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Partecipazione associativa: la decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla distinzione tra concorso in spaccio di stupefacenti e partecipazione associativa a un’organizzazione criminale. Inizialmente, la misura cautelare per un imputato era stata annullata per carenza di prove sul suo inserimento stabile nel gruppo. A seguito di un riesame, il Tribunale ha fornito una motivazione più solida, dimostrando la consapevolezza dell’imputato di agire all’interno di un sodalizio con una struttura definita e un controllo monopolistico del territorio. La Cassazione ha quindi rigettato il successivo ricorso, ritenendo la nuova motivazione sufficiente a giustificare la custodia cautelare per il reato di partecipazione associativa.

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Pubblicato il 8 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Partecipazione Associativa: Quando la Consapevolezza Fa la Differenza

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 12004/2024) offre importanti chiarimenti su un tema cruciale del diritto penale: la distinzione tra il semplice concorso in un reato e la vera e propria partecipazione associativa a un’organizzazione criminale. Il caso analizzato riguarda un’associazione dedita allo spaccio di stupefacenti e dimostra come una motivazione giudiziaria ben argomentata sia fondamentale per giustificare una misura grave come la custodia cautelare in carcere. Vediamo nel dettaglio come si è sviluppata la vicenda processuale e quali principi ha ribadito la Suprema Corte.

I Fatti del Caso: Dal Primo Annullamento alla Conferma della Misura

La vicenda processuale ha origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di un individuo, accusato di far parte di un’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di droga. In un primo momento, la difesa aveva ottenuto un importante successo: la Corte di Cassazione aveva annullato il provvedimento, ritenendo che gli elementi raccolti non fossero sufficienti a dimostrare un suo stabile inserimento nel sodalizio. Le prove, principalmente intercettazioni telefoniche con un solo altro soggetto, non evidenziavano contatti o consapevolezza di un “livello associativo” più ampio.

Il caso è stato quindi rinviato al Tribunale del riesame, che ha dovuto riesaminare la posizione dell’indagato. Questa volta, il Tribunale ha condotto un’analisi più approfondita, colmando le lacune motivazionali precedenti e confermando la misura cautelare. Contro questa nuova decisione, la difesa ha proposto un ulteriore ricorso in Cassazione, sostenendo che il Tribunale non avesse superato le criticità evidenziate in precedenza.

La Decisione della Corte e la Prova della Partecipazione Associativa

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione del Tribunale del riesame. I giudici supremi hanno ritenuto che la nuova motivazione fosse logica, coerente e adeguata a dimostrare l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza per il reato di partecipazione associativa.

Il punto centrale della decisione non si è basato sul semplice sillogismo che “chi spaccia in un territorio controllato da un boss deve per forza far parte del clan”, ma su una ricostruzione dettagliata del contesto criminale. Il Tribunale del riesame ha infatti dimostrato che il sodalizio aveva instaurato un vero e proprio monopolio sullo spaccio in una determinata area, imponendo regole precise a tutti gli operatori del settore. Per provare la consapevolezza dell’indagato, sono state valorizzate circostanze specifiche.

Gli Elementi Chiave della Motivazione

Il Tribunale ha fondato la sua decisione su tre pilastri probatori cruciali:

1. Incontri con i vertici: L’indagato è stato visto recarsi presso un cimitero per incontrare il capo dell’organizzazione, appena scarcerato, insieme a un altro membro di spicco. Questo incontro è stato interpretato non come una visita casuale, ma come un atto di deferenza e allineamento alle nuove gerarchie.
2. Intercettazioni esplicite: Una conversazione telefonica intercettata conteneva riferimenti espliciti sia al capo (indicato con un soprannome) sia all’organizzazione stessa, definita “la banda”. Questo elemento è stato ritenuto cruciale per dimostrare la piena consapevolezza dell’indagato di operare per conto di un gruppo strutturato.
3. Il “Giro di Istruzioni”: È emerso che un membro di alto livello dell’associazione aveva fornito al fornitore di droga i recapiti dei vari pusher, tra cui l’indagato, istruendolo a contattarli direttamente in caso di necessità per garantire la continuità del commercio illecito. Questo non è stato visto come un semplice “giro turistico”, ma come una chiara logica associativa volta a rafforzare e perpetuare l’attività del gruppo.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte di Cassazione ha stabilito che il Tribunale del riesame ha correttamente superato le critiche mosse nella precedente sentenza di annullamento. La decisione non si fonda più sull’inaccettabile presunzione del “non poteva non sapere”, ma su un’analisi completa della struttura criminale, delle sue modalità operative e degli elementi specifici che dimostrano la consapevolezza dell’indagato.

L’insieme degli indizi illustrati – la complessa struttura dell’associazione (con un capo, un direttore generale, una depositaria, fornitori e spacciatori), il monopolio territoriale e le conversazioni esplicite – ha permesso di costruire un quadro probatorio solido. La Corte ha sottolineato come il ricorso della difesa fosse silente su un punto cruciale: il contenuto della telefonata in cui si menzionavano “la banda” e il boss. Questo silenzio ha reso il motivo di ricorso generico e aspecifico. Di conseguenza, gli elementi raccolti sono stati ritenuti sufficienti a risolvere l’alternativa tra una mera compartecipazione allo spaccio e una piena e consapevole partecipazione associativa.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale nel processo penale, in particolare nella fase delle misure cautelari: la necessità di una motivazione rigorosa e dettagliata. Per affermare la sussistenza di un grave quadro indiziario per il reato di associazione per delinquere, non basta dimostrare che un soggetto commette reati in un’area controllata da un clan. È indispensabile provare, con elementi concreti, che egli era consapevole di questa struttura e ha agito come parte integrante di essa, condividendone fini e metodi. La decisione del Tribunale del riesame, validata dalla Cassazione, costituisce un esempio di come questo onere motivazionale debba essere soddisfatto, andando oltre le semplici congetture per fondarsi su una ricostruzione logica e fattuale del ruolo dell’individuo all’interno del sodalizio criminale.

Qual è la differenza tra semplice concorso in spaccio e partecipazione a un’associazione criminale?
Il concorso in spaccio si ha quando più persone collaborano occasionalmente per vendere droga. La partecipazione associativa, invece, richiede la consapevolezza e la volontà di essere un membro stabile di un’organizzazione strutturata, con ruoli definiti e un programma criminale duraturo, anche se il proprio contributo è limitato a un settore specifico come lo spaccio al dettaglio.

Perché la Corte di Cassazione ha prima annullato e poi confermato la misura cautelare?
Inizialmente, la Corte ha annullato la misura perché le prove erano insufficienti a dimostrare l’inserimento stabile dell’indagato nell’associazione, limitandosi a contatti con un solo altro soggetto. Successivamente, ha confermato la misura perché il Tribunale del riesame, in un nuovo giudizio, ha fornito una motivazione più robusta, basata su nuovi elementi (incontri con i vertici, intercettazioni esplicite) che provavano la piena consapevolezza dell’indagato di agire per conto dell’organizzazione.

Quali elementi sono stati considerati decisivi per dimostrare la consapevolezza dell’imputato di far parte dell’associazione?
Gli elementi decisivi sono stati tre: 1) l’incontro dell’imputato con il capo dell’organizzazione presso un cimitero, interpretato come un atto di allineamento gerarchico; 2) una conversazione telefonica intercettata in cui si faceva esplicito riferimento a “la banda” e al boss in relazione all’attività di spaccio; 3) l’inclusione del suo nominativo in una lista di pusher fornita da un membro di spicco al fornitore del gruppo, per garantire la continuità del commercio illecito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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