Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 34596 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 34596 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 11/02/2025 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Motivi della decisione
NOME COGNOME, a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo indicata in epigrafe con la quale era stata confermata la sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di locale del 9 ottobre 2023 in ordine al reato di cui all’art. 7, comma 15 bis, d.lgs. n. 285/1992.
L’esponente articola quattro motivi di ricorso: a. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione degli elementi di prova operata dal giudice del merito con riferimento al giudizio di responsabilità del ricorrente; b. violazione di legge e vizio motivazionale in punto di diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen; c. violazione dell’art. 129 cod. proc. pen. pe mancata declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione; d. vizio di motivazione in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
Chiede, pertanto, annullarsi il provvedimento impugnato.
I motivi sopra richiamati sono manifestamente infondati, in quanto assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni e del tutto assertivi. G stessi, in particolare, lungi dal confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, si limitano a reiterare profili di censura già adeguatamente e correttamente vagliati e disattesi dalla Corte di appello, lamentando, in maniera del tutto generica e aspecifica, una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre: Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME, Rv. 260608-01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME, Rv. 243838-01), e altresì censurando, quanto al quarto motivo, il trattamento sanzionatorio, benché sorretto da sufficiente e non illogica motivazione, nonché da un adeguato esame delle deduzioni difensive (sull’onere motivazionale del giudice in ordine alla determinazione della pena cfr. Sez. 3, n. 29968 del 22/2/2019, COGNOME, Rv. 276288-01; Sez. 2, n. 36104 del 27/4/2017, COGNOME, Rv. 271243). Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.
3.1. L’impugnata sentenza dà atto che la condotta tipica del reato di esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore emerge chiaramente dai risultati della compiuta istruttoria dibattimentale.
Come chiarito dai giudici di merito, il reato di cui all’art. 7, comma 15 bis, d.lgs. n. 285/1992 punisce la condotta di chi esercita, senza autorizzazione, l’attività di parcheggiatore o guardiamacchine, a nulla rilevando la ricezione di una somma di denaro in cambio dell’attività svolta, la quale non è un elemento costitutivo della fattispecie. Perché possa ritenersi integrato il reato è, pertanto, sufficiente che il soggetto già sanzionato in via amministrativa con provvedimento definitivo venga nuovamente colto nell’atto di esercitare l’attività non autorizzata di parcheggiatore. E il ricorrente è stato individuato poiché forniva agli automobilisti che transitavano indicazioni per parcheggiare e anche la sussistenza della recidiva, ossia la definitività della precedente contestazione del 30 aprile 2019 risulta infatti puntualmente documentata, posto che il relativo verbale, prodotto in atti, non risulta opposto con ricorso dinanzi al AVV_NOTAIO o al AVV_NOTAIO né mai oblato.
3.2. Quanto al terzo motivo, lo stesso è manifestamente infondato in quanto il reato per cui si procede non era prescritto all’atto dell’emanazione della sentenza impugnata, e non lo sono nemmeno oggi, in quanto, commesso nel novembre 2019, ricade sotto le previsioni della c.d. Riforma Orlando che, per tutti i reati commessi dopo la sua entrata in vigore (3 agosto 2017) e fino al 31 dicembre 2019, data successivamente alla quale l’intera disciplina è stata innovata dalla legge 27 settembre 2021, n. 134 ha introdotto un termine di sospensione decorrente dalla data di scadenza del termine per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi e un’ulteriore sospensione, sempre per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi, dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva. (cfr. sul punto Sez. U, n. 20989 del 12/12/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. Rv. 288175 – 01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Peraltro, nemmeno si sarebbe potuta porre in questa sede la questione di un’eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma de1l’art. 129 cod. proc. pen (così Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266818; Sez. U, n. 19601 del 28/2/2008, COGNOME, Rv. 239400; Sez. li, n. 23428 del 2/03/2005, COGNOME, Rv. 231164;) Sez. U.
32 del 22/11/2000, COGNOME, Rv. 217266 relativamente ad GLYPH caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso).
3.3. Manifestamente infondato è anche il motivo di ricorso afferente al diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen, motivato congruamente dalla Corte territoriale in relazione alla presenza di precedenti specifici che attestano l’abitualità della condotta
La non punibilità per la particolare tenuità del fatto – va ricordato – è condizionata dalla norma (articolo 1, lettera m, I. 67/2014 e 131 bis, commi 1 e 3, cod. pen.) alla non abitualità del comportamento penalmente illecito.
Tale previsione, è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla Corte costituzionale (ord. 279/2017), dato che anche in presenza di fatti analoghi (di particolare tenuità oggettiva), le ineguali condizioni soggettive giustificano il diverso trattamento penale. Il fatto particolarmente lieve di cui all’art. 131 bis, cod. pen. è comunque un fatto offensivo che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire; tuttavia, l’aver condizionato la punibilità anche atcraverso un dato soggettivo, costituito dalla non abitualità del comportamento penalmente illecito, comporta una valutazione anche del comportamento successivo al reato, al fine dell’esclusione dell’abitualità.
La sentenza impugnata opera un buon governo del principio se secondo cui, in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto, il presupposto ostativo del comportamento abituale ricorre quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, abbia commesso almeno altri due reati della stessa indole, incidentalmente accertabili da parte del giudice procedente (così Sez. 6, n. 6551 del 9/1/2020, COGNOME Anci, Rv. 278347, in un procedimento per il reato di evasione, la corte di appello aveva escluso la causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., avendo valutato l’esistenza di analoghe condotte pregresse risultanti dagli atti; conf. Sez. 3, Sentenza n. 776 del 4/4/2017 dep. 2018, Del Galdo, Rv. 271863).
La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima “ratio punendi”), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il “fatto” nella sua dimensione “plurima”, secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (cfr. Sez. 5, n. 26813 del 10/02/2016, COGNOME, Rv. 267262)
Tenuto conto che va verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni (cfr. Sez. 5, n. 53401 del 30/05/20188, M. Rv. 274186 che
lo ha escluso in una fattispecie in tema di furto e detenzione o cessione di sostanze stupefacenti) e che tale verifica appare in concreto operata, la motivazione del provvedimento impugnato non si presta alle proposte censure di legittimità.
3.4. Quanto, infine, al quarto motivo di ricorso, in punto di dosimetria della pena, la Corte territoriale dà atto di avere ritenuto che la pena irrogata dal giudice di primo grado sia del tutto congrua e proporzionata al fatto oggetto di contestazione e di non ritenere sussistenti ragioni per una sua rimodulazione.
E ciò fa operando un buon governo del principio consolidato secondo cui una specifica e dettagliata motivazione in merito ai criteri seguiti dal giudice nella determinazione della pena si richiede solo nel caso in cui la sanzione sia quantificata in misura prossima al massimo edittale o comunque superiore alla media, risultando insindacabile, in quanto riservata al giudice di merito, la scelta implicitamente basata sui criteri di cui all’art. 133 cod. pen. di irrogare – come disposto nel caso di specie – una pena in misura media o prossima al minimo edittale (così, tra le altre: Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01; Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 258356- 01; Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256464-01; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, COGNOME, Rv. 256197-01).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 07/10/2025