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Ordine Europeo di Indagine: la Cassazione decide

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che l’acquisizione di comunicazioni da chat criptate, già in possesso di un’autorità giudiziaria straniera, tramite un Ordine Europeo di Indagine non richiede una preventiva autorizzazione del giudice italiano. Tale atto rientra nella disciplina della circolazione della prova tra procedimenti, e spetta al pubblico ministero richiederla. Resta fermo il potere del giudice del procedimento di valutare l’utilizzabilità della prova e il rispetto dei diritti fondamentali.

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Pubblicato il 28 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ordine Europeo di Indagine: La Cassazione detta le regole per le chat criptate

Con una sentenza di fondamentale importanza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sciolto uno dei nodi più complessi della procedura penale moderna: l’acquisizione di prove digitali dall’estero. La decisione chiarisce le modalità con cui possono essere utilizzate le comunicazioni scambiate su piattaforme criptate e ottenute tramite un Ordine Europeo di Indagine. Si tratta di un punto di svolta che bilancia le esigenze investigative con la tutela dei diritti fondamentali.

I fatti del caso: un’indagine su un’associazione a delinquere

Il caso nasce da un’indagine su una presunta associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Nel corso delle investigazioni, emergono elementi probatori cruciali costituiti da comunicazioni intercorse su una rete criptata, gestita da una società estera.

Le autorità giudiziarie francesi, nell’ambito di una propria indagine autonoma, erano riuscite a decifrare il sistema e ad acquisire un’enorme mole di dati. La Procura italiana, venuta a conoscenza di tali elementi, emetteva un Ordine Europeo di Indagine (OEI) per ottenere dall’autorità francese la trasmissione delle chat pertinenti all’indagine nazionale. Sulla base di queste e altre prove, veniva disposta una misura cautelare in carcere per uno degli indagati, il quale proponeva ricorso contestando la legittimità dell’acquisizione di tali dati.

La questione giuridica e l’Ordine Europeo di Indagine

La difesa dell’indagato sollevava una questione cruciale: l’acquisizione di queste comunicazioni, che toccano la sfera della corrispondenza e della privacy, può essere disposta direttamente dal Pubblico Ministero o necessita, come per le intercettazioni, di una preventiva autorizzazione da parte di un giudice?

Il dibattito ha visto contrapporsi diverse interpretazioni normative. Da un lato, si sosteneva che l’acquisizione di dati informatici dall’estero dovesse seguire le garanzie previste per il sequestro di corrispondenza o per le intercettazioni, richiedendo quindi un vaglio giurisdizionale preventivo. Dall’altro, si affermava che, trattandosi di prove già formate e legittimamente acquisite da un’autorità giudiziaria di un altro Stato membro, la loro trasmissione rientrasse in una dinamica di cooperazione e circolazione della prova, governata da regole diverse.

La decisione delle Sezioni Unite: circolazione della prova e non nuova acquisizione

Le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto fornendo una lettura chiara e sistematica della normativa interna ed europea.

La qualificazione giuridica dell’atto

La Corte ha stabilito che quando un Ordine Europeo di Indagine ha per oggetto prove già in possesso dell’autorità giudiziaria straniera, non si tratta di un atto di ricerca di una nuova prova, ma di una modalità di trasmissione e circolazione di elementi probatori già esistenti.

Di conseguenza, la disciplina di riferimento non è quella dell’art. 234-bis c.p.p. (relativa all’acquisizione diretta di dati informatici), ma quella desumibile dagli artt. 238 e 270 c.p.p., che regolano l’acquisizione di verbali e risultati di intercettazioni provenienti da altri procedimenti. Queste norme non prevedono un’autorizzazione preventiva del giudice del procedimento “destinatario” per ottenere la trasmissione degli atti.

L’Ordine Europeo di Indagine e il ruolo del Pubblico Ministero

Sulla base di questa qualificazione, le Sezioni Unite hanno concluso che il Pubblico Ministero italiano è legittimato a emettere un OEI per ottenere la trasmissione di tali prove senza dover richiedere una preventiva autorizzazione al giudice. Il presupposto di legittimità, previsto dalla Direttiva 2014/41/UE, è che l’atto richiesto (in questo caso, l’acquisizione di prove da un altro procedimento) “avrebbe potuto essere emesso alle stesse condizioni in un caso interno analogo”. Poiché nell’ordinamento italiano il PM può acquisire prove da altri procedimenti senza l’autorizzazione del giudice, tale condizione è pienamente soddisfatta.

La tutela dei diritti fondamentali

La Corte ha precisato che l’assenza di un controllo preventivo del giudice italiano sull’emissione dell’OEI non lascia sguarniti i diritti della difesa. Il controllo giurisdizionale, infatti, è solo posticipato: avviene nel momento in cui il PM presenta la prova acquisita al giudice del procedimento italiano. In quella sede, il giudice ha il pieno potere e dovere di verificare:
1. La sussistenza delle condizioni di ammissibilità dell’OEI.
2. L’eventuale violazione di diritti fondamentali (come il diritto alla privacy, alla difesa, a un giusto processo) sia nella fase di acquisizione originaria da parte dell’autorità estera, sia nella trasmissione.

Tuttavia, vige un principio di presunzione di legittimità dell’operato delle autorità di un altro Stato membro. Spetta quindi alla difesa l’onere di allegare e provare specifici fatti dai quali desumere la violazione di tali diritti.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un’interpretazione sistematica che distingue nettamente la fase di formazione della prova da quella della sua circolazione. L’Ordine Europeo di Indagine, nel caso di specie, non è servito a “creare” una nuova prova tramite un’attività investigativa (come un’intercettazione), ma a far “viaggiare” una prova già esistente e cristallizzata in un procedimento estero. La normativa sulla cooperazione giudiziaria europea è costruita sulla fiducia reciproca e sulla semplificazione delle procedure per garantire un’efficace lotta alla criminalità transnazionale. Imporre un doppio controllo giurisdizionale preventivo (prima nello Stato di esecuzione e poi in quello di emissione) per la mera trasmissione di atti sarebbe contrario a tale logica. Il baricentro della tutela si sposta dal momento della richiesta a quello, successivo, della valutazione dell’utilizzabilità della prova da parte del giudice del processo, che rimane il custode ultimo dei diritti fondamentali.

Le conclusioni

La sentenza delle Sezioni Unite rappresenta un pilastro per la gestione delle prove digitali nel contesto europeo. Fornisce agli operatori del diritto uno strumento chiaro: il Pubblico Ministero può agire speditamente per acquisire prove digitali cruciali già raccolte da partner europei, accelerando le indagini. Al contempo, viene riaffermato con forza che l’efficienza investigativa non può mai sacrificare le garanzie difensive, il cui controllo è affidato al vaglio attento e successivo del giudice. La decisione segna un punto di equilibrio avanzato tra le esigenze di giustizia e la salvaguardia dei diritti individuali nell’era digitale.

È necessaria l’autorizzazione di un giudice italiano per emettere un Ordine Europeo di Indagine al fine di acquisire chat già in possesso di un’autorità estera?
No. Secondo le Sezioni Unite, le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste ed acquisite dal pubblico ministero italiano senza la necessità di una preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle.

Come viene qualificata giuridicamente l’acquisizione di comunicazioni da chat criptate ottenute tramite Ordine Europeo di Indagine?
Non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 234-bis c.p.p. (acquisizione di dati informatici), bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, desumibile dagli artt. 238 e 270 del codice di procedura penale. Si tratta di una trasmissione di prove già formate, non di una nuova attività di ricerca della prova.

L’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo di decrittazione viola i diritti fondamentali?
No, di per sé non costituisce una violazione. La Corte afferma che il pericolo di alterazione dei dati è da escludersi, salvo specifiche allegazioni contrarie, in quanto il contenuto di ogni messaggio è inscindibilmente legato alla sua chiave di cifratura. Una chiave errata non permetterebbe alcuna decrittazione, neppure parziale. L’onere di provare la violazione grava sulla parte interessata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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