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Partecipazione ad associazione mafiosa: la Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un indagato, confermando la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa. La Corte ha stabilito che anche un contributo minimo, ma costante, come fare da autista al capo cosca e partecipare a incontri, è sufficiente a dimostrare un inserimento stabile nel sodalizio criminale. È stato inoltre ribadito che il solo trascorrere del tempo non basta a superare la presunzione di pericolosità sociale legata a questo tipo di reato.

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Pubblicato il 6 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Partecipazione ad Associazione Mafiosa: Anche il Ruolo di Autista Può Essere Decisivo

La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 2 Penale, n. 30008 del 2024, offre un’importante analisi sui criteri per configurare il reato di partecipazione ad associazione mafiosa ai sensi dell’art. 416-bis del codice penale. La Corte ha stabilito che anche un contributo apparentemente minore, se continuativo e funzionale agli scopi del clan, è sufficiente a integrare la condotta punibile, confermando la linea dura della giurisprudenza in materia di criminalità organizzata.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da un’ordinanza del Tribunale della Libertà che, in sede di rinvio dalla Cassazione, aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere per un indagato accusato di partecipazione ad associazione mafiosa e concorso in furto aggravato. Sebbene il Tribunale avesse annullato le accuse per alcuni fatti estorsivi, riteneva sussistenti gravi indizi per la sua appartenenza a una cosca locale.

La difesa dell’indagato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che il suo assistito fosse solo un collaboratore saltuario del cugino, ritenuto il capo del clan. Secondo il ricorrente, il suo ruolo si limitava a quello di autista e la sua presenza a un pranzo con altri pregiudicati era stata arbitrariamente interpretata come un “summit mafioso”. Mancava, a suo dire, la cosiddetta affectio societatis, ovvero la volontà stabile di far parte dell’organizzazione.

I Criteri per la Partecipazione ad Associazione Mafiosa secondo la Cassazione

La Corte Suprema ha respinto il ricorso, giudicandolo manifestamente infondato. I giudici hanno chiarito che, per integrare il reato, non è necessario compiere atti criminali eclatanti, ma è sufficiente fornire un “apporto concreto”, anche minimo, purché riconoscibile e funzionale alla vita dell’associazione.

Nel caso specifico, sono stati ritenuti decisivi i seguenti elementi:
* Ruolo di autista per il capo cosca: una condotta ripetuta che non rappresenta un mero favore personale, ma un supporto logistico essenziale per le attività del leader.
* Partecipazione a incontri: la presenza costante a riunioni con altri affiliati, che dimostra un inserimento nelle dinamiche interne del gruppo.
* Coinvolgimento in conversazioni: essere a conoscenza e partecipare a discussioni relative alle attività del clan.

Questi elementi, nel loro complesso, delineano un quadro di inserimento attivo e stabile nell’organismo criminale, superando la soglia della mera contiguità compiacente.

La Questione della Pericolosità Sociale

Un altro motivo di ricorso riguardava l’attualità delle esigenze cautelari. La difesa sosteneva che, essendo i fatti contestati risalenti al 2018, il lungo “tempo silente” trascorso avrebbe dovuto far venir meno la presunzione di pericolosità.

Anche su questo punto, la Cassazione è stata netta. Per i reati di mafia, la presunzione di pericolosità prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p., può essere vinta solo da prove concrete di un recesso dall’associazione o dell’esaurimento totale dell’attività del sodalizio. Il semplice decorso del tempo, da solo, non è sufficiente a dimostrare un irreversibile allontanamento dal legame criminale.

Le motivazioni della Corte

Le motivazioni della Corte si fondano su principi consolidati, tra cui quelli espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza “Modaffari”. La decisione sottolinea che qualsiasi condotta che agevoli la vita dell’associazione, garantendone l’operatività, costituisce un indice di partecipazione punibile. Nel caso del furto di carte d’identità, ad esempio, la Corte ha ritenuto evidente il dolo intenzionale e la sua funzionalità a “fornire agli accoliti gli strumenti necessari per predisporre falsi documenti”, un’attività tipica a supporto della clandestinità e delle operazioni della cosca. La valutazione del giudice del riesame è stata quindi considerata corretta e logicamente argomentata, non lasciando spazio a censure di legittimità.

Le conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata: la stabilità del contributo all’associazione prevale sulla sua natura o entità. Non è necessario essere un boss o un killer per essere considerati parte integrante di un clan mafioso. Anche ruoli di supporto, se prestati con costanza e consapevolezza, dimostrano un’affiliazione attiva e giustificano l’applicazione di severe misure cautelari. La decisione conferma inoltre la difficoltà di superare la presunzione di pericolosità per chi è accusato di reati di mafia, richiedendo una prova inequivocabile della rottura del legame con il sodalizio.

Quali condotte sono sufficienti per provare la partecipazione ad associazione mafiosa?
Secondo la Corte, sono sufficienti tutte le condotte dalle quali si possa desumere che l’affiliato abbia preso parte attiva al fenomeno associativo o abbia fornito un qualsiasi “apporto concreto”, anche minimo ma riconoscibile, alla vita dell’associazione, tale da far ritenere avvenuto un inserimento stabile. Nel caso di specie, il ruolo ripetuto di autista per il capo cosca e la partecipazione a incontri con altri associati sono stati ritenuti sufficienti.

Il trascorrere del tempo senza commettere nuovi reati è sufficiente a escludere la pericolosità sociale per un indagato di mafia?
No. Per i reati di cui all’art. 416-bis c.p., la presunzione di pericolosità può essere superata solo con la prova del recesso dell’indagato dall’associazione o con l’esaurimento dell’attività associativa stessa. Il cosiddetto “tempo silente”, ovvero il decorso di un apprezzabile lasso di tempo, da solo non costituisce prova di un irreversibile allontanamento dal sodalizio criminale.

Come si dimostra l’aggravante mafiosa in un reato comune come il furto?
Nel caso analizzato, l’aggravante è stata ritenuta sussistente perché il furto di carte d’identità da un ufficio comunale era considerato “funzionale a garantire l’operato delle cosche”, fornendo agli affiliati gli strumenti per creare documenti falsi. La motivazione si basa quindi sulla finalità dell’azione, che deve essere volta ad agevolare l’attività della consorteria mafiosa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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