Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 43202 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 43202 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nata a Catania il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 29/04/2024 del Tribunale del riesame di Catania visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe indicata il Tribunale per il riesame di Catania ha respinto il ricorso proposto da NOME COGNOME avverso l’ordinanza cautelare emessa nei suoi confronti in data 08/03/2024 dal Giudice per le indagini preliminari per i reati di cui agli artt. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di NOME COGNOME denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo di ricorso si deducono i vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione in relazione agli artt. 73 e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Non sono stati evidenziati gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato associativo; gli elementi di prova analizzati dimostrano, anzi, che le condotte tenute dall’imputata appaiono connotate da connivenza o, al più, dalla volontà di favorire o di contribuire all’altrui delitto.
Dalle intercettazioni emerge, infatti, che la ricorrente era solo sporadicamente presente quando il figlio NOME COGNOME contava il denaro provento dell’attività di spaccio; in alcuni casi ha anche maneggiato il denaro e ha indicato al figlio delle spese familiari cui far fronte con parte di esso ma non ha mai tenuto la contabilità del ricavato dall’attività delittuosa né tanto meno ha mai gestito la cassa comune. Il Tribunale, poi, ha errato nell’interpretazione della intercettazione riportata a p 4 dell’ordinanza impugnata, da cui ha ritenuto di evincere che la ricorrente fosse impegnata anche a confezionare lo stupefacente con della pellicola, secondo le indicazioni del figlio; infatti, quel che veniva impacchettato erano banconote e non stupefacente.
Il difensore aggiunge che la collaborazione della ricorrente non è stata né continuativa né giornaliera, come ritenuto nell’ordinanza impugnata, poiché, a fronte del monitoraggio quotidiano dell’attività, la COGNOME è stata intercettata solo undici volte e solo in cinque di esse supporta il figlio NOME nel conteggio delle banconote.
Anche i consigli che dà al figlio su come gestire le attività illecite a front dell’arresto di un correo o della momentanea carenza di “strunk” debbono essere letti come mero sostegno in un momento di difficoltà organizzativa. Infine, la ricorrente non ha mai pagato i fornitori né avuto contatti diretti con loro, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza impugnata, avendo avuto solo in un paio di occasioni contatti con un altro sodale, ossia con NOME COGNOME.
Quanto al reato di cui all’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, manca l’indicazione di quale sarebbe stato lo specifico contributo, causalmente rilevante, della ricorrente all’altrui condotta di cessione di stupefacenti, in quanto il ruolo tratteggiato da Tribunale è, piuttosto, un post factum non punibile (conteggio dei proventi dello spaccio da altri posto in essere).
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si deducono i vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione in riferimento agli artt. 274 e 275 cod. proc. pen.
Il Tribunale non ha compiutamente valutato la concretezza e l’attualità del pericolo di reiterazione di reati e non ha tenuto conto di specifici elementi dedotti dalla difesa, quali l’incensuratezza della ricorrente e la volontà, manifestata nei dialoghi captati, che il figlio svolgesse una attività meno rischiosa.
Né è stata adeguatamente valutata l’adeguatezza di misure meno afflittive, anche, eventualmente, con l’uso di strumenti elettronici di controllo, tenuto anche conto del fatto che, in assenza di contatti con il figlio o con il marito, la ricorren non potrebbe reiterare condotte dello stesso tipo di quelle oggetto di contestazione.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente si osserva che, in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, la Corte di cassazione è tenuta a verificare, nei limiti consentiti dalla peculiare natura del giudizio di legittimità, se il giudice di merito abbia dat adeguato conto delle ragioni che l’hanno determinato ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, verificando il rispetto dei canoni della logica e dei principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. Non è, dunque, consentito proporre censure riguardanti la ricostruzione dei fatti o che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito, come invece richiesto dalla ricorrente, soprattutto attraverso l’interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità se non quando manifestamente illogico ed irragionevole (tra le tante Sez. 3, n. 44938 del 5/10/2021, Rv. 282337).
L’ordinanza impugnata dà conto della complessa attività investigativa sviluppatasi attraverso intercettazioni telefoniche dal contenuto inequivoco, monitoraggi degli indagati, servizi di osservazione, sequestri e arresti in flagranza che ha permesso di acquisire gravi indizi dell’esistenza di una associazione criminale dedita al traffico di stupefacenti, organizzata con modalità imprenditoriali, attiva a Catania, INDIRIZZO, gestita da NOME COGNOME e dal figlio NOME, che qui abitavano. Questi ultimi coordinavano numerosi soggetti che svolgevano il ruolo di venditori o di vedette, nonché i fornitori, garantendo una costante operatività della piazza di spaccio. Secondo l’ordinanza impugnata,
l’organizzazione aveva una cassa comune, gestita da NOME COGNOME con la collaborazione madre, odierna ricorrente, che la deteneva e in cui confluivano quotidianamente i proventi dell’attività di spaccio.
Le indagini hanno permesso di appurare che, ogni giorno, alcuni sodali, prima dell’apertura della piazza di spaccio, procedevano a una perlustrazione della zona sottostante il palazzo, poi venivano distribuite delle ricetrasmittenti a coloro che venivano adibiti a compiti di vigilanza e si procedeva all’accensione di un faro, per indicare che la piazza di spaccio era aperta; tale faro veniva spento la notte, quando la piazza veniva chiusa. Gli spacci osservati tramite le telecamere installate, unitamente alle intercettazioni, agli arresti, ai sequestri, hanno evidenziato centinaia di cessioni giornaliere.
Sulla base di tali elementi è stata ritenuta sussistente una associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, la cui esistenza non messa in dubbio dalla ricorrente, che contesta solo la sua appartenenza ad essa ed il concorso nei reati fine perpetrati dai sodali.
Manifestamente infondata è la censura relativa alla omessa partecipazione all’associazione, perché meramente reiterativa di identica censura dedotta in sede di riesame e dal Tribunale respinta con motivazione logica e immune da vizi.
Contrariamente all’assunto difensivo, nell’ordinanza risulta esaminata ogni censura e confutata la prospettazione riduttiva o alternativa proposta e nuovamente reiterata, senza minimamente confrontarsi con il coerente percorso giustificativo seguito dal Collegio della cautela. Il ricorso, infatti, si lim svalutare la significatività degli elementi valorizzati dal Tribunale del riesame e a proporre una diversa interpretazione delle intercettazioni telefoniche. Come sopra rilevato, però, tale profilo non è non sindacabile in sede di legittimità se non quando l’interpretazione dei dialoghi captati fornita nel provvedimento impugnato è manifestamente illogica ed irragionevole, cosa che non accade nel caso di specie.
Il Tribunale ha rilevato che, dopo la chiusura della piazza di spaccio, di regola, NOME COGNOME raccoglieva i soldi dai sodali e li portava a casa, dove ad attenderlo c’era la madre che provvedeva a contare il denaro con lui e aggiornava la contabilità. Ella, poi, dava indicazioni sulla destinazione delle “mazzette” (ad esempio per il pagamento di NOME COGNOME, che è risultata essere custode di parte dello stupefacente del gruppo) e sul luogo ove occultarle.
Infine, dalle intercettazioni riportate emerge che la ricorrente discuteva con il figlio di vicende relative all’attività dell’associazione, in riferimento, ad esempio alle nuove cautele da adottare in seguito all’arresto di un sodale.
Sulla base di tali elementi è stata ritenuta sussistente la partecipazione all’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, facendo
corretta applicazione del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo associativo, può essere data anche mediante l’accertamento di facta concludentia, quali, nel caso di specie, la gestione e conservazione del denaro e la tenuta della contabilità per un periodo significativo di tempo, la conoscenza delle modalità di funzionamento della piazza, i rapporti con altri sodali, la circostanza che la ricorrente abbia in talune occasioni anche aiutato il figlio a confezionare stupefacente, la assidua presenza nella piazza di spaccio.
Inammissibile è anche il motivo di ricorso relativo al concorso nei reati fine di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto il contributo causale fornito dalla ricorrente ai singoli reati, lungi dall’esaurirsi in un post factum non punibile, è consistito nella gestione quotidiana nei proventi dell’attività di spaccio, nel pagamento dei fornitori e, in un caso, nel confezionamento dello stupefacente.
Manifestamente infondata è censura di difetto di motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari.
Il Tribunale, con apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità, ha fondato la propria decisione in ordine alle esigenze cautelari e alla scelta della misura coercitiva massimamente afflittiva valorizzando il pieno inserimento della ricorrente in un’associazione dedita al narcotraffico, la cui operatività non è mai stata interrotta neanche dagli arresti di numerosi sodali.
Oltre a ciò il Tribunale ha evidenziato che la doppia presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia in carcere in relazione al reato di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. 2, n. 23935 del 04/05/2022, Rv. 283176) impone alla difesa di dedurre specifici e concreti elementi che consentano di ritenere salvaguardabili con una misura meno afflittiva le esigenze esistenti. Sul punto la mera incensuratezza non è stata ritenuta rilevante, tenuto conto della personalità della ricorrente, che, ben inserita in ambienti criminali, ha posto in essere i fatti che le sono addebitati con professionalità e continuità, tanto da far ritenere che, se lasciata in INDIRIZZO, ossia nella stessa casa dove l’attività di spaccio veniva posta in essere, commetta reati della stessa specie. Né l’applicazione del braccialetto elettronico è stata ritenuta misura sufficiente sulla base della considerazione che i fatti ascritti alla ricorrente sono stati posti in essere in ambito domestico.
Si tratta di argomenti rispetto ai quali la difesa non ha addotto, se non genericamente, elementi dimostrativi della ritenuta illogicità.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 16/10/2024.