Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 14123 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 14123 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Oggi,
COGNOME NOMECOGNOME nata a Palermo il 10/08/1949
IL FUNZION/
avverso l’ordinanza del 26/09/2024 della Corte di appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
io PPR. 2025
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
letta la memoria di replica depositata dal difensore, prof. avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del proposto ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 26 settembre 2024 la Corte di appello di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato la richiesta avanzata da NOME COGNOME di revoca dell’ingiunzione emessa dalla Procura generale in data 30 novembre 2015 a demolire le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, per le quali era stata pronunciata dalla Corte di appello, in parziale riforma di quella di primo grado, sentenza di condanna in data 18 marzo 1998, divenuta irrevocabile il 27 maggio 1998.
Avverso il menzionato provvedimento l’avv.to prof. NOME COGNOME difensore di fiducia della COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.
2.1 Con il primo motivo lamenta vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) per violazione degli artt. 111 Cost. e 125 cod. proc. pen. presentando l’ordinanza impugnata una motivazione meramente apparente.
Si rappresenta in particolare che la Corte di appello non avrebbe fornito alcuna risposta ai tre motivi articolati nella memoria del 20 giugno 2024, inerenti, il primo, l’incompatibilità dell’ordine di demolizione con il permesso di costruire in sanatoria n. 1 del 2017 rilasciato dal Comune di Termini Imerese e con l’accertamento di compatibilità paesaggistica dell’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana; il secondo, la violazione del principio di proporzionalità; terzo la violazione del principio di tutela del legittimo affidamento.
Si precisa poi che la Corte di appello ha indicato una serie di dati erronei, quanto alla tipologia di immobile abusivo, alla quadratura dell’abuso realizzato, alla localizzazione del manufatto, al riferimento ad una perizia (rilasciata dal Comune di Carini in data 19 aprile 2007) che non è mai stata prodotta dalla difesa.
2.2 Con il secondo motivo, si lamenta vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per aver l’impugnata ordinanza omesso di motivare con riferimento alla sussistenza dei presupposti per disporre la revoca dell’ordine di demolizione, non avendo la Corte di appello motivato in relazione a quanto dedotto e prodotto in sede di incidente di esecuzione.
2.3 Con il terzo motivo è dedotto vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. per aver illogicamente e contraddittoriamente motivato con riferimento alla sussistenza dei presupposti per disporre la revoca dell’ordine di demolizione.
Si evidenzia nuovamente che gli unici elementi prodotti dalla difesa sono il permesso di costruire in sanatoria n. 1 del 2017 rilasciato dal Comune di Termini Imerese il 10 marzo 2017 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica, mentre la Corte di appello avrebbe rigettato l’istanza ritenendo non idonei alla sanatoria la perizia giurata (non prodotta dalla difesa) e il formarsi del silenzio assenso.
2.4 II quarto motivo lamenta vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 3 e 97 Cost, per contrasto con i principi di imparzialità e ragionevolezza; agli artt. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, 1 legge regionale Sicilia n. 37 del 1985; 39 legge n. 724 del 1994; 32 d.l. n. 269 del 2003; 24 legge regionale Sicilia n. 15 del 2004; 1, comma 37, legge n. 308 del 2004.
Si rileva che sulle stesse opere di cui era stata ingiunta la demolizione a seguito della sentenza di condanna, il Comune di Termini Imerese ha emesso il permesso di costruire in sanatoria n. 1 del 2017, rilasciato a seguito dell’intervenuta sanatoria paesaggistica, per cui l’ordine di demolizione avrebbe dovuto essere revocato, venendo in rilievo provvedimenti incompatibili con l’esecuzione dell’indicato ordine.
2.5 Con il quinto motivo ci si duole della violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost, per contrasto con i principi di imparzialità ragionevolezza, agli artt. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, 1 legge regionale Sicilia n. 37 del 1985; 39 legge n. 724 del 1994; 32 d.l. n. 269 del 2003; 24 legge regionale Sicilia n. 15 del 2004; 1, comma 37, legge n. 308 del 2004.
Partendo dall’erroneo presupposto che le opere siano escluse dalla sanatoria, giusta la disposizione di cui all’art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge n. 326 del 2003, la Corte territoriale non considera che il permesso di costruire in sanatoria è stato rilasciato dal Comune di Termini Imerese ai sensi dell’art. 39 legge n. 724 del 1994.
2.6 Con il sesto motivo la parte deduce vizio di violazione di legge e motivazione in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., per contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità; all’art. 42 Cost.; all’art. 8 CEDU, all’art. 1, Primo protocollo CEDU; all’art. 17 CDFUE; all’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001.
Si assume che la Corte di appello, non revocando l’ordine di demolizione, ha violato il principio di proporzionalità, e segnatamente il diritto di proprietà e rispetto della vita privata e familiare.
2.7 Con il settimo ed ultimo motivo, che deduce sempre violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., per contrasto con i principi d imparzialità e ragionevolezza, agli artt. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, 1 legge regionale Sicilia n. 37 del 1985; 39 legge n. 724 del 1994; 32 d.l. n. 269 del 2003; 24 legge regionale Sicilia n. 15 del 2004; 1, comma 37, legge n. 308 del 2004.
Si afferma che la Corte di appello ha violato il principio del legittimo affidamento, che impone all’Amministrazione, qualora un provvedimento incida su situazioni consolidate, di offrire una congrua motivazione, che indichi specificatamente l’interesse pubblico idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Si evidenzia che la parte aveva presentato domanda di sanatoria in data 1 marzo 1995 e 5 marzo 2004 ed ha presentato domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica il 29 gennaio 2005 pagando tutte le relative sanzioni e che dopo oltre vent’anni l’Amministrazione comunale ha rilasciato il permesso di costruire in sanatoria.
Con requisitoria scritta il Sost. Procuratore generale ha chiesto rigettarsi il ricorso ritenendo generiche le doglianze. In particolare, rilevando che il presupposto giuridico da cui parte di difensore, ossia che al giudice dell’esecuzione sarebbe precluso ogni accertamento sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi di condono edilizio, non trova riscontro nella giurisprudenza di questa Suprema Corte; osserva che nel caso in esame il giudicante ha affermato come, all’esito del controllo ad esso deputato, il provvedimento amministrativo in
sanatoria non sia conforme ai manufatti condonabili secondo la disposizione di cui all’art. 32 d.l. n. 269 del 2003, e che il difensore non ha spiegato le ragioni per cui la sanatoria, afferente ad un unico manufatto, dovrebbe essere sottratta al medesimo potere valutativo. Generica è anche la doglianza relativa al diritto di inviolabilità del domicilio, non avendo il difensore dimostrato come la propria istanza di revoca contemplasse anche questo profilo.
Con memoria di replica e motivi nuovi, il difensore di fiducia della ricorrente, ha replicato alla requisitoria scritta della Procura generale, rilevando che la stessa non motiva sul primo motivo di ricorso ed erra in ordine al presupposto giuridico dell’impugnazione, in quanto con il secondo, terzo, quarto e quinto motivo era stata evidenziata l’incompatibilità dell’ordine di demolizione con il permesso di costruire in sanatoria e con l’accertamento di compatibilità urbanistica.
Nel rimarcare che l’immobile è l’unico di proprietà della famiglia, ribadisce tutti i motivi di ricorso e, come motivo nuovo, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 37, legge n. 308 del 2004 per contrasto con gli art. 3, 23, 42 e 97 Cost. se interpretato nel senso che l’accertamento di compatibilità paesaggistica ivi previsto, non è idoneo a estinguere l’illecito paesaggistico e, pertanto, a consentire la sanabilità degli interventi edilizi in zona vincolata ai sensi dell’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, recepito in forza dell’art. 24 della legge della Regione siciliana 5 novembre 2004, n. 15.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto è nel complesso inammissibile per le ragioni di seguito esplicitate.
I primi cinque motivi di doglianza possono essere esaminati congiuntamente e sono tutti manifestamente infondati, non confrontandosi con le argomentazioni che hanno portato la Corte di appello a rigettare il ricorso.
1.1 La difesa censura il provvedimento impugnato deducendo che esso indica un manufatto diverso da quello effettivo, sia nell’estensione (indicata dal giudice dell’esecuzione in 224 mq, a fronte di 196 mq risultanti dalla sentenza di appello, e di 199,50 risultante dal permesso di costruire in sanatoria), sia nella tipologia (non un nuovo manufatto con una elevazione fuori terra, ma un piano interrato e un ampliamento del piano terra e del primo piano, oltre ad un corpo accessorio esterno), sia nel luogo di ubicazione (Carini e non Termini Imerese); e fa menzione, errando, di provvedimenti amministrativi (silenzio assenso) che riguardano l’immobile, non corrispondenti a quelli realmente adottati dalla pubblica amministrazione, posto che il manufatto è stato interessato da un
permesso di costruire in sanatoria e da una autorizzazione paesaggistica, che non vengono menzionati.
Da tali discrasie e omissioni si deduce, sostanzialmente, che la Corte di appello ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza dei presupposti per disporre la revoca dell’ordine di demolizione ed ha comunque errato nella motivazione.
1.2 Ritiene il collegio che le doglianze non si confrontano con il percorso argomentativo svolto dalla Corte di appello, che, diversamente da quanto asserito, motiva adeguatamente in ordine ai presupposti per disporre la revoca dell’ordine di demolizione, ritenendoli insussistenti, e su tali argomentazioni la difesa omette del tutto di confrontarsi, insistendo sulla inesatta indicazione della tipologia d abuso realizzata e sulla mancanza del silenzio assenso, onde inferirne la mancata valutazione degli atti prodotti.
1.3 Con argomentazione immune da censure la Corte di appello, dimostrando di aver valutato la documentazione prodotta, consistente in un permesso di costruire in sanatoria fondato sul condono del 2003, oltre che su quello del 1994, ha ampiamente motivato sul fatto che la tipologia di abuso di cui è stata ordinata nella specie la demolizione non potesse in alcun modo essere condonata, difettando i presupposti perché possa applicarsi il condono del 2003, trattandosi di opere realizzate all’interno di aree sottoposte a vincoli di tutela ambientale, in assenza di concessione edilizia e di autorizzazione paesistica, in relazione alle quali resta preclusa l’applicazione del condono edilizio per gli abusi di maggiore rilevanza o le ristrutturazione edilizie.
La motivazione adottata dal giudice dell’esecuzione è in linea con l’orientamento espresso da questa Corte che, proprio in relazione alla Regione Sicilia, ha affermato che l’art. 23 della legge reg. Sicilia 10 agosto 1985, n. 37, che prevede la sanabilità delle opere abusive edificate nel Parco nazionale dell’Etna, previo rilascio del nulla osta dell’autorità competente per il vincolo, non può essere interpretata in senso confliggente con la normativa statale sul condono edilizio di cui al d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, ed in particolare con quanto stabilito all’art. 32 di tale decreto legge, che prevede la condonabilità dei soli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del citato d.l. (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria), per i quali vi sia stato il previo parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 44957 del 02/07/2019, COGNOME Rv. 277264-01).
Nel caso di specie, la parte risulta aver ottenuto un permesso di costruire in sanatoria fondato proprio sul condono edilizio del 2003 – oltre che su quello del 1994 – e a fronte delle articolate motivazioni della Corte di appello che conclude affermando che le opere – come quella della ricorrente – che insistono in aree
sottoposte a questo tipo di vincoli, realizzate in assenza di concessione edilizia e autorizzazione paesistica e in contrasto con la normativa urbanistica ed edilizia, sono escluse da ogni possibilità di sanatoria, ritenendo non rilevanti i documenti prodotti dalla difesa della COGNOME e non tali da giustificare la revoca dell’ordine demolizione del manufatto abusivo, la difesa nulla osserva, continuando ad insistere, anche nei motivi aggiunti, sulla circostanza che sia stato indicato un manufatto per tipologia, ubicazione, e quadratura differente da quello effettivo, non interessato da un silenzio assenso.
1.4 Ne consegue l’inammissibilità degli indicati motivi di doglianza dovendo essere ricordato che Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME Rv. 268823, ha ribadito un principio già noto nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato e che le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l’atto di impugnazione risiedono nel fatto che quest’ultimo non può ignorare le ragioni del provvedimento censurato.
Generiche sono le doglianze oggetto del sesto e del settimo motivo di ricorso.
2.1 Va sul punto premesso che in tema di reati edilizi, l’Autorità giudiziaria, nel dare esecuzione all’ordine di demolizione di un immobile abusivo costituente l’unica abitazione familiare, è tenuta a rispettare il principio di proporzionalit enunciato dalla giurisprudenza convenzionale nelle sentenze della Corte EDU, 21/04/2016, COGNOME e COGNOME c. Bulgaria, e della Corte EDU, 04/08/2020, COGNOME c. Lituania, a condizione che chi intenda avvalersene si faccia carico di allegare, in modo puntuale, i fatti addotti a sostegno del suo rispetto (Sez. 3, n. 21198 del 15/02/2023, COGNOME, Rv. 284627 – 01).
Ulteriormente in tema, Sez. 3, n. 48021 dell’11/09/2019, Giordano, Rv. 277994-01 ha affermato che il diritto all’abitazione, riconducibile agli artt. 2 e 3 Cost. e all’art. 8 CEDU, non è tutelato in termini assoluti, ma è contemperato con altri valori di pari rango costituzionale, come l’ordinato sviluppo del territorio e l salvaguardia dell’ambiente, che giustificano, secondo i criteri della necessità, sufficienza e proporzionalità, l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo, sempre che tale provvedimento si riveli proporzionato rispetto allo scopo che la normativa edilizia intende perseguire, rappresentato dal ripristino dello status preesistente del territorio. In altri termini, l’esecuzione dell’ordine d demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’art. 8 CEDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto “assoluto” ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non
viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l’equilibrio urbanisticoedilizio violato (Sez. 3, n. 24882 del 26/04/2018, COGNOME, Rv. 273368-01).
Deve infatti convenirsi che il principio di proporzionalità si frappone all’esecuzione dell’ordine di demolizione per ragioni estranee alla adozione dell’ordine stesso, incidendo non nella fase deliberativa dell’ordine stesso, bensì in quella esecutiva: ne deriva che i fatti addotti a sostegno della sua applicazione devono essere allegati (e accertati) in modo rigoroso, dovendosene far carico, quantomeno sul piano dell’allegazione, chi intende avvalersene per paralizzare il ripristino di un ordine violato, tanto più se si tratta, come nel caso di specie, dello stesso autore dell’abuso.
2.3 Ebbene, premesso che tali fatti – come affermato nella sentenza COGNOME – ove allegati dall’autore dell’abuso, non possono dipendere dalla sua inerzia ovvero dalla volontà sua o del destinatario dell’ordine, non potendo il condannato lucrare sul tempo inutilmente trascorso dalla data di irrevocabilità della sentenza, e ciò in quanto l’ingiunzione a demolire trova causa proprio dalla sua inerzia, deve ritenersi che tanto la lamentata violazione del principio di proporzionalità, quanto la lamentata doglianza sulla violazione del principio di affidamento, oggetto del settimo motivo di censura, erano del tutto generici, non essendo sufficiente a ritenere assolto l’onere di allegazione la mera produzione del certificato di residenza.
2.4 Il sesto ed il settimo motivo di doglianza erano quindi del tutto generici e, perciò, geneticamente inammissibili, sicché la Corte territoriale poteva non prenderli in considerazione, trattandosi di un’ipotesi riconducibile ad una causa di inammissibilità originaria dell’opposizione. Come affermato per il giudizio di appello, in termini che possono estendersi anche al giudizio di opposizione di cui al caso in esame, i motivi generici, restano colpiti dalla sanzione di inammissibilità anche quando la sentenza del giudice dell’impugnazione non pronuncia in concreto tale sanzione, donde il difetto di motivazione della sentenza di appello in ordine a motivi così viziati in radice non può essere oggetto, a pena di inammissibilità, di ricorso per cassazione (Sez. 5, n. 44201 del 29/09/2022, Testa, Rv. 283808; Sez. 3, n. 10709 del 25/11/2014, dep. 2015, Botta, Rv. 262700; Sez. 1, n. 7096 del 20/01/1986, Ferrara, Rv. 173343).
Inammissibile, infine, è la questione di illegittimità costituzionale avanzata nella parte finale dei motivi aggiunti.
A parte il rilievo che proprio su questa stessa questione la Corte si è già pronunciata affermando che in tema di abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, il condono previsto dall’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003
(convertito, con modificazioni, dalla I. n. 326 del 2003) è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6
dell’allegato 1 del citato D.L. (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è
sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi al norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. (Sez. 3, n. 40676
del 20/05/2016, COGNOME, Rv. 268079-01), il motivo è inammissibile per inammissibilità dei motivi principali.
Questo Collegio aderisce infatti all’orientamento secondo cui l’inammissibilità
di un motivo del ricorso principale cui si colleghi un motivo aggiunto, idoneo, in astratto, a colmarne i difetti, travolge quest’ultimo, non potendo essere
tardivamente sanato il vizio radicale dell’impugnazione originaria; e ciò vale anche nel caso in cui il ricorso non sia integralmente inammissibile perché contenente
altri motivi immuni da vizi. (Sez. 5, n. 8439 del 24/01/2020, L., Rv. 278387-01).
4. Alla declaratoria di inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere per la parte ricorrente del pagamento delle spese del procedimento nonché, tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
Il collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall’art. 1 comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione prevista all’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopraindicate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 05/03/2025.