Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 20599 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
PRIMA SEZIONE PENALE
Penale Sent. Sez. 1 Num. 20599 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/03/2025
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato a Parete il 20/01/1951 avverso l’ordinanza del 16/05/2024 del TRIB. SORVEGLIANZA di Bologna esaminati gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta del Sostiututo Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto il
rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in preambolo il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha respinto il reclamo proposto da COGNOME avverso il provvedimento, in data 27 gennaio 2023, con il quale il Magistrato di sorveglianza aveva negato al ricorrente i rimedi risarcitori di cui all’art. ex art. 35-ter legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.) in relazione al periodo di detenzione, specificamente indicato nel provvedimento impugnato, patito presso l’Istituto di pena di Parma.
Per ciò che qui interessa, il Tribunale di sorveglianza ha motivato il rigetto del reclamo, in primo luogo confermando la correttezza dei criteri di computo dello spazio individuale in cella (pari a 6,71 mq, condivisa in un periodo con altro detenuto) e concludendo che il condannato aveva, nel periodo in contestazione, fruito di uno spazio compreso tra i tre e i quattro metri quadrati.
In secondo luogo, quanto ai fattori asseritamente degradanti la detenzione (infiltrazioni di acqua e limitazione della possibilità di permanere fuori dalla cella a sole due ore al giorno), ha osservato come le condizioni negative dedotte dal detenuto fossero state smentite dalle informazioni acquisite presso il menzionato Istituto di pena e che, pertanto, il detenuto non fosse stato sottoposto ad alcun trattamento disumano.
Avverso detta ordinanza ricorre COGNOME, per mezzo del difensore di fiducia, avv. COGNOME deducendo la violazione dell’art. 665, comma 5, cod. proc. pen. in punto di mancata attivazione da parte del Giudice specializzato dei poteri istruttori, volti a garantire l’effettività della tutela del condannato, a fronte di una situazione – quale quella oggetto di scrutinio – in cui le affermazioni svolte dal condannato sono affatto divergenti da quelle riferite dall’Istituto di pena.
Richiama, a conforto, la giurisprudenza di legittimità che impone al Giudice specializzato – alla presenza di dubbi ovvero divergenze – di attivare i poteri istruttori, nonchØ la giurisprudenza convenzionale secondo la quale, fermo il principio dell’onere probatorio sul condannato, nei casi in cui l’Amministrazione penitenziaria sia nel possesso di informazioni a conferma o smentita delle allegazioni del detenuto, l’onere della prova di fornire una «risposta convincente» grava sulle Autorità. Invoca, infine, il principio di «vicinanza della prova», in virtø del quale il soggetto nella cui disponibilità sono gli elementi probatori occorrenti alla dimostrazione del fatto controverso deve farsi carico di produrli in giudizio.
Sulla scorta di tali principi, pone in rilievo che – ove l’Amministrazione penitenziaria non abbia prodotto, unitamente alla relazione esplicativa, idonei elementi a sostegno della stessa – il Tribunale di sorveglianza e, ancoro prima il magistrato di sorveglianza, avrebbe l’onere di attivarsi ai sensi dell’art. 666, comma 5, cod. proc. pen., non potendo superare la distonia tra le informazioni prestando cieco ossequio alla relazione dell’Istituto di pena.
Il Sostituto procuratore generale, NOME COGNOME intervenuto con requisitoria scritta depositata in data 11 febbraio 2025, ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deduce censure infondate e dev’essere, pertanto, rigettato.
Com’Ł noto, il sistema di tutela a favore dei detenuti Ł stato rafforzato concretizzandosi in due azioni, autonome e complementari, disciplinate, rispettivamente, agli artt. 35-bis e 35-ter Ord. Pen., che consentono al detenuto di essere sottratto in modo tempestivo ad una condizione detentiva contraria al senso di umanità – per effetto di un intervento di tipo preventivo-inibitorio, con possibilità di esecuzione coattiva, inbase all’art.35-bis Ord. pen. – e, dall’altro, di conseguire un ristoro per la violazione già subita, grazie alla tutela risarcitorio-compensativa di cui all’art. 35-ter Ord. pen.
L’essenziale caratteristicadell’art.35-ter Ord. pen. consiste nell’aver introdotto rimedi di tipo compensativo/risarcitorio, con estensione dei poteri di verifica e d’intervento del magistrato di sorveglianza, allo scopo di rafforzare gli strumenti tesi alla riaffermazione della «legalità della detenzione». Sitratta, in sostanza, di misure che rappresentano un quid pluris rispetto al previgente sistema di tutela, essenzialmente incentrato sul potere del magistrato di sorveglianza di inibire la prosecuzione dell’attività contra legem, in ottemperanza al monito derivante dalla Corte EDU di introdurre ricorsi tali «che le violazioni dei diritti tratti dalla Convenzione possano essere riparate in maniera realmente effettiva» (così, Corte EDU, 8/01/2013, COGNOME ed altri c. Italia, §98).
Il legislatore ha perimetrato il pregiudizio risarcibile ai sensi dell’art. 35-ter al fatto di aver subìto «condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Ciò premesso, non Ł superfluo premettere che il ricorrente non avversa specificamente le modalità di calcolo dello spazio fruibile nella cella ovvero l’errata valutazione dei fattori compensativi, ma lamenta che – a fronte di divergenti informazioni fornite dal condannato e dall’Amministrazione penitenziaria sui due richiamati aspetti – i Giudici specializzati avrebbero dovuto attivare i poteri istruttori di cui all’art. 666, comma 5, cod. proc. pen.
3.1. Rileva – di contro – il Collegio come il Tribunale di sorveglianza abbia fatto buon governo dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, costituzionale e convenzionale sul tema e ha mostrato di avere tenuto in considerazione tutti i lamentati motivi di disagio dedotti dall’interessato, ritenendoli – con motivazione non manifestamente illogica – non incidenti sulla decisione discrezionale a essa spettante.
In primo luogo, ha correttamente posto in evidenza la circostanza, non avversata dal ricorrente, che il detenuto aveva sempre fruito di uno spazio superiore a tre metri quadrati.
A tal proposito va ricordato come, a seguito di quanto chiarito nella pronuncia della Grande Camera del 20/10/2016 nel procedimento Mursic c. Croazia, mentre la costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a tre metri quadrati in una cella collettiva determina una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU, uno spazio personale dentro la cella compreso fra i tre e i quattro metri quadrati può assumere rilievo nella prospettiva dell’art. 3 CEDU solo se l’esiguità della superficie si accompagna ad altri fattori d’inadeguatezza del regime penitenziario (impossibilità di fare esercizio
all’aria aperta, scarso accesso alla luce naturale e all’aria, insufficiente sistema di riscaldamento, omesso rispetto di basilari requisiti igienico-sanitari).
SicchØ, sotto tale profilo, il Tribunale non ha trascurato le deduzioni del condannato, ma ha valutato le condizioni negative dedotte dal detenuto (ridotta permanenza all’aria aperta, scarsa luminosità) e le ha reputate smentite dalle informazioni acquisite, svolgendo considerazioni puntuali e articolate sugli orari di fruizione del passeggio in cortile, della saletta per la socialità, rimarcando altresì l’avvenuta prestazione di attività lavorativa del detenuto per tre mesi nell’anno 2021, in periodi non sovrapposti a quelli appena indicati.
3.2. Del pari infondata Ł la censura di mancato approfondimento, da parte del Magistrato e del Tribunale di sorveglianza, dell’obiettiva situazione descritta dal detenuto, attraverso i poteri istruttori allo stesso spettanti, poichØ le informazioni contenute nella relazione dell’Istituto di pena sono state ritenute dal Giudice specializzato analitiche e adeguate.
NØ a diversa conclusione può giungersi – come invoca il ricorrente – sulla scorta della giurisprudenza di legittimità richiamata nel ricorso secondo cui «Nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen., le allegazioni dell’istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata e riscontrata sotto il profilo dell’esistenza e della decorrenza della detenzione, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull’Amministrazione penitenziaria l’onere di fornire idonei elementi di valutazione di segno contrario» (Sez. 5, n. 18328 del 08/06/2020, Di Primo, Rv. 279208 01 Sez. 1, Sentenza n. 23362 del 11/05/2018, Lucchese, Rv. 273144 – 01).
Ciò perchØ – come già correttamente evidenziato nel provvedimento impugnato – detto arresto Ł riferito ai casi in cui – diversamete da quello che ci occupa – sussiste un’incertezza probatoria non altrimenti superabile.
Si legge, invero, al § 3.6. di Sez. 1 n. 23362, Lucchese, citata, che «Il caso, dunque, si caratterizza per l’assenza di «informazioni ufficiali» intendendosi per tali quelle che l’Amministrazione – unico soggetto in possesso dei dati storici relativi a metratura delle stanze, numero delle presenze nel periodo, allocazione del detenuto all’interno dell’istituto, orari di accesso alle strutture esterne alla camera di pernottamento, etc. – Ł tenuta a fornire al Tribunale di Sorveglianza secondo il principio di leale collaborazione e di soggezione alla verifica giurisdizionale. Non vi Ł, pertanto, contrasto tra informazioni fornite dall’Amministrazione e contenuti dell’istanza introduttiva, quanto assenza di dati storici capaci di orientare in fatto l’esercizio del potere giurisdizionale. L’unico dato conoscitivo disponibile Ł rappresentato dalle affermazioni del soggetto ristretto, riscontrate quanto alla mera «esistenza» del periodo detentivo». SicchØ, proprio attraverso l’analisi della stessa giurisprudenza convenzionale citata dal ricorrente e richiamando il principio di “vicinanza della prova”, Ł giunta, del tutto condivisibilmente, ad affermare che «anche nel sistema interno, innanzi al Magistrato e al Tribunale di Sorveglianza, debba trovare applicazione il principio di diritto per cui la particolare condizione del soggetto ristretto realizza le condizioni – nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35-ter Ord.pen. – per l’inversione dell’onere della prova, nel senso che l’affermazione dell’istante (contenuta in istanza ammissibile e riscontrata quanto alla avvenuta privazione di libertà nel periodo indicato) Ł da ritenersi assistita da una presunzione relativa di veridicità dei suoi contenuti che Ł compito dell’amministrazione ribaltare attraverso la produzione di elementi di smentita idonei», restando «salva, in simile contesto procedimentale, l’attivazione dei poteri di verifica ex officio, il cui esercizio va ritenuto necessario, sempre sulla base dei principi generali, lì dove venga – anche in virtø delle controdeduzioni dell’amministrazione o in rapporto a documentazione comunque acquisita – a determinarsi una condizione di incertezza probatoria non altrimenti superabile».
Detta situazione non si Ł in alcun modo verificata e, del resto, neppure Ł specificamente
dedotta dal ricorrente.
E, infatti, il Tribunale di sorveglianza ha spiegato, in particolare, che – con riferimento alla fruizione di ore di aria e socialità in misura inferiore a quella segnalata – non vi Ł motivo di porre in dubbio le informazioni rese dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro a fronte di una situazione che avrebbe potuto costituire oggetto ad un apposito reclamo, invece mai proposto.
A tale motivazione, con la quale il Tribunale di sorveglianza espone – con ragionamento convincente, privo di fratture razionali e con puntuale riferimento a dati obiettivi – che non emergeva, in tale situazione, alcuna necessità di disporre approfondimenti istruttori, il ricorrente oppone censure del tutto a-specifiche.
4. Dalle considerazioni svolte, come preannunciato, discende il rigetto del ricorso, cui consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così Ł deciso, 12/03/2025 Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME