo previsto dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. sia dei reati di criminalità organizzata, sia d quelli indicati attraverso la specificazione contenuta nell’art. 1 del decreto legge, il ch «rende irragionevole il disallineamento della disciplina in materia di intercettazioni, determinando la necessità di introdurre senza ritardo la norma in commento, per garantire un’efficace azione di contrasto a gravi forme di criminalità e rendere più organico il sistema processuale, anche in ragione dei numerosi procedimenti in corso in cui si registrano indirizzi non univoci».
Emerge chiaramente, quindi, la volontà legislativa di attribuire alla nozione racchiusa nell’espressione “delitto di criminalità organizzata”, adottata dal legislatore del 1991, un perimetro applicativo ispirato al tratto che accomuna i reati caratterizzati dal legame,
anche solo fattuale, con realtà criminali organizzate e, allo stesso tempo, alla funzionalità dello strumento investigativo delle intercettazioni, in contesti ove la ricerca degli elementi di prova è resa maggiormente difficoltosa dalle caratteristiche dei fenomeni criminali.
Ne consegue che l’art. 1 d.l. n. 105 del 2023, ricomprendendo tra i delitti di criminalità organizzata anche quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività dei consorzi criminali, si colloca in una posizione continuità con quella opzione legislativa, volta a considerare la categoria dei delitti di criminalità organizzata alla luce dei dati convergenti del profilo organizzativo e, al tempo stesso, della particolare gravità di reati che, pur in difetto del carattere organizzato, collocano nell’ambito dei fenomeni criminali in grado di alimentare e supportare lo sviluppo di organizzazioni delinquenziali.
D’altra parte, la necessità e l’urgenza di un intervento di matrice governativa rivolto all’introduzione di una norma di carattere interpretativo trova una sua giustificazione, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso ed in conformità con quanto osservato dalla citata sentenza Putignano, nell’esistenza di una diversità di approcci interpretativi e di una pluralità di letture del testo dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991.
Infatti, la stessa Sez. 1, n. 34895 del 30/03/2022, COGNOME, Rv. 283499, alla quale sostanzialmente il legislatore ha reagito, certifica il permanere di contrasti interpretativ anche successivamente alle Sez. U, Sentenza n. 26889 del 28/04/2016, COGNOME, Rv. 266906, la quale non ha, in realtà, effettivamente escluso la validità della lettura dell’art 13 d.l. n. 152 del 1991 respinta dalla stessa sentenza COGNOME.
Prova ne siano le altrettanto recenti sentenze Sez. 2, n. 25612 del 4/5/2022, Paradiso, non massimata, Sez. 1 n. 17647 del 19/2/2020, COGNOME, Rv. 279185, non massimata sul punto, e Sez. 1, n. 50927 del 19/7/2018, COGNOME, non massimata, le quali evidenziano l’attualità del contrasto interpretativo sopravvissuto alle Sezioni Unite COGNOME.
Contrasto che ha legittimato, attesa la delicatezza della materia, l’intervento d’urgenza dell’esecutivo, il quale ha per l’appunto ribadito quale tra le due possibili interpretazion della norma originaria fosse da ritenersi quella effettivamente aderente alla volontà legislativa.
2.2.2 Ancora, non persuade l’ulteriore doglianza difensiva posta a sostegno del carattere innovativo della disposizione in esame, secondo la quale la natura interpretativa del primo comma dell’art. 1 d.l. n. 105 del 2023 sarebbe inconciliabile tanto con la norma intertemporale di cui al secondo comma, quanto con l’inclusione, tra i delitti a cui il medesimo primo comma estende la disciplina speciale in tema di intercettazione, del delitto di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., introdotto in epoca successiva al d.l. n. 1 del 1991.
In realtà, le citate disposizioni non tradiscono la natura innovativa della norma, ma confermano e suffragano la tesi interpretativa.
Nello specifico, l’affermazione secondo cui le leggi di interpretazione autentica avrebbero natura meramente ricognitiva e non anche dispositiva e innovativa è contraddetta dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale «non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva), ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legg costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost. Pertanto, i legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano dell ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza, dunque, rilevano la funzione di “interpretazione autentica”, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire. In particolare, la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario» (Corte Cost., sentenza n. 257 del 2011).
Assodato, quindi, che, a prescindere dalla collocazione nel medesimo comma, possono convivere nello stesso articolo disposizioni avente carattere interpretativo e innovativo, si può affermare come il disposto dell’art. 1 comma 1 d.l. 105 del 2023 presenti una duplice natura, in quanto la norma, nella parte in cui si riferisce ai reati “commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis de codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”, assume carattere interpretativo dotato di efficacia retroattiva, mentre, nella parte in cui richiama i “delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdeci del codice penale” è dotata di carattere innovativo, la cui ratio si ravvisa nella volontà del legislatore di includere nella nozione di “delitti di criminalità organizzata” un nover di reati che la disposizione originaria non avrebbe potuto riconnprendere data la loro successiva introduzione nell’ordinamento.
Ulteriore conferma del contenuto ibrido dell’art. 1 deriva dal tenore letterale del secondo comma: infatti, a dispetto della tesi che sostiene la sua inutilità e irragionevolezza se associato alla disposizione di contenuto interpretativo di cui al primo comma, la norma transitoria in esame trova, invece, una sua giustificazione logica e una sua ragionevolezza se si ritiene che il legislatore abbia voluto collegarla alla parte innovativa della disposizione, traducendo così l’intento di rendere omogenea la disciplina speciale in
esame anche sotto il profilo intertemporale, garantendo la sua piena applicabilità a tutti i procedimenti in corso.
2.2.3 Da ultimo, va rigettata perché manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale evocata nel ricorso sotto il profilo della compatibilità tr carattere interpretativo della disciplina del d.l. n. 105 del 2023 e i parametri costituzional di cui agli artt. 3, 15 e 117 Cost. in relazione all’art. 8 CEDU. Al riguardo deve essere ricordato che la consolidata giurisprudenza costituzionale ha affermato da tempo che la portata retroattiva della legge, anche delle norme di interpretazione autentica, incontra – al di là dello specifico ambito della materia penale – limiti che attengono alla salvaguardia di norme costituzionali, tra cui rilevano i principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza. In altri termini, occorre valutare se l’intervento legislativo adottat possa risultare confliggente con diritti costituzionalmente garantiti. Il conflitto eventual deve tenere conto dell’altrettanto consolidato orientamento del giudice delle leggi secondo il quale non sussiste alcun vulnus a livello costituzionale quando la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di ril costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale» ai sensi della Convenzione (Corte cost., sentenza n. 78 del 2012).
Nella materia in esame, soccorre ancora una volta l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale. Il diritto all’inviolabilità delle comunicazioni, teso a tutelare la loro li e segretezza, così come ogni altro diritto costituzionalmente protetto, è soggetto a limitazioni purché disposte “per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”; «se così non fosse, “si verificherebbe l’illimitata espansione di un dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridi costituzionalmente riconosciute e protette”. Per questa ragione, la «Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi», nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013). Pertanto, anche il diritto inviolabile protetto dall’art. 15 Cost. può subire limitazioni o restrizioni «in ragio dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, 10 sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia» della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione» (Corte cost., sentenza n. 20 del 24/1/2017). L’interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio gli autori delle condotte criminose, specie in relazione ai reati di maggior allarme sociale e di maggiore complessità quanto al loro accertamento, quali quelli relativi ai procedimenti di criminalità organizzata, rappresenta «interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente inderogabile» (Corte cost., sentenza n.
366 del 1991), sicché la norma interpretativa in esame, nella sua portata retroattiva, non può dirsi né irragionevole né lesiva di valori costituzionalmente protetti.
2.3 Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, si devono dunque rigettare le censure difensive rivolte a sostenere l’inutilizzabilità delle intercettazioni disposte nel corso de indagini e valutate a sostegno del quadro indiziario dalla sentenza impugnata.
3. Colgono parzialmente nel segno, invece, le censure formulate con il secondo motivo. Va anzitutto ribadito che la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si caratterizza per lo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua ‘messa a disposizione’ in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, Rv. 281889).
Sotto altro profilo va invece ricordato che l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione all massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
Nel caso di specie la Corte territoriale ha tratto la prova della partecipazione dell’imputata al clan COGNOME sostanzialmente da tre conversazioni oggetto di intercettazione il cui contenuto è stato ritenuto convergente nel dimostrare il suo organico inserimento nel sodalizio (la cui esistenza ed il cui carattere mafioso non è peraltro oggetto di contestazione da parte della ricorrente).
Alla luce delle coordinate esegetiche precedentemente menzionate e dei limiti entro i quali le critiche mosse dalla ricorrente all’interpretazione fornita dai giudici del merito de compendio indiziario possono essere considerate in questa sede, è dunque necessario valutare la tenuta della motivazione articolata a sostegno di tale interpretazione.
Ed in tal senso deve convenirsi che il ragionamento probatorio sviluppato dalla Corte finisce per risultare meramente assertivo nella misura in cui non tiene conto di alcune circostanze, pure in parte registrate nel corso dello sviluppo motivazionale.
Anzitutto il fatto che tutte le conversazioni che hanno effettivamente fondato nel giudizio di primo grado l’affermazione della responsabilità dell’imputata sarebbero state captate nell’arco di pochi giorni. Aspetto che il giudice dell’appello ha ritenuto implicitamente irrilevante nell’evocare alcune frasi pronunciate dall’imputata e relative al risalente radicamento del clan nel rione Sanità e soprattutto enfatizzando il dato che la stessa, nel ricordare la circostanza, si sia espressa con la prima persona plurale. Tralasciando l’inconsistente e generica obiezione difensiva per cui ciò sarebbe da imputarsi ad una “abitudine” dialettale, è invece tutt’altro irrilevante il contesto nel quale tali frasi state pronunziate, ossia, per come illustrato dalla sentenza impugnata, in un momento
in cui erano insorti non meglio precisati problemi per la stessa incolumità del vertice apicale del clan, ma anche marito della COGNOME.
Posto che oggetto di discussione era la possibilità che il COGNOME si allontanasse per qualche tempo dal rione e che l’imputata ha dimostrata la sua contrarietà a tale soluzione, temendo per l’incolumità del marito ovvero paventando che venisse “venduto” alle forze dell’ordine, risulta per l’appunto del tutto assertiva la negazione da parte della Corte che ella sia intervenuta nella discussione non già perché organicamente inserita nell’associazione – per di più con un ruolo tutt’altro che marginale, come di fatto ritenuto dai giudici del merito – ma a tutela del proprio nucleo familiare e del proprio coniuge o, se si preferisce, anche solo dallo status riflesso derivante dall’attività criminale quest’ultimo.
Non è in dubbio, in ragione di quanto esposto in sentenza, che la COGNOME sia perfettamente consapevole dell’esistenza del sodalizio e dal ruolo ricoperto in seno al medesimo dal coniuge, ma ciò ancora non trasforma quella che può risultare mera “contiguità compiacente” in un comportamento sufficiente a integrare la condotta di partecipazione all’organizzazione, ove non sia dimostrato che la vicinanza a soggetti mafiosi si sia tradotta in un vero e proprio contributo, avente effettiva rilevanza causale, alla conservazione o al rafforzamento della consorteria (cfr. Sez. 5, n. 12753 del 17/01/2024, Marino, Rv. 286120). Ed in proposito il vincolo familiare rende ancor meno univoco il significato probatorio delle frasi valorizzate dai giudici del merito l’individuazione di specifici elementi in grado di evidenziare come le stesse siano state pronunziate per concorrere alla effettiva gestione del sodalizio.
Né l’apoditticità della valutazione dell’intercettazione menzionata è sanata dalla valutazione complessiva del compendio intercettivo effettuata dalla Corte. A parte le già ricordate ridotte dimensioni del materiale probatorio di riferimento, va infatti sottolineato come anche l’interpretazione della seconda conversione valorizzata soffra dei medesimi limiti motivazionali evidenziati in precedenza, atteso che il contesto in cui la stessa è stata captata è il medesimo, mentre, come eccepito, il giudice d’appello non ha dissolto i dubbi pure avanzati nella pronunzia di primo grado in merito all’effettiva intenzione della COGNOME nel rendersi disponibile a veicolare le “imbasciate” dei sodali al marito.
Nemmeno la Corte ha sufficientemente motivato sul perchè l’ulteriore intercettazione evocata dimostri non già l’occasionale coinvolgimento dell’imputata nella gestione dell’attività di spaccio di stupefacenti, bensì la sua continuativa gestione della medesima. Più in generale ciò che non emerge dalla motivazione della sentenza impugnata e quale sarebbe il dinamico contributo dell’imputata al sodalizio, tale da consentire di ritenere il suo effettivo e soprattutto stabile inserimento nell’associazione e di considerarla dunque partecipe alla medesima. Ciò a maggior ragione se si considera che, come dedotto dalla ricorrente, i giudici territoriali nemmeno si sono confrontati compiutamente con la piattaforma cognitiva di riferimento, omettendo di considerare – anche solo per
escluderne la rilevanza scagionante – delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME il quale pure ha negato l’intraneità della COGNOME, nonché il fatto che lo stesso giudice dell’appello ha escluso, come già aveva fatto il giudice di primo grado, che la stessa abbia avuto un ruolo nella distribuzione delle c.d. “mesate” agli affiliati, come invece prospettato nell’ipotesi accusatoria, contestazione che, laddove ritenuta fondata, avrebbe definito con maggior nettezza l’effettivo contributo associativo dell’imputata.
L’accoglimento nei termini illustrati del secondo motivo di ricorso comporta l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame, rimanendo assorbite le censure proposte con il terzo motivo che spetterà al giudice del rinvio considerare.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.
Così deciso il 20/11/2024