Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 15941 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 15941 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a CATANIA il 19/09/1979 COGNOME nato a ROMA il 11/04/1988
avverso la sentenza del 19/04/2024 della CORTE ASSISE APPELLO di TORINO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo yl-Prearalude-ckueelendolirigetto del ricorso di COGNOME e l’inammissibilità
del ricorso di COGNOME.
udito L’avvocato COGNOME per l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che conclude riportandosi alle conclusioni scritte che deposita unitamente alla nota spese;.
udito l’avvocato COGNOME per il ricorrente COGNOME che conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso;
udito l’avvocato COGNOME per la ricorrente COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19 aprile 2024 la Corte di assise di appello di Torino tra l’altro, confermato quella emessa dalla Corte di assise della stessa cit gennaio 2023, nelle parti relative alla condanna di NOME COGNOME per i rea fabbricazione, detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo e tentate le personali aggravate ed a quella di NOME COGNOME per il delitto di concors incendio doloso aggravato.
NOME COGNOME è stato condannato, in entrambi i gradi di giudizio, p avere confezionato un congegno artigianale potenzialmente micidiale, in quant atto a provocare gravi lesioni personali, che è stato collocato nel plico apparentemente indirizzato all’azienda RAGIONE_SOCIALE
A Sciacca si contesta, in particolare, di avere inserito in una busta d pluriball una miscela di perclorato di potassio, zolfo ed alluminio, con presenza scaglie di origine vegetale, per un peso complessivo di gr. 21,5, con un sistem attivazione formato da una batteria da 9 volt con innesco composto da un lampadina alogena.
Stando alla ricostruzione concordemente avallata dai giudici di merit l’esplosione di tale plico – che è stato recapitato, 1’8 marzo 2016, in n RAGIONE_SOCIALE – avrebbe potuto cagionare gravi lesioni agli arti o al volto di c avesse aperto, evento che non si è verificatosi in conseguenza della provvidenzi iniziativa di un dipendente della società il quale, insospettitosi, ha pr l’intervento delle forze dell’ordine.
La Corte di assise di appello ha disatteso, alla pagg. 85-88 della sent impugnata, le obiezioni sollevate dall’imputato – la cui responsabil quantomeno concorsuale, nell’accaduto risulta comprovata dal rinvenimento di tracce genetiche a lui riconducibili e non è, in punto di fatto, contestata – te alla qualificazione del fatto ai sensi della meno grave fattispecie contravvenzi sanzionata dall’art. 678 cod. pen..
I giudici di merito, pur riconoscendo che la miscela contenuta nel plico composta da sostanze connotate da una potenzialità esplosiva intrinsecament non elevata, hanno, nondimeno, ritenuto che l’ordigno predisposto dall’imput avesse, in concreto, caratteristiche di micidialità, in quanto dotato di mecca di attivazione «a trappola», tale da indurre il destinatario, ignaro dell’e contenuto della busta, ad aprirla in condizioni insicure, ciò che ben avrebbe p provocare un incendio – qualora il meccanismo fosse stato innescato in prossimit di materiale cartaceo o, peggio, esplosivo – o, comunque, in caso di apertu una deflagrazione con conseguenze traumatico-lesive anche gravi.
La Corte di assise di appello ha, ulteriormente, escluso che le conclusioni raggiunte in punto di micidialità dell’ordigno confezionato e spedito da Sciacca si · pongano in contraddizione con l’applicazione, da parte del giudice di primo grado, della circostanza attenuante della lieve entità del fatto, giustificata dalla complessiva potenzialità offensiva della busta esplosiva, di gran lunga inferiore a quella di strumenti bellici che, ugualmente, soggiacciono alla disciplina prevista dagli artt. 1, 2 e 4 legge 2 ottobre 1967, n. 895.
NOME COGNOME propone, con l’assistenza dell’avv. NOME COGNOME ricorso per cassazione affidato a due motivi – dei quali si darà atto, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione – con i quali deduce, rispettivamente, violazione di legge e vizio di motivazione.
3.1. Con il primo motivo, ascrive alla Corte di assise di appello di avere illegittimamente avallato la qualificazione giuridica del fatto ascrittogli compiuta dal giudice di primo grado, senza tener conto delle evidenti, oggettive ed insuperabili risultanze istruttorie dimostrative dell’insussistenza dell’oggetto materiale delle fattispecie delittuose sanzionate ai sensi della legge 2 ottobre 1967, n. 895, peraltro già sancita dalla Corte di cassazione con la pronuncia resa nella fase cautelare del presente procedimento.
Rileva, al riguardo, che le relazioni tecniche in atti sono concordi nell’attestare che il congegno oggetto di addebito non era micidiale, in quanto contenente un quantitativo di polvere del peso complessivo di appena 21,5 grammi, largamente inferiore a quello contenuto in prodotti pirotecnici di libera vendita (quali i petardi noti come «Mephisto Manna» o «Cobra 6») ovvero in quelli utilizzati, di regola, in occasione delle festività (quale la c.d. «Bomba Maradona»).
Aggiunge che la natura del materiale – perclorato di potassio, zolfo ed alluminio, con presenza di scaglie di origine vegetale – contenuto nell’ordigno de quo agitur conferma che, nella fattispecie, si è al cospetto di sostanze esplodenti anziché esplosive, ciò che avrebbe imposto l’inquadramento della condotta nell’ambito applicativo della contravvenzione sanzionata dall’art. 678 cod. pen..
Evidenzia, ulteriormente, che la Corte di cassazione, nella già richiamata decisione adottata a seguito del ricorso da lui presentato avverso l’ordinanza resa dal Tribunale del riesame a seguito dell’impugnazione del provvedimento cautelare emesso a suo carico, ha stigmatizzato la carenza, nella fattispecie, di elementi dimostrativi dell’attitudine del congegno a produrre rilevanti effetti distruttivi.
3.2. Con il secondo motivo, COGNOME taccia di manifesta illogicità la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, pur prendendo atto della natura esplodente del materiale contenuto nel plico recapitato alla RAGIONE_SOCIALE.r.I.,
ne ha ritenuto – pur in assenza di qualsivoglia dato di natura tecnica attestante che le modalità del suo concreto confezionamento lo rendessero, di fatto, micidiale – l’effettiva attitudine a provocare gravi lesioni all’integrità fisica dei sogget interessati.
Sottolinea, in proposito, che la Corte di assise di appello ha indebitamente tratto argomento, in chiave comparativa, da quanto accaduto in una distinta, precedente occasione, nella quale l’attivazione del plico «a trappola» provocò una fiammata che attinse il soggetto che, ignaro del contenuto, aveva aperto la busta e che, per ciò, subì lievi lesioni, per poi aggiungere che la ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito sconta la carenza di ogni concreto riscontro in ordine all’efficienza del congegno predisposto ed inviato con il suo apporto, nonché alla reale portata degli effetti prodotti dalla sua attivazione.
4. NOME COGNOME è stata tratta a giudizio e condannata per avere concorso all’incendio avvenuto il 31 marzo 2016 all’interno del CIE di INDIRIZZO di Torino, illecito commesso appiccando dolosamente il fuoco ad alcune suppellettili per il quale, in esito a separato giudizio, è stato condannato in via definitiva, tra gli altri, NOME COGNOME al tempo ospite della struttura.
La Corte di assise di appello – che ha seguito un percorso argomentativo parzialmente difforme da quello prescelto dal giudice di primo grado – ha ritenuto che la RAGIONE_SOCIALE, facente parte di un gruppo di attivisti impegnati in azione di supporto e solidarietà in favore dei migranti che, in attesa di essere espulsi, erano trattenuti presso il CIE, abbia approfittato della possibilità di intrattenere con loro e specificamente, con NOME COGNOME conversazioni telefoniche per rendersi autrice di un contegno francamente istigatorio, concretatosi nella prospettazione all’interlocutore dell’eventualità che la sopravvenuta, procurata inagibilità del centro avrebbe posto le autorità innanzi alla necessità di chiuderlo, così garantendo agli ospiti l’acquisizione di piena libertà di movimento.
A tal fine, ha valorizzato, da un canto, la circostanza che, già il 22 marzo 2016, la Volpacchio era stata sottoposta a controllo, nei pressi del CIE, mentre viaggiava a bordo di un veicolo all’interno del quale furono trovate palline da tennis contenenti accendini e diavolina – analoghe a quelle che, lo stesso giorno, sono state lanciate dagli attivisti all’interno del centro e la cui disponibilità ha agevola l’appiccamento del fuoco ad opera dei migranti – e, dall’altro, il tenore della conversazione da lei intrattenuta il 29 marzo 2016, cioè due giorni prima dell’incendio, con COGNOME nel corso della quale, stando all’interpretazione dei giudici di merito, ella suggerì all’interlocutore di dar vita all’incendio al precipuo scopo d rendere la struttura inservibile e di costringere le autorità a far cessare ogni restrizione per chi vi era ospitato.
La Corte torinese ha, quindi, disatteso il motivo di impugnazione con cui l’imputata aveva chiesto la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 424 cod. pen. anziché in termini di incendio doloso, sul rilievo che le fiamme appiccate dall’interno della struttura ai materassi, ai capi di abbigliamento ed alle altre masserizie che gli autori hanno prima appositamente ammassato hanno cagionato un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, come dimostrato dalla distruzione di ventuno posti letto e dall’estensione del fuoco ad una pluralità di moduli del centro, che al tempo accoglieva, in tutto, circa venti persone.
NOME COGNOME propone, con il ministero dell’avv. NOME COGNOME ricorso per cassazione articolato su due motivi, dei quali si darà atto, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione e con i quali deduce, rispettivamente, violazione di legge e vizio di motivazione.
5.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sua responsabilità concorsuale, a titolo di istigatrice, che assume essere stata ritenuta sulla scorta di una errata ed illogica esegesi del compendio istruttorio.
In proposito, segnala, innanzitutto, che i giudici di merito sono venuti meno all’obbligo di verificare se ed in quale misura si possa effettivamente ritenere che le frasi da lei pronunciate all’indirizzo di COGNOME abbiano inciso sulla determinazione del destinatario, cioé, secondo il noto modello controfattuale, lo abbiano indotto a porre in essere un contegno dal quale, altrimenti, egli si sarebbe astenuto o, quantomeno, abbiano irrobustito, consolidato e vivificato la sua preesistente determinazione criminosa.
Lamenta, sotto altro aspetto, che la Corte di assise di appello non abbia dedicato la necessaria attenzione al tema del dolo di concorso, traendo argomento, in via pressoché esclusiva, da una conversazione in occasione della quale ella, però, non si è abbandonata ad affermazioni apertamente istigatorie ed omettendo, per contro, di accertare se ella, in quanto concorrente morale, si fosse rappresentata e avesse, comunque, voluto il fatto tipico di reato, con la consapevolezza che, in assenza del proprio contributo, il fatto tipico non si sarebbe realizzato o si sarebbe realizzato con forme differenti.
Ascrive, in termini più generali, alla Corte piemontese di avere fondato, in ultimo, l’affermazione della sua penale responsabilità sulla «consistente verosimiglianza» o «forte plausibilità» della proposta ricostruzione della vicenda, id est di avere adottato un canone di giudizio difforme da quello legale, che subordina la condanna all’acquisizione della prova della colpevolezza «al di là di ogni ragionevole dubbio».
5.2. Con il secondo motivo, NOME COGNOME eccepisce violazione di legge per avere la Corte di assise di appello disatteso il motivo di impugnazione relativo derubricazione del fatto ai sensi dell’art. 424 cod. pen. sulla base di consider dedicate esclusivamente alla obiettiva connotazione dell’abbruciamento e senza considerare, invece, la possibilità che ella abbia agito perché animata d specifica finalità di danneggiare la cosa altrui e senza prevedere, invece, che condotta illecita frutto della sua istigazione sarebbe derivato un incend quantomeno, il relativo pericolo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è fondato e, pertanto, meritevole d accoglimento.
Il compendio indiziario raccolto a carico della RAGIONE_SOCIALE in relazion all’incendio sviluppatosi il 31 marzo 2016 presso il CIE «INDIRIZZO» di Tori poggia, in primo luogo (ovvero seguendo l’andamento cronologico degli eventi), sull’essere stata ella sottoposta a controllo, il 22 marzo 2016, mentre viaggi bordo di un veicolo al cui interno erano state collocate palline da tennis, conte accendini e diavolina, analoghe a quelle che, anche quel giorno, sono st introdotte nel centro mediante lancio dall’esterno.
Tale condotta, nel contesto considerato, è stata interpretata quale tangi contributo degli attivisti a facilitare il raggiungimento di uno degli ob strategici della campagna di solidarietà posta in essere dal collettivo nel l’imputata militava, rappresentato dal provocare il radicale deterioramento de condizioni del centro, fino a renderlo del tutto inagibile, sì da indurre le a in mancanza di alternative praticabili, a rilasciare i soggetti ivi ospitati.
La Corte di assise di appello, pur dando atto, in replica a specifica obiez difensiva ed a correzione di quanto statuito dal giudice di primo grado, d carenza di prova in ordine alla diretta e personale partecipazione di NOME COGNOME al lancio – ciò che, in ipotesi, avrebbe integrato una forma di concor materiale nel delitto di incendio, qualora si fosse stimata l’utilizzazio materiale introdotto con il descritto stratagemma al fine della commissione reato – ha segnalato, al riguardo, che la circostanza oggetto di effet accertamento accredita, da un canto, la ricostruzione che vuole la don consapevole del disegno finalizzato alla chiusura del centro (il 27 marzo 2016, resto, la perquisizione eseguita nel CIE aveva condotto al sequestro di al accendini, ma non anche di quello che NOME COGNOME era riuscito a celare alla vi degli operanti) e consente, dall’altro, di meglio interpretare il senso delle
lei pronunziate durante le conversazioni intercettate nei giorni seguenti e, specificamente, a cavallo della verificazione del fatto in contestazione.
In questo senso, già il giudice di primo grado aveva evidenziato che la Volpacchio, parlando al telefono, nel tardo pomeriggio del 22 marzo 2025, con un ospite del centro, lo aveva esortato ad inscenare iniziative, anche eclatanti, di protesta in relazione alle condizioni di vita riservate agli ospiti e ad inviar materiale, anche video-fotografico, da divulgare tramite i social media.
Il giorno seguente, del resto, la Volpacchio, discorrendo con COGNOME (condannato, insieme ad altri migranti, quale autore materiale dell’incendio del 31 marzo 2016), si presentava a lui come membro di un sodalizio impegnato da anni in materia di immigrazione e promotore, in specie, di una campagna mirante al superamento del sistema imperniato sui Centri di Identificazione ed Espulsione, alcuni dei quali erano stati, nel corso del tempo, chiusi.
COGNOME e la COGNOME erano, quindi, tornati sull’argomento nella conversazione n. 302 del 29 marzo 2016, ore 18:23:04, in occasione della quale la donna, incalzata dall’interlocutore, che le aveva chiesto quali iniziative avrebbero potuto essere adottate per porre rimedio ai problemi riscontrati all’interno del CIE, gli rappresentava che, su dodici centri già presenti sul territorio italiano, otto erano stati chiusi perché distrutti «da dentro», cioè in conseguenza della ribellione delle persone ivi ospitate che, per effetto di tale azione, erano state restituite alla piena libertà.
Ad immediato ridosso dell’incendio del 31 marzo 2016 si colloca, infine, la conversazione intercorsa alle ore 22:17:27 tra Fouzi e la Volpacchio, pronta a rassicurare l’uomo sul fatto che, nel probabile caso di trasferimento di almeno una parte dei migranti, ella ed i suoi sodali sarebbero stati pronti a prestare il necessario ausilio.
3. Ciò posto, la Corte di assise di appello ha ritenuto la responsabilità di NOME COGNOME a titolo di istigatrice, sul postulato che le informazioni da lei veicolate in ordine a quanto accaduto in altri CIE ed alle decisioni conseguentemente adottate dalle autorità, lungi dal risolversi in un dato neutro ed inidoneo ad incidere sull’altrui determinazione criminosa, si sono, invece, tradotte, nel suggerimento, neanche troppo velato, a porre in essere una radicale azione distruttiva, quale quella compiuta dando fuoco a coperte, materassi, masserizie.
I giudici di merito hanno, d’altro canto, ritenuto che l’indicazione offerta a COGNOME ha avuto indubbia efficacia eziologica sull’insorgenza ed il consolidamento del proposito criminoso che, ove l’odierna ricorrente si fosse astenuta dal rivolgersi nei suoi confronti in quei termini, non avrebbe assunto quelle specifiche connotazioni, e che la COGNOME abbia agito perché animata da dolo francamente
istigatorio, cioè consapevole dal fatto che le sue parole avrebbe rafforzat determinazione dell’interlocutore all’organizzazione ed all’esecuzione dell’illec
4. Il ragionamento sotteso alla decisione impugnata non convince.
La combinata, sinergica esegesi dei dialoghi intercorsi tra NOME COGNOME ed i soggetti che, nella seconda parte di marzo del 2016, si trovavano all’int del CIE «INDIRIZZO» di Torino ha correttamente indotto nei giudici di merito convincimento – sorretto, in questa parte, da considerazioni che si dipanano lungo un percorso argomentativo lineare e coerente – che la donna ha consapevolmente esortato i suoi occasionali interlocutori a porre in essere azioni oppositiv protesta in relazione alle condizioni di gestione del centro e, se possibile, a r i locali inagibili, in modo da forzare le autorità, in ossequio a quanto accad altre realtà territoriali, a dismettere, almeno temporaneamente, la struttura.
In questa cornice si iscrive il lancio, all’interno del centro, di palline da contenenti accendini e diavolina, che, già intuitivamente, appare collegato al r in contestazione, la cui commissione è stata, con ogni probabilità, agevolata da disponibilità, in capo agli autori del gesto delittuoso, di quello specifico mat
In proposito, la Corte di assise di appello ha chiarito, in adesione ad app obiezione difensiva – rivolta alla decisione di primo grado, adottata s presupposto che la RAGIONE_SOCIALE fosse sicuramente inserita nel novero di coloro che il 22 marzo 2016, si resero autori del lancio delle sfere – che la presenza di Gi RAGIONE_SOCIALE a bordo dell’autovettura sulla quale oggetti di quel sito erano riposti non comprova che ella abbia concorso, dal punto di vista morale materiale, alla fraudolenta introduzione nel CIE di oggetti idonei a provocare combustione.
Rebus sic stantibus, è arduo rinvenire, se non in termini generali e programmatici, un apprezzabile legame tra le informazioni fornite dall’imputata la quale, è bene precisare, non risulta avere mai prospettato, nean velatamente, l’eventuale messa a fuoco dei locali né accennato alla procura disponibilità di accendini e diavolina – a COGNOME e la decisione, da part quest’ultimo e dei correi, di cagionare un incendio all’interno del centro, ov tra il comportamento avente portata istigatoria e lo specifico fatto illecito del il destinatario si è, poco dopo, reso autore.
La motivazione della sentenza impugnata – stando alla quale le espressioni utilizzata dall’imputata costituiscono «un chiaro invito ad appiccare un incendi distruggere il CIE» – si rivela, sotto questo aspetto, logicamente incongrua palesemente distonica con il consolidato indirizzo ermeneutico stando al quale « tema di concorso di persone, la partecipazione psichica sotto for di istigazione richiede la prova che il comportamento tenuto dal presun
concorrente morale abbia effettivamente fatto sorgere il proposito criminoso ovvero lo abbia anche soltanto rafforzato, esercitando un’apprezzabile sollecitazione idonea ad influenzare la volontà altrui» (Sez, 3, n. 30035 del 16/0372021, R., Rv. 281968 – 01; Sez. 1, n. 2260 del 26/03/2014, dep. 2015, Rv. 261893 – 01; Sez. 6, n. 39030 del 05/07/2013, COGNOME, Rv. 256608 – 01).
Pertinente appare, d’altro canto, il riferimento al correlato principio per cui «la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà» (Sez. 2, n. 43067 del 13/10/2021, COGNOME, Rv. 282295 – 01; Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262310 – 01; Sez. 1, n. 10730 del 18/02/2009, COGNOME, Rv. 242849 – 01).
Le precedenti considerazioni impongono, pertanto, l’annullamento, nei confronti di NOME COGNOME, della sentenza impugnata, che deve essere disposto, ai sensi dell’art. 620, lett. /), cod. proc. pen., senza rinvio, giacché il material istruttorio, compiutamente riportato nella sentenza di primo grado, non comprende elementi diversi da quelli, sopra indicati, che si è detto essere inidonei a configurare, nella condotta di NOME COGNOME, un’istigazione precipuamente rivolta al reato commesso da COGNOME e dai correi e, rispetto ad esso, causalmente efficiente, onde deve, già in questa sede, prendersi atto dell’insussistenza dell’addebito.
Il ricorso di NOME COGNOME è, invece, nel complesso, infondato e, pertanto, passibile di rigetto.
Il tema di indagine devoluto, con entrambi i motivi, all’attenzione del giudice di legittimità attiene alla qualificazione giuridica delle condotte di fabbricazione, detenzione e porto in luogo pubblico poste in essere – quantomeno a titolo di concorso – dall’imputato, oltre che all’idoneità del congegno da lui predisposto a provocare, in caso di deflagrazione, gravi lesioni personali.
In punto di fatto, è pacifico che il plico de quo agitur conteneva una miscela di perclorato di potassio, zolfo ed alluminio, con presenza di scaglie di origine vegetale, per un peso complessivo di 21,5 grammi, e che il sistema di attivazione era formato da una batteria da nove volt e da un innesco composto da una lampadina alogena.
È, altresì, incontroverso, in tal senso rilevando l’inserimento dell’ordigno all’interno di una busta con pluriball ed il prescelto meccanismo di attivazione, che l’apertura del plico avrebbe determinato l’esplosione del materiale pirotecnico ivi contenuto.
7. In diritto, occorre ricordare, preliminarmente, che la giurisprudenza di legittimità, chiamata ad indicare i criteri distintivi tra le «materie esplodenti», la cui fabbricazione, detenzione e trasporto integrano la contravvenzione sanzionata dall’art. 678 cod. pen., e gli «esplosivi» che, se interessati da analoghe condotte, espongono, invece, chi se ne rende autore a responsabilità per i reati previsti e puniti dalla legge 2 ottobre 1967, n. 895, assegna valenza decisiva alla presenza del connotato di micidialità, intesa quale attitudine a provocare un’esplosione con rilevante effetto distruttivo che, tuttavia, può ricollegarsi sia alla struttura chimica del composto che, in alternativa, alle modalità di fabbricazione dell’ordigno (in questo senso, cfr., tra le tante, Sez. 1, n. 12767 del 16/02/2021, Salvi, Rv. 280857 – 01).
Da ciò discende, quindi, che «Ai fini della qualificazione di un materiale, composto da più elementi, quale ordigno micidiale con effetti esplosivi, come tale rientrante nella categoria delle armi da guerra, è irrilevante la natura dei singoli componenti, che, isolatamente considerati, possono anche essere non offensivi, dovendosi avere, invece, riguardo alla unitaria complessità di funzione e di effetto degli stessi; né tale qualificazione può essere esclusa sulla base della semplicità di fabbricazione dell’ordigno, occorrendo solo che lo stesso sia atto all’impiego e, cioè, in condizione di poter essere usato secondo la sua naturale destinazione» (Sez. 1, n. 41193 del 26/03/2018, Fallanca, Rv. 274754 – 01; in termini, cfr. anche Sez. 1, n. 42872 del 15/10/2009, Gentile, Rv. 244996 – 01).
Rebus sic stantibus, è stato, coerentemente, stimato che «Integra il delitto di illegale detenzione di esplosivi, e non la contravvenzione di detenzione abusiva di materie esplodenti, la condotta avente ad oggetto materiali pirotecnici, non micidiali se singolarmente considerati, che in determinate condizioni – quali l’ingente quantitativo, il precario confezionamento, la concentrazione in ambiente angusto, la prossimità a luoghi frequentati – costituiscono pericolo per persone o cose, assumendo nell’insieme la caratteristica della micidialità» (Sez. 1, n. 45614 del 14/10/2013, COGNOME, Rv. 257344 – 01; nello stesso senso vedi anche: Sez.
5, n. 15642 del 13/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 279104 – 01; Sez. 1, n. 16677 del 24/01/2011, COGNOME, Rv. 249958 – 01).
L’apprezzamento della micidialità è, allora, affidato ad un giudizio di fatto, finalizzato a verificare se ed in quale misura possa reputarsi che la condotta dell’agente – sebbene avente ad oggetto materiali pirotecnici privi di intrinseca micidialità – sia stata idonea ad esporre a pericolo l’incolumità delle persone in quanto connotata da particolari condizioni, conosciute dall’agente, che, in passato, sono state individuate, tra l’altro: nel quantitativo (ad esempio eccedente i limiti consentiti dalla licenza nel caso dei materiali pirici, cfr. Sez. 1, n. 38064 del 06/11/2006, COGNOME, Rv. 234979); nelle modalità di fabbricazione, di conservazione o di confezionamento (cfr. Sez. 1, n. 41193 del 26/03/2018, COGNOME, Rv. 274754, che, occupandosi della detenzione e porto di un involucro costituito da un cilindro metallico contenente materiale esplosivo, collegato mediante fili elettrici ad un “timer”, ha specificato che occorre aver riguardo alla unitaria complessità di funzione e di effetto dell’ordigno oltre che alla sua idoneità all’impiego); nelle caratteristiche del luogo di deposito, come un ambiente angusto (Sez. 1, n. 50925 del 19/07/2018, COGNOME, Rv. 274477; Sez. 1, n. 45614 del 14/10/2013, COGNOME, Rv. 257344).
Con specifico riferimento ai cc.dd. plichi esplosivi, va ricordato che, in ragione della spiccata attitudine all’offesa, l’art. 1 legge 18 aprile 1975 n. 110 ha espressamente equiparato alle armi da guerra una specifica categoria di «esplosivi», costituita dalle bottiglie e dagli involucri esplosivi o incendiari.
Anche questi congegni, tra i quali possono essere annoverati i plichi esplosivi, vanno, di conseguenza, qualificati come «ordigni micidiali» qualora dotati della capacità di cagionare una deflagrazione con possibilità di offesa a causa della vampata o della proiezione di schegge, non solo per la natura e quantità della carica esplosiva che essi in concreto contengono, ma anche per le modalità di confezionamento o per le particolari modalità di costruzione (cfr. Sez. 1, n. 6132 del 22/01/2009, Mattei, Rv. 243377, in un caso di detenzione di una «bomba carta»).
La micidialità dipende, sempre, dal congegno nel suo complesso e non dai singoli componenti, che, isolatamente considerati, possono anche essere non spiccatamente offensivi; ciò che occorre verificare è se esso – anche se composto da materiale esplodente in senso stretto come le polveri piriche la cui fabbricazione o detenzione è sanzionata dalle contravvenzioni di cui agli artt. 678 e 679 cod. pen. – sia in grado di funzionare provocando effetti esplosivi di tipo dirompente, quindi potenzialmente lesivi dell’integrità fisica (Sez. 1, n. 41193 del 26/03/2018,
Fallanca, cit.; Sez. 1, n. 12811 del 20/01/2017, COGNOME, n. m.; Sez. 1′ n.. 42872 del 15/10/2009, Gentile, Rv. 244996).
L’accertamento della natura del congegno ed in particolare della sua potenzialità a provocare effetti detonanti oppure deflagranti costituisce una questione di fatto rimessa al giudice di merito (Sez. 1, n. 6132 del 22/01/2009, COGNOME, Rv. 243377; Sez. 1, n. 4759 del 09/11/1993, COGNOME, Rv. 195914), che deve tuttavia risolverla senza incorrere in un vizio motivazionale sempre rilevabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen..
10. Nel caso di specie, la Corte di assise di appello ha rilevato che la modestia, sul piano quantitativo, della polvere utilizzata da Sciacca e dai suoi eventuali correi, di gran lunga inferiore a quella contenuta in prodotti pirotecnici di libera vendita, non assume – così come la contingente assenza di componenti idonee ad amplificare la potenzialità dell’esplosione mediante la proiezione di schegge valenza decisiva, dovendosi assegnare, piuttosto, fondamentale rilevanza, in vista dell’accertamento della micidialità del congegno, al suo peculiare meccanismo di attivazione, del tipo «a trappola».
Scrivono, al riguardo, i giudici di merito: «Tale caratteristica e la necessaria inconsapevolezza da parte del destinatario del contenuto del plico comporta che l’apertura dello stesso sarebbe potuta avvenire in condizioni ben lontane dalla sicurezza, in modo tale che si sarebbero potute sprigionare improvvise fiamme», per aggiungere, subito dopo, che «proprio il congegno a trappola tale da rendere attivabile una deflagrazione con conseguenze meccaniche traumatico-lesive anche gravi, in caso di apertura (con un quantitativo di polvere esplodente, confezionato in ambiente plastico idoneo a produrre una fiammata), unitamente alle circostanze di fatto, ossia all’invio e alla susseguente ricezione da parte di persona del tutto ignara dell’effetto che ne sarebbe potuto derivare, rendono il congegno qualificabile come micidiale, essendo le conseguenze ben prevedibili dell’improvvisa apertura da parte di persona ignota non più governabili dalla persona che lo ha inviato».
Tanto, in ragione del fatto, continua la Corte torinese, che «L’ignaro ricevente avrebbe potuto aprire il plico in qualsiasi condizione vicino a carta, prodot infiammabili o esplodenti, in circostanze pericolose, vicino a organi quali occhi e altro, con lesioni assai gravi».
Le considerazioni testé riportate hanno indotto i giudici di merito a ritenere che, proprio per le subdole modalità di consegna e possibile apertura del congegno, tutt’altro che determinante sia, ai fini considerati, la circostanza che il meccanismo di fuoco dell’ordigno – composto da cavo elettrico, una batteria alcalina ed una lampadina alogena – sia comune a quello tipico dei petardi,
pacificamente appartenenti alla categoria dei materiali esplodenti, dovendosi, piuttosto, esaltare la peculiarità della situazione concreta in cui il congegno avrebbe operato, rappresentata, come detto, dall’apertura «a trappola», da parte di persona del tutto inconsapevole, che avrebbe potuto involontariamente innescare la deflagrazione nelle più svariate e pericolose condizioni.
11. La motivazione della sentenza impugnata si colloca nella scia dell’indirizzo ermeneutico sopra richiamato, perché valorizza le concrete condizioni in cui la fiamma si sarebbe sviluppata, quale fattore di determinazione di un grave pericolo per l’incolumità personale che, altrimenti, non avrebbe avuto ragion d’essere.
La Corte di assise di appello, in altri termini, muove dal postulato che l’inserimento del materiale pirotecnico in una busta inviata tramite il servizio postale e recapitata al destinatario e la predisposizione di un meccanismo in forza del quale, all’apertura del plico, si sarebbe improvvisamente verificata, proprio per effetto della lacerazione dell’involucro, l’esplosione rendono tutt’altro che peregrina la possibilità che il malcapitato autore di quella operazione venisse, in tal caso, investito dal fuoco e, inibito all’adozione di dispositivi di protezione, subisse gravi lesioni personali.
Nella fattispecie, si è, dunque, al cospetto di una situazione di fatto che, al pari di quelle, sopra evocate, in precedenza venuta all’attenzione della giurisprudenza, vale a rendere micidiale un congegno contenente un modesto quantitativo di materiale, per sua natura, esplodente, anziché esplosivo.
A fronte di un percorso argomentativo rispettoso delle evidenze istruttorie e coerente con la descritta cornice interpretativa, il ricorrente articola, con entrambi i motivi di ricorso, obiezioni prive di pregio.
Sciacca, in primo luogo, evoca, a più riprese, la pronuncia (sentenza della Sez. 1, n. 19605 del 17/06/2020) con cui la Corte di cassazione annullò l’ordinanza resa dal Tribunale del riesame, confermativa di quella applicativa, nei suoi confronti, di misura coercitiva custodiale per i reati sanzionati dagli artt. 1, 2 e 4 della legge 2 ottobre 1967, n. 895.
Così facendo, trascura che quella decisione, imperniata sulle coordinate ermeneutiche sopra enunciate, censurò l’assenza di precise informazioni in ordine all’intensità degli effetti che il plico sarebbe stato in grado di provocare in caso di esplosione.
Nella circostanza, i giudici di legittimità segnalarono, da un canto, il peso assai contenuto della sostanza costituente la carica, la sua certa riconducibilità, per il basso potenziale e la composizione chimica, alla categoria del «materiale esplodente», nonché l’assenza di altre componenti idonee ad amplificare la
potenzialità dell’esplosione mediante la proiezione di schegge, ed evidenziarono, dall’altro, l’omessa indicazione delle modalità attraverso cui il meccanismo di fuoco, pur in difetto di schegge ed in presenza, invece, di una carica a basso potenziale, avrebbe potuto provocare una deflagrazione con conseguenze meccaniche traumatico-lesive anche gravi.
La Corte di cassazione, nell’occasione, pose l’accento su profili di primaria importanza che, nella decisione di merito, sono stati debitamente approfonditi, con esiti che sfuggono al sindacato di legittimità, con riferimento sia alle ragioni – sopra ampiamente illustrate – che inducono a ritenere che quel determinato ordigno, per come materialmente confezionato e destinato ad operare, avesse acquisito carattere di micidialità sia al preliminare dato concernente la dettagliata descrizione del congegno che, si legge alla pag. 85 della sentenza impugnata, conteneva, secondo quanto scrupolosamente accertato dalla Polizia Scientifica, una miscela di potassio, zolfo, alluminio e polvere, anche di tipo c.d. «flash», la cui combustione arriva sino a 3000 gradi centigradi, da considerarsi materiale esplodente con effetti deflagranti.
Sciacca, per il resto, indugia su questioni che la Corte di assise di appello ha analiticamente esaminato, offrendo risposte logicamente e giuridicamente ineccepibili, quali quelle che attengono al circoscritto potenziale del materiale pirotecnico inserito nell’ordigno ed all’efficienza del congegno della quale, a dispetto di quanto eccepito, senza il benché minimo riscontro, dal ricorrente, i giudici di merito hanno mostrato di non dubitare.
Parimenti insindacabile, nella chiave del giudizio di legittimità, è la rilevanza assunta, nella complessiva economia della decisione, dal riferimento ad un precedente, analogo episodio che, lungi dal fornire il destro – tanto più in carenza di dati che consentano una attendibile comparazione – alla non consentita, automatica, assimilazione tra vicende autonome e distinte, vale a confermare che, nell’ipotesi di effettivo recapito di plichi esplosivi, la deflagrazione che consegue all’apertura, in quelle particolari condizioni, della busta rende più che probabile che il fuoco si propaghi ad oggetti collocati in prossimità ed al corpo di chi, del tutto inconsapevole del suo pericoloso e, quindi, micidiale, contenuto, abbia maneggiato l’involucro.
13. Dal rigetto del ricorso di NOME COGNOME discende la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen..
Il ricorrente va, altresì, condannato alla rifusione – nella misura e secondo le modalità indicate in dispositivo – delle spese di giudizio relative alla presente fase
e sostenute dalle costituite parti civili, Ministero dell’interno e Presiden
Consiglio dei Ministri.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di RAGIONE_SOCIALE perché il fatto non sussiste.
Rigetta il ricorso di Sciacca Giuseppe che condanna al pagamento delle spese processuali e condanna il ricorrente al pa@amento eslek
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Condanna, inoltre, COGNOME NOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Minist
dell’interno e Presidenza del Consiglio dei Ministri, che liquida in complessivi e
4.500, oltre accessori di legge.
Così deciso il 17/01/2025.