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Partecipazione associativa: un reato è sufficiente?

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso contro una misura di arresti domiciliari per una donna accusata di partecipazione associativa a due sodalizi criminali. La sentenza stabilisce che, per provare la partecipazione associativa, anche un singolo reato fine può essere sufficiente se, unitamente ad altri indizi come intercettazioni e movimenti finanziari, dimostra un inserimento stabile e consapevole dell’individuo nella struttura dell’organizzazione criminale. Il caso ha inoltre offerto chiarimenti sull’ambito di applicazione del reato di introduzione illecita di oggetti in carcere.

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Pubblicato il 10 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Partecipazione associativa: un reato è sufficiente?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31194 del 2024, torna a pronunciarsi su un tema cruciale del diritto penale: quali elementi sono necessari per dimostrare la partecipazione associativa a un sodalizio criminale? La Corte chiarisce che anche un singolo episodio delittuoso, se inserito in un contesto più ampio, può essere sufficiente a configurare il grave indizio di colpevolezza. Analizziamo insieme questa importante decisione.

Il caso in esame: le accuse e la misura cautelare

Il caso riguarda una donna sottoposta alla misura degli arresti domiciliari perché gravemente indiziata di far parte di due distinte associazioni a delinquere. La prima era finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, mentre la seconda mirava all’introduzione illecita di oggetti e dispositivi all’interno di un istituto penitenziario, a beneficio del figlio detenuto, indicato come uno dei promotori del sodalizio.

Secondo l’accusa, basata su intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, la donna avrebbe agito come un anello di congiunzione con l’esterno, occupandosi di reperire e tentare di introdurre in carcere sia droga che un caricabatterie per cellulari. Il Tribunale del Riesame aveva confermato la misura cautelare, ritenendo provato il suo inserimento stabile in entrambe le organizzazioni.

I motivi del ricorso: la difesa contesta il vincolo associativo

La difesa della ricorrente ha impugnato l’ordinanza in Cassazione, sostenendo principalmente che i singoli episodi contestati non fossero idonei a dimostrare un vincolo associativo stabile e consapevole (affectio societatis). In sintesi, i motivi di ricorso erano:

1. Insussistenza del reato fine di spaccio: Mancava la prova della consapevolezza del contenuto (droga) di un pacco che le era stato chiesto di consegnare.
2. Insussistenza del reato di introduzione di un caricabatterie: Le conversazioni erano intercorse tra terzi e non vi era prova della ricezione del pacco. Inoltre, si contestava che un caricabatterie rientrasse nella fattispecie di cui all’art. 391ter cod.pen.
3. Mancanza di prova della partecipazione associativa: L’unicità dei reati fine contestati non permetteva di superare la dimensione di un mero concorso di persone nel reato, escludendo una partecipazione stabile all’associazione.
4. Carenza delle esigenze cautelari: Si lamentava che il Tribunale non avesse considerato il notevole tempo trascorso dai fatti.

La decisione della Cassazione sulla partecipazione associativa

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendolo infondato in ogni suo punto. La sentenza offre chiarimenti fondamentali sulla prova della partecipazione associativa e su altri aspetti di diritto.

Un singolo reato fine può bastare

Il punto centrale della decisione riguarda la possibilità di desumere la partecipazione a un’associazione da un unico reato fine. La Corte ribadisce un principio consolidato: la condotta di partecipazione è a forma libera e non richiede un’investitura formale. Ciò che conta è che il contributo dell’agente sia funzionale all’esistenza e agli scopi dell’organizzazione.

Secondo i giudici, il coinvolgimento anche in un solo episodio criminoso non è incompatibile con la partecipazione associativa, a condizione che emerga la consapevolezza dell’agente di essersi servito della struttura per commettere il fatto. Nel caso di specie, il Tribunale non si era basato solo sui reati fine, ma aveva valorizzato un quadro indiziario più ampio, che includeva:

* Le intercettazioni: Dalle conversazioni successive all’arresto del marito, emergeva la piena consapevolezza della donna riguardo ai traffici illeciti.
* La gestione di una carta di credito: L’indagata era titolare di una carta prepagata su cui confluivano somme di denaro versate da parenti di altri detenuti, a dimostrazione di un ruolo logistico e finanziario all’interno del gruppo.

Questi elementi, letti congiuntamente, dimostravano una “messa a disposizione” stabile e volontaria a favore del sodalizio, che andava ben oltre il singolo aiuto occasionale.

L’ambito di applicazione dell’art. 391ter cod.pen.

La Corte ha anche respinto la censura relativa all’introduzione del caricabatterie. In primo luogo, ha ricordato che le intercettazioni tra terzi possono costituire fonte di prova diretta. Nel merito, ha specificato che l’art. 391ter cod.pen. non punisce solo l’introduzione di apparecchi telefonici, ma anche di qualsiasi “dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni” o a “consentire l’uso indebito dei predetti strumenti”. Un caricabatterie, agevolando l’utilizzo non consentito del telefono, rientra a pieno titolo in questa categoria.

Le motivazioni

La Corte ha ritenuto che il Tribunale del Riesame avesse fornito una motivazione logica e coerente nel valutare il compendio indiziario. L’analisi del giudice di merito non si era limitata ai singoli episodi, ma aveva considerato la loro interconnessione e il contesto generale, desumendo da essi la piena consapevolezza della ricorrente di operare all’interno di una struttura criminale organizzata. La valutazione degli elementi di fatto, come l’interpretazione del contenuto delle conversazioni, è stata considerata di esclusiva competenza del giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se non per manifesta illogicità, qui non riscontrata. Anche riguardo alle esigenze cautelari, la Corte ha sottolineato la vigenza della presunzione di pericolosità per i reati associativi, che non può essere superata dal solo trascorrere del tempo, ma richiede elementi concreti di attenuazione del rischio, che nel caso di specie non erano stati forniti.

Le conclusioni

In conclusione, la sentenza n. 31194/2024 rafforza i seguenti principi giuridici:

1. La prova della partecipazione associativa: Può essere desunta anche da un solo reato fine, se questo, valutato insieme ad altri elementi (es. intercettazioni, ruolo logistico-finanziario), rivela un inserimento stabile e consapevole dell’individuo nel sodalizio.
2. Valenza probatoria delle intercettazioni: Le conversazioni captate tra terzi possono costituire fonte di prova diretta a carico di un indagato.
3. Reato di introduzione di oggetti in carcere: La norma incriminatrice ha un’applicazione ampia e include non solo i telefoni cellulari ma anche accessori come i caricabatterie, in quanto funzionali al loro uso indebito.
4. Misure cautelari e tempo: Per i reati associativi, il mero decorso del tempo non è sufficiente a far venir meno le esigenze cautelari, in assenza di prove concrete di una diminuita pericolosità sociale.

Un singolo reato è sufficiente per essere considerati parte di un’associazione a delinquere?
Sì, secondo la Corte. Anche il coinvolgimento in un solo episodio criminoso può dimostrare la partecipazione all’associazione, se da esso emerge che la persona ha agito con la consapevolezza di servirsi della struttura organizzata del gruppo, inserendosi stabilmente in essa, e se tale conclusione è supportata da altri elementi indiziari.

L’introduzione di un caricabatterie in carcere è reato?
Sì. La sentenza chiarisce che il reato previsto dall’art. 391ter del codice penale non riguarda solo l’introduzione di telefoni, ma si estende a qualsiasi dispositivo che consenta o agevoli l'”uso indebito” degli strumenti di comunicazione, categoria nella quale rientra pienamente un caricabatterie.

Il tempo trascorso dai fatti annulla automaticamente la necessità di una misura cautelare come gli arresti domiciliari?
No. La Corte afferma che il semplice decorso del tempo ha una valenza neutra. Per crimini gravi come l’associazione a delinquere, vige una presunzione di pericolosità che non viene superata solo dal tempo trascorso, a meno che non emergano altri elementi concreti che dimostrino un’attenuazione del rischio di reiterazione del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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