Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 9933 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 9933 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME MONTEROTONDO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 06/09/2024 del GIP del TRIBUNALE di PESARO
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto procuratore NOME COGNOME, che ha chiesto annullarsi l’ordinanza con restituzione degli atti al Tribunale di Pesaro in funzio giudice dell’esecuzione per l’ulteriore corso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata, il GIP del Tribunale di Pesaro, quale giudice dell’esecuzione, dichiarò inammissibile l’istanza inoltrata da COGNOME NOME volta a ottenere la revoca del decreto di archiviazione per particolare tenuità del fatto adottato il 21/4/2021 n , nel procedimento n. 1612/2020 RGNR Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro.
Avverso l’ordinanza propone ricorso per Cassazione COGNOME, a mezzo del difensore di fiducia, denunciando la violazione di legge processuale, in relazione al disposto degli artt. 673 cod. proc. pen. e 3 lett. f) e 5 lett. d-bis dPR 313/2002 e degli artt. 3,13,24 e 25 dell Costituzione e, in subordine, qualora si ritenga che la norma processuale non consenta
l’accoglimento dell’istanza, sollevando la questione di legittimità costituzionale in relazion all’articolo 673 cod. proc. pen. La difesa deduce che:
COGNOME era stato indagato per il reato di cui alli art. 10-bis d.lgs. 74/00 per aver omesso quale sostituto d’imposta, di versare ritenute alla fonte scaturenti dalla dichiarazione modello NUMERO_DOCUMENTO anno d’imposta 2016 ma il reato era stato archiviato per la particolare tenuità del fatto con decreto che era stato iscritto nel casellario giudiziale;
la sentenza della Corte costituzionale n. 175 del 14/7/2022 aveva fatto venir meno la rilevanza penale della condotta ascritta a COGNOME;
era stato chiesto al GIP del Tribunale di Pesaro la revoca, ex art. 673 cod. proc. pen., del decreto o, in subordine, di sollevare la questione di legittimità costituzionale del norma nella parte in cui non consentiva la revoca del decreto di archiviazione adottato ai sensi dell’art. 131 bis cod. pen.;
il GIP aveva dichiarato inammissibile l’istanza ritenendo che la norma invocata non consentisse la revoca di un decreto di archiviazione senza prendere in considerazione la questione di legittimità costituzionale;
l’iscrizione nel casellario fa sì che il decreto di archiviazione produca effetti nocivi COGNOME, primo fra tutti l’ostacolo che pone alla possibilità di fruire “nuovamente de beneficio”, non più giustificati, avendo perso la condotta alla quale si riferisce ogni rilevan penale;
non sussistono ostacoli logici o sistematici che impediscano di pervenire alla revoca del decreto applicando in via analogica la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen.;
qualora si ritenga non esperibile tale rimedio, della questione deve essere investita la Corte costituzionale, violando siffatto risultato interpretativo i principi di uguaglianza cittadini di fronte alla legge, di diritto di difesa e di legalità.
Il PG ha concluso chiedendo annullarsi l’impugnata ordinanza con restituzione degli atti al GIP presso il Tribunale di Pesaro in funzione di giudice dell’esecuzione per l’ulterio corso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito riportate.
Le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che nella nozione di «sentenza», a norma dell’art. 111, comma 7, Cost. non rientra unicamente la pronuncia giurisdizionale avente detta forma, ma anche ogni altro provvedimento che, pur diversamente nomiNOME, abbia, per un verso, carattere decisorio e capacità di incidere in via definitiva su situazion giuridiche di diritto soggettivo e, per un altro, non sia soggetto ad alcun ulteriore mezzo d impugnazione ( n. 25080 del 10/6/2003, COGNOME)
In linea con tale principio, è stata ritenuta l’impugnabilità per Cassazione dell’ordinanza ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., proprio in considerazione del carattere decisorio e della capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni di diritto soggettivo, pu avendo forma di sentenza (Sez. 5, n. 36468 del 31/05/2023, COGNOME, Rv. 285076 – 01; Sez. 3, n. 5454 del 27/10/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284139 – 01; Sez. 1, 3875 del 29/11/2024 (dep. 2025), COGNOME).
In linea teorica, quindi, non è priva di fondamento la linea difensiva volta a prospettare l’utilizzabilità dell’incidente di esecuzione per rimuovere un decreto d archiviazione per la particolare tenuità del fatto adottato in relazione a condotte sanzionate da norme incriminatrici abrogate o colpite da pronunce d’incostituzionalità.
Venendo al caso in esame, il giudizio sull’ammissibilità del ricorso impone, però, di tener conto della rilevanza dell’iscrizione del decreto contestato nel casellario giudiziario della particolare natura del mezzo di impugnazione invocato, consentendo l’art. 673 cod. proc. pen. la rimozione o la modifica dei provvedimenti pregiudizievoli solo quando tali interventi trovino causa in mere presa d’atto della esistenza di accadimenti successivi che travolgano la decisione, e della portata della sentenza della Corte costituzionale n. 175 del 2022.
E’ noto che le Sezioni Unite ( n. 38954 del 30/5/2019, De COGNOME, Rv. 276463), nell’accogliere la tesi dell’iscrizione del provvedimento di archiviazione per la particola tenuità del fatto nel casellario, dopo aver precisato che del provvedimento non debba farsi menzione “nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e d pubblica amministrazione”, hanno escluso che “l’iscrizione in sé considerata [possa] essere ritenuta un effettivo pregiudizio che l’indagato ha un reale interesse ad evitare” e ciò i quanto I’ “esclusione dei provvedimenti che dichiarano la non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. dalle certificazioni del casellario rende infatti evidente come l’iscrizione assolv esclusivamente a quella funzione di memorizzazione della loro adozione destinata, come già evidenziato dalla sentenza Tushaj, ad esplicare i suoi effetti soltanto nell’ambito del sottosistema definito dalla disposizione da ultima richiamata ed all’interno del circuito giudiziario”.
Tali principi hanno una ricaduta immediata sul ricorso in esame in quanto addossavano all’istante un onere di allegazione volto a prospettare l’esistenza di un interesse concreto e attuale alla rimozione del provvedimento di archiviazione che non può ritenersi soddisfatto dal generico e astratto riferimento della “nuova fruizione de beneficio”. Nell’allegazione difensiva, infatti, il pregiudizio che l’impugnazione mira rimuovere discende automaticamente dalla stessa iscrizione del decreto nel casellario. La
valorizzazione di un tale pregiudizio ai fini dell’ammissibilità del ricorso, quin confliggerebbe con il risultato interpretativo cui è pervenuta la sentenza COGNOME.
Come già anticipato, però, ulteriori profili condannano il ricorso all’inammissibilità.
L’art. 10 bis d.lgs. 74/2002 è stato introdotto dall’art. 1, comma 414, della I. dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria per l’anno 2005), che sanzionava l’omesso versamento delle ritenute solo nel caso in cui esse fossero risultate oggetto di certificazione rilasciata ai sostituiti d’imposta.
La norma è stata modificata dall’art. 7 del d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, che puniva chiunque non versava entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti.
L’intervento legislativo ha avuto l’effetto di estendere la portata delittuosa dell condotta dell’omesso versamento delle imposte trattenute a titolo di ritenuta da parte del datore di lavoro sui compensi corrisposti ai propri dipendenti (ed assimilati) non solamente in relazione alle somme risultanti dalle certificazioni di imposta che il sostituto era tenu a rilasciare ai soggetti delle cui prestazioni lavorative egli si era avvalso ma anche a quell risultanti dalle altre dichiarazioni fiscali che il datore di lavoro è tenuto a presentare.
L’avvenuta interpolazione del testo della norma precettiva, pertanto, operato dal legislatore del 2015 ha, da una parte, reso punibili penalmente comportamenti che in precedenza esulavano dalla tipicità, ossia gli omessi versamenti delle ritenute risultanti esclusivamente dalle dichiarazioni annuali del sostituto d’imposta, ma, dall’altra, ha facilitato l’assolvimento degli oneri di accertamento per fatti che già integravano l previgente disposizione normativa, consentendo la dimostrazione del reato mediante l’acquisizione del solo modello 770 senza necessità di verificare le certificazioni rilasciat così da rivitalizzare “per via normativa, quella che era stata la precedente interpretazione, propugnata, fra l’altro, da Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 11 gennaio 2013, n. 1443; da Corte di cassazione, Sezione III penale, 12 maggio 2014, n. 19454; e da Corte di cassazione, Sezione III penale, 25 giugno 2014, n. 27479, ma che, tuttavia, il supremo organo nomofilattico previsto dal nostro ordinamento aveva ritenuto, con la citata sentenza n. 24782 del 2018, non condivisibile” (Sez. 3, n. 2558 del 25/10/2023, COGNOME).
E’ poi intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 175 del 2022, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale in data 20 luglio 2022, che ha dichiarato la illegittimi costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 158 del 2015, nella parte in ha aggiunto all’art. 10 bis le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” così facendo tornare in vigore l’originaria formulazione dell’art. 10 bis.
L’abolitio criminis determinata alla pronuncia della Corte costituzionale è stata, quindi, parziale non avendo comportato alcuna conseguenza sulla rilevanza penale dell’omesso versamento delle ritenute superanti la soglia di punibilità attestate dalle certificazio rilasciate ai sostituti ancorché risultanti anche dalla dichiarazione resa dal sostitu d’imposta.
Il ricorrente, quindi, al fine di beneficiare dell’abolitio criminis invocata avr dovuto allegare elementi che consentissero di ricondurre la debenza delle ritenute omesse dalle sole dichiarazioni fiscali indirizzate agli uffici tributari e non anche dalle certific rilasciate ai dipendenti ( in tal senso, anche se relative al giudizio di cognizione, Sez. 3, 2338/2023 citata; conf. Sez. 3. n. 2338 del 27/9/2022 (dep. 2023), COGNOME).
Un tale onere di allegazione, poi, non può ritenersi soddisfatto dalla riproduzione dell’addebito archiviato e dalla evidenziazione che non faceva menzione delle certificazioni rilasciate ai sostituiti.
Con il d.lgs. 158/2015, infatti, la debenza delle somme a titolo di ritenute risultante de modello 770 acquisì tipicità indipendentemente dal rilascio delle certificazioni ai sostitu così che la nuova fattispecie delimitò un ambito di operatività che andò a intersecare quello della preesistente in relazione all’omesso versamento delle ritenute risultanti sia dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti che dalla dichiarazione del sostituto.
L’omesso riferimento in imputazione alle certificazioni, pertanto, nella vigenza della novella del 2015, era priva di efficacia selettiva potendo essere addebitata tanto al mancato rilascio delle certificazioni quanto alle strategie probatorie del PM, interessato a limita l’onere probatorio su lui gravante alla produzione del modello NUMERO_DOCUMENTO. La valorizzazione nella contestazione della sola dichiarazione, quindi, potendo aver trovato causa nell’obiettivo di rendere più agevole l’assolvimento dell’onere probatorio,dispensando il PM dalla prova del rilascio delle certificazioni, non più necessaria ai fini della condanna, rende del tut arbitrario il processo inferenziale secondo cui non riferendosi la contestazione alle certificazioni le medesime non furono rilasciate.
Non può che concludersi, pertanto, che la riproduzione della contestazione nel corpo del ricorso non consente il necessario controllo in punto di riferibilità della pronuncia incostituzionalità invocata alla condotta archiviata per la particolare tenuità del fatto.
Anche sotto tale profilo il ricorso risulta inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna della parte privata che lo ha proposto al pagamento delle spese del procedimento, nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma
che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, si stima equo determinare, considerati i profili di inammissibilità ravvisati, in euro tremila.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processua e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 21/1/2025