Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 16901 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 16901 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Di NOMECOGNOME nato il 14/02/1975
avverso l’ordinanza emessa il 16/04/2024 dalla Corte di cassazione, Quinta Sezione penale visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni dell’Avvocato generale NOME COGNOME che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il presente procedimento è trattato nella fase rescissoria a seguito della pronuncia di questa Corte, emessa nella fase rescindente il 13 dicembre 2024, con cui veniva accolto il ricorso straordinario proposto da NOME COGNOME ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., avverso l’ordinanza emessa il 16 aprile 2024 dalla Corte di cassazione, Quinta Sezione penale.
Occorre premettere che la pronuncia emessa il 16 aprile 2024 dalla Corte di cassazione, Quinta Sezione penale veniva adottata in relazione al ricorso per cassazione proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza emessa nei suoi confronti dalla Corte di appello di Roma il 10 ottobre 2023, in riforma della decisione di primo grado, con cui l’imputato era stato condannato alla pena di due anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 223, comma 2, n. 2, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fall.), commesso a Roma il 4 ottobre 2016.
Nel caso di specie, la fondatezza del ricorso straordinario discendeva dal fatto che il termine per impugnare la sentenza di secondo grado, pronunciata dalla Corte di appello di Roma il 10 ottobre 2023, doveva essere individuato nella data del 7 febbraio 2024 e non in quella del 9 dicembre 2023, indicata nell’ordinanza impugnata, con la conseguenza che, essendo stato depositato il 22 gennaio 2024, l’atto di impugnazione presentato nell’interesse di NOME COGNOME doveva ritenersi tempestivo.
La tempestività dell’originario ricorso per cassazione, in particolare, discendeva dal fatto che il computo effettuato nell’ordinanza censurata nella fase rescindente del presente procedimento non teneva conto dell’indicazione del termine di sessanta giorni riportato nel dispositivo della sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma e menzionato, all’esito della stessa udienza, durante la lettura del dispositivo.
Ne derivava che l’individuazione del termine del 7 febbraio 2024, correttamente indicato dalla difesa dell’odierno ricorrente, conseguiva alla fissazione del termine di sessanta giorni per il deposito della sentenza di appello, riportato nel dispositivo letto in udienza, che scadeva il 9 dicembre 2023; da tale ultima data decorreva l’ulteriore termine di quarantacinque giorni, che scadeva il 23 gennaio 2024; infine, a tale scadenza dovevano aggiungersi ulteriori quindici giorni, rilevanti ai sensi dell’art. 581, comma 1-quater, cod. proc. pen., che comportavano il maturare del termine finale per proporre impugnazione alla data del 7 febbraio 2024.
Ne discendeva conclusivamente che, essendo stato il ricorso per cassazione di NOME COGNOME presentato il 22 gennaio 2024, l’atto di
impugnazione depositato presso la Corte di cassazione, Quinta Sezione penale, risultava proposto tempestivamente.
Da tale, incontroversa, tempestività conseguiva la revoca dell’ordinanza emessa dalla Corte di cassazione, Quinta Sezione penale, il 16 aprile 2024, con la fissazione, per l’esame del ricorso, nella fase rescissoria, dell’udienza del 19 febbraio 2024.
Dalla pronuncia adottata da questa Corte il 13 dicembre 2024, dunque, discende l’esame dell’originario ricorso per cassazione proposto da NOME COGNOME che deve essere esaminato, nella fase rescissoria, dopo la revoca della declaratoria di inammissibilità pronunciata con ordinanza del 16 aprile 2024.
Tanto premesso, deve osservarsi che con l’atto di impugnazione originario NOME COGNOME articolava un’unica censura difensiva, con cui deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, pronunciata il 10 ottobre 2023, per non avere la Corte di appello di Roma dato esaustivo conto della ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie di reato di cui agli ar 110 cod. pen., 223, comma 2, n. 2, legge fall., commesso a Roma il 4 ottobre 2016.
Tale condotta illecita, secondo l’assunto accusatorio, era stata realizzata da COGNOME mediante una pluralità di condotte gestionali dolose, consistite nel mancato adempimento degli oneri fiscali dell’azienda di cui il ricorrente era amministratore, per effetto della quale l’imputato era stato condannato con la sentenza pronunciata il 10 ottobre 2023 dalla Corte di appello di Roma, originariamente impugnata davanti alla Corte di cassazione, Quinta Sezione penale, alla pena di due anni di reclusione. La natura dolosa delle condotte gestionali controverse discendeva dal fatto che i debiti tributari e previdenziali maturati nei confronti dell’Agenzie delle entrate erano già sorti negli anni 2012 e 2013, a fronte di percentuali di pagamento non corrispondenti, per la loro modesta entità, alle risorse finanziarie di cui disponeva l’azienda amministrata dal ricorrente.
Viceversa, secondo la difesa del ricorrente, la brevità dell’arco temporale nel quale l’imputato ricoperto la carica di amministratore della società dichiarata fallita, seppure connotato da un mancato adempimento degli oneri fiscali dell’azienda, peraltro non contestato, avrebbe dovuto indurre la Corte di merito a escluderne la sistematicità delle condotte dolose, indispensabile per configurare la fattispecie di reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., per la qual era intervenuta la condanna censurata, che era stata pronunciata senza
un’adeguata ricognizione dell’elemento soggettivo del delitto contestato al ricorrente.
Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso per cassazione proposto da proposto da NOME COGNOME è inammissibile, risultando incentrato su motivi manifestamente infondati
Osserva il Collegio che l’assunto difensivo, relativo all’insussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 223, comma 2, n. 2, legge fall., per il quale il ricorrente era stato condannato con la sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma il 10 ottobre 2023, è smentito dalle emergenze probatorie.
Si consideri che il nucleo essenziale del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti di NOME COGNOME dalla Corte di appello di Roma si fondava sull’impostazione gestionale seguita dall’imputato nello svolgimento del suo incarico di amministratore societario, ispirata, sin dall’assunzione di tale carica, dal sistematico inadempimento degli oneri fiscali dell’azienda, che determinava la formazione di un consistente debito erariale. La consapevolezza degli effetti prodotti da questa scelta aziendale, del resto, è incontroversa, discendendo dal fatto che, come accertato nel giudizio di merito, questa impostazione gestionale proseguiva, senza soluzione di continuità, con il successivo amministratore societario, NOME COGNOME un congiunto del ricorrente, che veniva condannato, il concorso con il ricorrente, alla pena di due anni di reclusione.
In questa, univoca, cornice probatoria, deve rilevarsi che, a differenza dell’ipotesi di causazione dolosa del fallimento, nella quale tale esito è, effettivamente voluto, la crisi economica irreversibile conseguente a operazioni dolose, dal punto di vista della causalità materiale, costituisce l’effetto di comportamenti gestionali volontari, anche se non necessariamente diretti a provocare il dissesto aziendale.
Occorre, in ogni caso, precisare che, pur non essendo necessario che l’imputato abbia, volutamente, provocato la crisi irreversibile dell’impresa nella quale ricopre incarichi amministrativi, è comunque indispensabile, per la configurazione della fattispecie di reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., l’accettazione del rischio del verificare di una situazione di decozione
aziendale. Dispone, in particolare, la disposizione dell’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., che le pene stabilite dall’art. 216 si applicano agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, «hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società».
Le operazioni dolose alle quali fa riferimento l’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., infatti, attengono alla commissione di abusi gestionali o di infedeltà rispetto ai doveri imposti agli amministratori societari nell’esercizio delle cariche aziendali ricoperte. A tali comportamenti abusivi o infedeli, inoltre, devono essere equiparate tutte quelle attività gestionali che risultano intrinsecamente pericolose per l’equilibrio economico dell’impresa, comportando un rischio elevato di decozione aziendale.
Ne discende che il pregiudizio patrimoniale che può derivare dalle attività dolose prefigurate dall’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., correttamente contestate a NOME COGNOME, non si pone come diretta conseguenza dell’azione dannosa del soggetto attivo, ma dipende da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti tra loro coordinati.
In altri termini, nella fattispecie di reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., non rileva l’immediato depauperamento della società, ma la costituzione dei presupposti aziendali per un suo prevedibile avverarsi, in quanto le operazioni dolose compiute dagli amministratori societari, pur non comportando, di per sé sole, una diminuzione dell’attivo patrimoniale, determinano un depauperamento del patrimonio non giustificabile in termini di interesse per l’impresa.
Non può, in proposito, non richiamarsi il principio di diritto affermato da Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, COGNOME, Rv. 261684 – 01, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all’art 223, comma secondo, n. 2, I. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economicofinanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato».
Nella stessa direzione ermeneutica occorre richiamare il principio di diritto affermato da Sez. 5, n. 17408 del 12/12/2013, dep. 2014, Kurt, Rv. 259998 –
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01, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all’art 223, comma secondo, n. 2, I. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo».
In questa cornice, univoca, ermeneutica, deve evidenziarsi che, sulla base della relazione redatta dal curatore fallimentare e della documentazione acquisita presso l’Agenzia delle entrate, emergeva che i crediti tributari e previdenziali nei confronti dell’azienda amministrata da NOME COGNOME erano maturati a partire dagli anni 2012 e 2013.
A fronte di tali consistenti debiti tributari e previdenziali, erano state effettuate percentuali di pagamento modeste e non corrispondenti alle risorse finanziarie dell’azienda controverso, rappresentate dall’importo di 1.226,00 euro, su un ammontare complessivo di 42.942,46 euro, per l’anno 2012, nonché dall’importo di 7.774,35 euro, su un ammontare complessivo di 107.719,72 euro, per l’anno 2013.
Ne discende che, considerato il frazionamento dei pagamenti dovuti, il ricorrente non poteva considerarsi estraneo ai debiti non saldati per l’anno 2014, in riferimento al trimestre nel quale aveva mantenuto la carica di amministratore. Senza considerare che, sino all’anno 2016, l’inadempimento degli oneri fiscali risultava sistematica ed era caratterizzata da entità tanto maggiori quanto maggiore era stato l’attività imprenditoriale, che si sviluppava con un volume di affari significativo.
Appare, pertanto, ineccepibile il percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito, secondo cui la scelte gestionali dell’imputato e del successivo amministratore – NOME COGNOME – erano finalizzate a operare, sin dalla fase iniziale della gestione aziendale del ricorrente, risalente al 2013, facendo gravare sull’esposizione tributaria, in modo sostanzialmente integrale, l’attività d’impresa svolta.
A conferma della correttezza del percorso argonnentativo seguito dalla Corte di appello di Roma, non si può che richiamare, in linea con la giurisprudenza richiamata nel paragrafo 3, il principio di diritto affermato da Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 270046 – 01, che si attaglia perfettamente al caso di specie, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2, I. fall.
possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità».
4. Le considerazioni esposte impongono conclusivamente di dichiarare inammissibile il ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di 3.000,00 euro in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso 11 19 febbraio 2025.