Parcheggiatore Abusivo: Quando le Multe Dimostrano l’Intenzione di Delinquere
L’attività di parcheggiatore abusivo è un fenomeno diffuso che può integrare una fattispecie di reato. Ma cosa succede se l’imputato sostiene di aver agito in buona fede, credendo di essere autorizzato? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito un chiarimento cruciale su come si determina la consapevolezza, e quindi il dolo, in questi casi, sottolineando il valore probatorio delle sanzioni amministrative precedenti.
I Fatti del Caso
Un individuo veniva condannato sia in primo grado che in appello alla pena di sei mesi di arresto e 2.000 euro di ammenda per il reato di esercizio dell’attività di parcheggiatore abusivo, previsto dal Codice della Strada (art. 7, comma 15-bis, D.Lgs. 285/1992). La condanna si basava sull’aver svolto tale attività senza alcuna autorizzazione.
Il Ricorso in Cassazione: La Tesi della Mancanza di Dolo
Tramite il proprio difensore, l’imputato presentava ricorso alla Corte di Cassazione. La sua linea difensiva si fondava su un unico punto: la presunta assenza dell’elemento soggettivo del reato, ovvero il dolo. Sosteneva, infatti, di aver agito nella convinzione di essere legittimamente incaricato da una società sportiva locale per fornire un servizio di parcheggio. A suo dire, mancava quindi la coscienza e la volontà di compiere un’azione illecita.
La Decisione della Cassazione: il Ruolo delle Sanzioni Precedenti
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, di conseguenza, inammissibile. La decisione si basa su un’analisi rigorosa della logica e delle prove che portano a configurare il dolo.
Le Motivazioni della Corte
I giudici hanno innanzitutto osservato che il ricorso non era altro che una ‘pedissequa reiterazione’ dei motivi già presentati e respinti dalla Corte d’Appello, senza introdurre una critica specifica e argomentata contro la sentenza impugnata. Questo, di per sé, lo rendeva un ricorso solo ‘apparente’.
Ma il punto cruciale della motivazione riguarda la prova del dolo. La Corte territoriale, con una motivazione ritenuta logica e priva di vizi, aveva dedotto la piena consapevolezza dell’imputato circa l’illiceità della sua condotta da un fatto inequivocabile: allo stesso individuo erano già state comminate, per gli stessi identici fatti, ben tre sanzioni amministrative in un periodo di tempo ravvicinato rispetto al momento del reato per cui si procedeva.
Secondo la Cassazione, queste sanzioni precedenti annullavano qualsiasi possibilità di invocare la buona fede o l’ignoranza della legge. Aver ricevuto più multe per lo stesso comportamento dimostra che l’imputato era stato formalmente avvisato della natura illegale della sua attività. Insistere nel compierla non poteva che essere una scelta consapevole e volontaria, integrando così pienamente l’elemento soggettivo del dolo richiesto dalla norma penale.
Conclusioni
L’ordinanza in esame ribadisce un principio di notevole importanza pratica: le sanzioni amministrative pregresse possono costituire una prova decisiva per dimostrare l’esistenza del dolo in un successivo procedimento penale per lo stesso fatto. Per chiunque si trovi accusato del reato di parcheggiatore abusivo, diventa estremamente difficile sostenere di aver agito in buona fede se è già stato multato in passato per la medesima condotta. Questa decisione consolida un orientamento che mira a contrastare l’illegalità diffusa, attribuendo il giusto peso alla storia comportamentale dell’imputato come indicatore della sua volontà criminale.
Un parcheggiatore abusivo può essere assolto se afferma di aver agito in buona fede?
In teoria, l’assenza di dolo (la coscienza e volontà di commettere il reato) potrebbe portare a un’assoluzione. Tuttavia, questa ordinanza chiarisce che tale difesa è difficilmente sostenibile se l’imputato ha già ricevuto in precedenza sanzioni amministrative per la stessa attività, poiché queste dimostrano la sua piena consapevolezza dell’illiceità della condotta.
Le multe precedenti per la stessa attività illegale sono una prova sufficiente per dimostrare l’intenzione di commettere il reato?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, le sanzioni amministrative già comminate per gli stessi fatti costituiscono un elemento probatorio significativo. Da esse si può logicamente dedurre la consapevolezza dell’imputato riguardo all’illegalità del suo comportamento, confermando così la sussistenza del dolo.
Perché il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile principalmente per due ragioni: in primo luogo, si limitava a riproporre le stesse argomentazioni già respinte in appello, senza una critica specifica alla sentenza impugnata. In secondo luogo, la motivazione della Corte d’Appello sull’esistenza del dolo, basata sulle precedenti sanzioni, è stata ritenuta immune da vizi logici o giuridici.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 12491 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 12491 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 09/05/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE ha confermato la sentenza del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, in composizione monocratica, con cui COGNOME NOME è stato condannato alla pena di mesi sei di arresto ed euro 2.000,00 di ammenda per il reato di cui all’art. 7, comma 15-bis (seconda parte) del D.Igs. 30 aprile 1992, n. 285.
COGNOME NOME, per mezzo del proprio difensore, ricorre per la cassazione della sentenza della Corte di appello per violazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 42 c.p., deducendo l’assoluta mancanza dell’accertamento in concreto dell’elemento soggettivo del dolo, sul presupposto che l’imputato abbia operato credendo di essere stato incaricato dalla società RAGIONE_SOCIALE ad effettuare un servizio legittimo di parcheggiatore.
L’unico motivo di ricorso risulta essere manifestamente infondato, in quanto si risolve in doglianze con cui si propone una pedissequa reiterazione di motivo già dedotto in appello e puntualmente disatteso dalla Corte di merito, dovendosi pertanto lo stesso considerare non specifico ma soltanto apparente, in quanto omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME e altri, Rv. 24383801). Contrariamente a quanto dedotto, infatti, la pronunzia impugnata reca appropriata motivazione, basata su definite e significative acquisizioni probatorie ed immune da vizi logico giuridici, circa il profilo dell’accertamento dell’elemento soggettivo della fattispecie contestata. In particolare, la Corte territoriale deduce la consapevolezza dell’imputato dell’illiceità della condotta dal fatto che allo stesso gli erano state già comminate, per gli stessi fatti, tre sanzioni amministrative in tempo non lontano dalla commissione del fatto per il quale si sta procedendo.
Per tali ragioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in euro tremila.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2024
Il Consigliere estensore
Il Pr idJlte