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Partecipazione associazione a delinquere: la prova

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7952/2024, ha affrontato il tema della prova della partecipazione ad un’associazione a delinquere. Nel caso esaminato, un imputato è stato assolto da tale accusa in quanto la sua condotta, limitata a due episodi criminali, non era sufficiente a dimostrare un vincolo associativo stabile e duraturo. La Corte ha ribadito che, per provare la partecipazione associazione a delinquere, non è sufficiente la commissione di reati-fine, ma occorre dimostrare un inserimento organico e permanente nel sodalizio. Il ricorso di un altro imputato è stato invece dichiarato inammissibile.

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Pubblicato il 2 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Partecipazione Associazione a Delinquere: Quando la Prova non Basta

Con la recente sentenza n. 7952 del 2024, la Corte di Cassazione torna a delineare i confini probatori del reato associativo, chiarendo un punto fondamentale: la semplice commissione di alcuni delitti non è sufficiente a dimostrare la partecipazione a un’associazione a delinquere. Questa pronuncia offre spunti cruciali per comprendere come la giustizia distingue il concorso di persone nel reato da un vero e proprio vincolo associativo stabile. Analizziamo insieme i dettagli del caso e i principi di diritto affermati dalla Suprema Corte.

I fatti del processo

Il caso trae origine da una complessa indagine che ha portato alla condanna in primo e secondo grado di diversi soggetti per reati quali associazione a delinquere, ricettazione ed estorsione. Due degli imputati hanno presentato ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte di Appello di Milano.

Il primo ricorrente era stato condannato per ricettazione e per aver fatto parte di un’associazione criminale. La sua difesa sosteneva che il suo coinvolgimento fosse stato episodico, limitato a soli due reati in un breve lasso di tempo, e che mancasse la prova di un suo inserimento stabile nel sodalizio.

Il secondo ricorrente, ritenuto promotore e organizzatore della stessa associazione, lamentava invece una serie di vizi motivazionali e violazioni di legge in relazione a tutte le accuse a suo carico, dall’associazione all’estorsione, fino alla ricettazione di alcuni dispositivi elettronici.

I motivi del ricorso e la decisione della Corte

I ricorsi presentavano doglianze distinte, che la Cassazione ha valutato separatamente, giungendo a esiti opposti. Mentre il ricorso del presunto capo è stato dichiarato inammissibile, quello del presunto partecipe è stato parzialmente accolto, portando all’annullamento della condanna per il reato associativo.

L’annullamento parziale per carenza di prova

Il punto centrale della decisione riguarda la posizione del primo ricorrente. La Corte di Appello aveva basato la sua condanna per associazione a delinquere quasi esclusivamente sulla sua partecipazione a due reati-fine. Secondo la Cassazione, questo approccio è errato. I giudici di legittimità hanno sottolineato che la motivazione era estremamente sintetica e si fondava su un “inaccettabile parametro di consistente verosimiglianza” anziché su una rigorosa valutazione della colpevolezza.

Il rigetto del secondo ricorso per inammissibilità

Per quanto riguarda il secondo imputato, la Corte ha ritenuto i suoi motivi di ricorso inammissibili. Le sue contestazioni sono state qualificate come una mera riproposizione di argomenti già esaminati e respinti nei gradi di merito, finalizzati a ottenere una nuova valutazione dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità. La Corte ha confermato la solidità dell’impianto accusatorio, basato su intercettazioni e altre prove che delineavano in modo coerente il suo ruolo di vertice all’interno del gruppo criminale.

La prova della partecipazione associazione a delinquere

La sentenza ribadisce un principio fondamentale del diritto penale: per affermare la partecipazione a un’associazione a delinquere (art. 416 c.p.), non è sufficiente provare che l’imputato abbia commesso dei reati insieme ad altri membri del gruppo (i cosiddetti reati-fine). È indispensabile dimostrare qualcosa di più: l’esistenza di un vincolo associativo stabile, duraturo, e la consapevolezza del soggetto di far parte di una struttura organizzata con un programma criminale potenzialmente indefinito. I giudici devono analizzare le modalità dell’azione e verificare se esse siano espressione di un “rapporto di collaborazione collaudato, stabile, duraturo, destinato a produrre effetti ben oltre i singoli episodi delittuosi”. Nel caso di specie, la Corte d’Appello non aveva svolto questa analisi, fermandosi al mero dato statico della consumazione di due reati.

Le motivazioni

La motivazione della Cassazione si fonda sulla necessità di rispettare il principio dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”. Per la condanna per il reato associativo, l’accusa deve fornire la prova di un quid pluris rispetto al semplice concorso di persone nel reato. Questo quid pluris consiste nell’inserimento stabile e organico dell’individuo nel tessuto del sodalizio. La Corte ha ritenuto che i giudici di merito non avessero adeguatamente motivato su questo punto cruciale, omettendo di valutare elementi difensivi importanti come la mancanza di contatti con gli altri associati (ad eccezione di uno) e la partecipazione limitata nel tempo e nel numero di reati. La condanna, basata su una mera “verosimiglianza”, non poteva reggere al vaglio di legittimità. Al contrario, per il secondo ricorrente, la motivazione delle sentenze di merito è stata giudicata logica, coerente e completa, resistendo così alle censure proposte.

Le conclusioni

La sentenza n. 7952/2024 è un importante monito sulla rigorosità richiesta per provare la partecipazione associazione a delinquere. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la condanna per questo reato nei confronti del primo ricorrente, imponendo alla Corte d’Appello di procedere a un nuovo giudizio che valuti approfonditamente l’esistenza di un vincolo associativo stabile, al di là della semplice commissione dei reati-fine. Per il secondo ricorrente, invece, la condanna è diventata definitiva. Questa decisione riafferma la distinzione tra il contributo occasionale a un reato e l’appartenenza strutturale a un’organizzazione criminale, un confine che deve essere tracciato con prove solide e una motivazione rigorosa.

È sufficiente commettere alcuni reati insieme ad altri per essere condannati per associazione a delinquere?
No, secondo questa sentenza non è sufficiente. La Corte di Cassazione ha specificato che la semplice partecipazione alla commissione di reati-fine non dimostra automaticamente l’appartenenza a un’associazione. È necessario provare che l’azione del singolo sia espressione di un rapporto di collaborazione stabile, duraturo e inserito in un programma criminale più ampio.

Cosa significa che le sentenze di primo e secondo grado costituiscono una “doppia conforme”?
Significa che quando la Corte d’Appello conferma in tutto la sentenza del Tribunale, le motivazioni delle due decisioni si integrano a vicenda, formando un unico corpo decisionale. Questo rafforza la decisione, ma non la rende immune da censure in Cassazione se presenta vizi di legittimità.

Si può chiedere alla Corte di Cassazione di ri-valutare le prove come le intercettazioni?
No, di regola non è possibile. La Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Il suo compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione, non riesaminare le prove. L’interpretazione del contenuto di un’intercettazione è una valutazione di merito che può essere contestata solo in caso di “travisamento della prova”, cioè se il giudice ha riportato un contenuto palesemente diverso da quello reale in modo decisivo per la sentenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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