Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 19647 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 19647 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nata a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 11/07/2023 della Corte d’appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile; udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di COGNOME NOME, il quale, dopo la discussione, ha concluso insistendo per l’annullamento della
sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 11/07/2023, la Corte d’appello di Reggio Calabria, per quanto qui ancora interessa, confermava la sentenza del 21/12/2020 del Tribunale di Reggio Calabria di condanna di NOME COGNOME alla pena di due anni e sei mesi di reclusione ed C 13.000,00 di multa per il reato di omissione continuata della comunicazione delle variazioni del proprio patrimonio da parte di persone condannate per taluno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 – bis, cod. proc. pen. (art. 81 cod. pen. e artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646; capo B dell’imputazione).
Secondo tale capo d’imputazione, i suddetti reati erano stati contestati all’imputata «perché, condannata con sentenza passata in giudicato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. (sentenza divenuta irrevocabile il 9.11.2011), con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ometteva di comunicare al Nucleo di Polizia Tributaria del luogo di dimora abituale, entro trenta giorni dal fatto e successivamente entro il 31 gennaio dell’anno successivo, le variazioni dell’entità e della composizione del proprio patrimonio inerenti elementi di valore non inferiori ad euro 10.329,14;
in particolare, la COGNOME NOME ometteva di comunicare:
entro trenta giorni dal fatto, la liquidazione in data 7.05.2012 in favore del padre COGNOME NOME della polizza ramo vita RAGIONE_SOCIALEpRAGIONE_SOCIALE. P_IVA, alla stessa intestata, per l’importo di euro 24.560,07;
entro il 31 gennaio 2013, la liquidazione in data 7.05.2012 in favore del padre COGNOME NOME delle polizze ramo vita RAGIONE_SOCIALE n. 002281909 e n. 020639142, alla stessa intestate, per l’importo complessivo di euro 30.476,51.
Fatto commessi in Reggio Calabria 1’8 giugno 2012 ed il 10 febbraio 2013. Con la recidiva infraquinquennale».
Avverso l’indicata sentenza del 11/07/2023 della Corte d’appello di Reggio Calabria, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME, affidato a tre motivi.
2.1. Il primo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 192, 533 e 546, «n. 1)» (recte: comma 1), lett. e), dello stesso codice, all’art. 5 cod. pen. e agli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982.
La ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata là dove la Corte d’appello di Reggio Calabria, sulla base dei criteri oggettivo, soggettivo e misto che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, sono stati elaborati dalla giurisprudenza ai fini della verifica della sussistenza d un’ignoranza inevitabile della legge penale, ha escluso la sussistenza di tale esimente.
La COGNOME sostiene che, viceversa, nel caso di specie, applicando i suddetti criteri, si sarebbe dovuti pervenire all’opposta soluzione della sussistenza di un’ignoranza inevitabile del precetto penale dettato dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982.
In particolare, quanto al criterio oggettivo, la ricorrente deduce l’illogicità de motivazione rappresentando che il suddetto precetto sarebbe «estraneo ai valori della società intesa come facente parte del ricorrente in quel momento storico», considerato che «la circostanza da valutare è la spersonalizzazione che opera
nei consociati, che trovano nella medesima situazione di tempo, luogo ed operativa e che sarebbero potuti scivolare nell’ignoranza del precetto penale». La COGNOME evidenzia che ella «era appena stata dimessa dal carcere, luogo già di per sé di spersonalizzazione, in uno alla volontà di chiudere col passato, in assenza di conto corrente, possessore legittima di scorta di denaro antecedentemente al suo arresto, e pone in essere una riscossione sul conto del padre», elementi i quali sarebbero stati tali da determinare l’ignoranza inevitabile del precetto.
Quanto al criterio soggettivo, la ricorrente deduce che «se il concetto è legato alla carenza strutturale di ipotizzabilità di conoscenza in capo al consociato di una norma specifica, nemmeno confluita nel codice penale più aduso alla conoscenza del consociato, va da sé che l’evidente mancanza di specializzazione sul punto avrebbe dovuto rivestire logicamente più peso nella sentenza».
Quanto al criterio misto, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Reggio Calabria, nell’escludere la sua buona fede, avrebbe reso una motivazione apparente e viziata da un’inammissibile inversione dell’onere della prova e sostiene che gli elementi della «conserva di prodotti leciti maturati ant arresto», dell’«assenza di conto su cui versare la somma, sicché la richiesta al padre su cui vige la medesima presunzione relativa atteso il rapporto parentale» e del «finalismo legittimo di fruizione futura della somma» avrebbero deposto nel senso della sussistenza della scriminante.
Nel richiamare alcune pronunce della Corte di cassazione sul tema dell’ignoranza inevitabile del precetto penale, la ricorrente rappresenta che ella «si è limitata a ricevere un qualcosa che, di fatto, già le apparteneva», cioè il denaro che da tempo aveva versato mediante il pagamento dei ratei delle due polizze, il quale, perciò, «faceva parte già del proprio patrimonio» e del quale era «già formalmente in possesso». Ciò esposto, la COGNOME sottolinea che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, il dolo del reato de quo «va di volta in volta desunto da indici sintomatici, legati alle vicende di acquisizion dei beni in rapporto anche al valore degli stessi» (Sez. 6, n. 36659 del 17/06/2015, Anzalone, Rv. 264666-01) e che la stessa Corte di cassazione ha affermato che «on rientrano tra le variazioni patrimoniali le acquisizioni di somm costituenti rendite provenienti da beni già di proprietà del condannato, quindi, rispetto alle quali questi non ha impiegato fonti patrimoniali o assunto corrispondenti obblighi – in relazione ai quali si giustificano le verifiche che norma incriminatrice intende assicurare, imponendo gli obblighi di comunicazione» (Sez. 6, n. 17691 del 14/04/2016, COGNOME, non massimata). Pertanto, la riscossione di «quanto era già di sua proprietà ed in suo possesso», con riguardo a beni «formatisi prima del delitto di mafia», escluderebbe la presenza di
quell’effettiva e consapevole volontà di omettere la comunicazione che è necessaria per ritenere integrato il dolo del reato, tanto più che le variazioni patrimoniali erano state realizzate mediante atti scritti (cioè le richieste di chiusur delle polizze e di versare il relativo denaro sul conto corrente del padre), idonei, per loro natura, a essere accertati.
La ricorrente rappresenta infine che «la condotta di immissione di capitale fermo, già posseduto ai fini della sua spendita, non ha prodotto in concreto (per omissione di denuncia) alcuna offensività all’ordine pubblico (bene giuridico tutelato) tenendo anche conto del finalismo della condotta».
2.2. Il secondo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 62-bis, 99 e 133 cod. pen. e agli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982.
2.2.1. Sotto un primo profilo, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Reggio Calabria avrebbe omesso di motivare in ordine al suo motivo di appello con il quale aveva dedotto che i reati non erano due in continuazione tra loro (quello commesso il 08/06/2012 e quello commesso il 01/02/2013) ma solo uno, con la conseguente illegittimità dell’irrogato aumento di pena per la continuazione di due mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa.
2.2.2. Sotto un secondo profilo, la COGNOME contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine all’attribuzione della recidiva (infraquinquennale) e al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Nel sottolineare come il riconoscimento della recidiva non si possa basare sull’automatico riscontro della sussistenza di precedenti penali, la ricorrente deduce l’inidoneità degli elementi valorizzati dalla Corte d’appello di Reggio Calabria per ritenere, ai fini sia del riconoscimento della recidiva sia del diniego delle circostanze attenuanti generiche, che ella aveva mostrato «un atteggiamento refrattario all’osservanza dei precetti normativi e una proc delinquenziale» La COGNOME rappresenta come la stessa Corte d’appello, così ritenendo, avrebbe trascurato la sua positiva condotta processuale, per avere reso «genuine» dichiarazioni spontanee, e la non gravità del fatto, sia in quanto dovuto all’ignoranza del precetto penale, sia in quanto non si potrebbe ritenere «riprovevole farsi liquidare risorse di denaro lecite ed ante primo delitto di condanna» sul conto del padre «poiché priva di conto appena dimessa dal carcere acché potesse allontanarsi con la propria famiglia».
2.2.3. Sotto un terzo profilo, la ricorrente lamenta la mancanza della motivazione con riguardo alla determinazione della misura dei due aumenti di pena per la recidiva (quattro mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa) e per la continuazione (due mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa).
2.3. Il terzo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 157 e 161 cod. pen. e agli artt. 3 e 31 della legge n. 646 del 1982, con riguardo alla prescrizione del reato.
La ricorrente deduce che, anche considerando i periodi di sospensione del corso della prescrizione che sono indicati a pag. 8 della sentenza impugnata: a) il termine di prescrizione di sette anni e sei mesi, applicabile nel caso in cui venisse esclusa la recidiva, sarebbe maturato «in epoca antecedente l’emissione della sentenza di secondo grado (11.7.2023) ovvero in data 1.3.2021 ovvero antecedentemente la sentenza di prime cure»; b) nel caso di conferma dell’applicazione della recidiva infraquinquennale: b.1) «il termine è già maturato in data 1.2.2022 ovvero in epoca antecedente la sentenza impugnata, considerando la pena edittale massima per il reato contestato – anni sei – e l’aumento di anni 3 pari alla metà del massimo ex art. 99 c. 2 c.p.»; b.2) «anche volendo considerare il termine massimo di prescrizione per la fattispecie di reato in anni sette e mesi 6 (01.02.2013-01.08.2020) e applicando al suddetto termine l’aumento di anni 3 pari alla metà del massimo ex art. 99 c. 2 cp. il reato è comunque prescritto alla data del 01.08.2023», prescrizione rilevabile nel caso in cui il ricorso non fosse ritenuto inammissibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non è fondato.
1.1. L’art. 30, primo comma, della legge n. 646 del 1982, nel testo di tale comma sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge 13 agosto 2010, n. 136, stabilisce che le persone che sono state condannate con sentenza definitiva per i delitti di criminalità organizzata di cui all’art. 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen., o per il delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui all’art. quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o che sono già sottoposte, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, devono comunicare al nucleo di polizia tributaria (ora al nucleo dì polizia economicofinanziaria; art. 35, comma 8, lett. a, del d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95) del loro luogo di dimora abituale le variazioni nell’entità e nella composizione del loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore a C 10.319,14. La comunicazione deve essere effettuata entro trenta giorni dal fatto (primo periodo) e entro il 31 gennaio di ciascun anno (secondo periodo) per le variazioni dell’anno precedente che, sommate tra loro («concernono complessivamente elementi»), risultino non inferiori al suddetto importo di C 10.319,14 (ciò all’evidente fine d evitare l’elusione del precetto tramite l’artificioso frazionamento delle operazioni).
Tali obblighi durano dieci anni, i quali decorrono dalla data del decreto o della sentenza definitiva di condanna.
Il successivo art. 31 della legge n. 646 del 1982 punisce l’omissione della comunicazione con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da C 10.329,00 a C 20.658,00 (primo comma).
Lo stesso art. 31 stabilisce altresì che alla condanna segue la confisca obbligatoria dei beni acquistati nonché del corrispettivo dei beni alienati (secondo comma) e, nei casi in cui non sia possibile procedervi, la confisca “per equivalente” di denaro, beni o altre utilità dei quali i soggetti agenti abbiano la disponibil (terzo comma).
Occorre peraltro precisare che, come è stato chiarito anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 81 del 2014, a seguito del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, «Me disposizioni, precettiva e sanzionatoria, contenute negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 sono state trasfuse negli artt. 80 e 76, comma 7, del suddetto decreto legislativo, limitatamente ai soggetti sottoposti a misure di prevenzione», sicché « predetti artt. 30 e 31 sono rimasti, di conseguenza, in vigore con riguardo ai soli soggetti condannati con sentenza definitiva».
Il delitto previsto dall’art. 30 e sanzionato dall’art. 31 della legge n. 646 d 1981 è, evidentemente, un reato proprio, potendo essere commesso solo da chi, nel decennio che precede i fatti modificativi della propria consistenza patrimoniale, sia stato condannato per gli indicati reati di criminalità organizzata (Sez. 5, n 41423 del 05/07/2018, D’COGNOME, Rv. 274492-01), di pura omissione e di pericolo presunto, essendo il relativo evento integrato dalla mancata comunicazione del fatto patrimoniale modificativo eccedente l’indicato valore soglia nei termini previsti (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, COGNOME Bello, Rv. 264162-01).
Come è stato chiarito in quest’ultima sentenza della Corte di cassazione, il reato è concepito come a tutela dell’ordine pubblico, atteso che lo scopo della norma incriminatrice è quello di consentire un controllo sistematico e immediato da parte dei nuclei di polizia economico-finanziaria, nell’arco di un decennio dagli eventi giuridici presupposti dalla stessa norma, di tutte le variazioni che intervengano nell’entità e nella composizione del patrimonio di soggetti che sono ritenuti “pericolosi”, in relazione al pericolo di illiceità dello loro fonti patrimo al fine di consentire di accertare per tempo se le suddette variazioni dipendano, eventualmente, dallo svolgimento di attività illecite.
È stato altresì osservato come l’obbligo di comunicazione imposto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982 costituisca una misura di prevenzione di natura patrimoniale volta a esercitare un controllo preventivo e costante sui beni dei condannati o degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o camorristico, anticipato rispetto a quello svolto con le misure, pure
patrimoniali, di carattere preventivo-repressivo costituite dal sequestro e dalla confisca, al fine di accertare ogni forma di illecito arricchimento (Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, COGNOME, Rv. 251724-01)
Sul fondamento di tale natura del reato, la Corte di cassazione ha affermato che l’integrazione di esso non è esclusa né dalla natura pubblica dell’atto modificativo della consistenza patrimoniale dell’obbligato né dalla liceità del bene oggetto dell’atto di disposizione (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264163-01).
1.2. Quanto all’elemento psicologico del reato, esso è integrato dal dolo generico, sicché non è necessario che l’autore abbia agito con lo specifico scopo di occultare alla polizia economico-finanziaria le informazioni cui si riferisce l’obblig normativamente imposto (Sez. 5, n. 38098 del 29/05/2015, COGNOME, Rv. 264998-01; Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, COGNOME, Rv. 253199-01).
1.3. Così brevemente compendiate le principali connotazioni del reato, si deve rilevare che il motivo in esame, nel sollevare censure che attengono, essenzialmente, all’asserita ignoranza inevitabile della legge che prevede l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, sviluppa tuttavia altresì alcune considerazioni che interessano l’elemento materiale del reato, in ragione dei riflessi che esse avrebbero anche sul piano della predetta ignoranza inevitabile, il che ha induce a fare le precisazioni che seguono.
1.3.1. La ricorrente deduce, anzitutto, che ella si sarebbe «limitata a ricevere qualcosa che, di fatto, già le apparteneva», cioè il denaro che da tempo aveva versato mediante il pagamento dei ratei delle due polizze, il quale, perciò, «faceva parte già del proprio patrimonio» e del quale era «già formalmente in possesso».
Con riguardo a tali deduzioni, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 30, primo comma, della legge n. 646 del 1982, l’obbligo di comunicazione che è imposto alle persone che sono state condannate per gli indicati reati di criminalità organizzata ha a oggetto «tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio» che eccedano il previsto valore soglia.
Secondo l’orientamento assolutamente maggioritario della Corte di cassazione – che il Collegio condivide e intende, perciò ribadire – «a funzione preventiva dell’istituto si realizza con una verifica sistematica a carattere analitico, previs dalla norma con riferimento a tutte le variazioni, non solo nell’entità, ma anche nella composizione del patrimonio, cioè riguardo tanto al valore complessivo dei beni posseduti, per l’accertamento e la verifica di liceità di ogni incremento di capitali e di beni, quanto ai singoli elementi che concorrono a formarlo e, quindi, ad ogni variazione del complesso dei capitali disponibili e dei beni posseduti, in vista dell’accertamento e del controllo di tutte le operazioni di natura economico-
finanziaria compiute dall’affiliato» (Sez. 6, n. 31817 del 22/04/2009, COGNOME, Rv. 244404-01, secondo cui integra il delitto de quo l’omessa comunicazione di un mutuo o di un affidamento bancario alla cui concessione corrisponda l’assunzione di un debito di pari importo. In senso analogo: Sez. 2, n. 24493 del 19/04/2023, COGNOME, non massimata; Sez. 5, n. 14665 del 06/03/2019, COGNOME, Rv. 27555201; Sez. 5, n. 41423 del 05/07/2018, COGNOME, Rv. 274492-01; Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, COGNOME, Rv. 251724-01).
Allo stesso proposito, si può richiamare anche Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, COGNOME, non massimata, secondo cui «’obbligo di comunicazione riguarda tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio, ossia le alterazioni sia quantitative, sia qualitative della consistenza del complesso dei beni appartenenti al titolare, su cui si proietta la garanzia della responsabilit patrimoniale ex art. 2740 cod. civ. È evidente che l’arricchimento patrimoniale riveniente dal versamento di una somma, ingente, a titolo di risarcimento dei danni (si presume in gran parte di natura non patrimoniali) conseguenti alla morte di uno stretto congiunto in sinistro stradale rientra a pieno titolo nella categoria, nulla rilevando che essa non sia la conseguenza di un’operazione economica o speculativa».
A fronte di tale assolutamente maggioritario orientamento della giurisprudenza di legittimità, la ricorrente ha richiamato l’isolata sentenza COGNOME della Corte di cassazione (Sez. 6, n. 17691 del 14/04/2016, COGNOME, cit.), la quale ha testualmente affermato che: «oggetto di contestazione sono le somme ricavate dall’imputato a titolo di canone di affitto di terreni di sua proprietà, considera come fruttificazione del suo patrimonio immobiliare. 4. Ritiene la Corte che – a prescindere dalla natura mobiliare o immobiliare del bene che fa ingresso nel patrimonio del condannato per mafia – non ogni elemento positivo che entra a far parte di detto patrimonio costituisce variazione patrimoniale rilevante ai fini della comunicazione. Essa, invero, si individua in quegli incrementi – che incidono sulla composizione o sulla entità del patrimonio oltre il limite previsto – la c acquisizione abbia comportato un impiego di fonti patrimoniali – o assunzione di corrispondenti obblighi – da parte del condannato. Non rientrano, quindi, tra le variazioni patrimoniali le acquisizioni di somme costituenti rendite provenienti da beni già di proprietà del condannato, quindi, rispetto alle quali questi non ha impiegato fonti patrimoniali o assunto corrispondenti obblighi – in relazione ai quali si giustificano le verifiche che la norma incriminatrice intende assicurare, imponendo gli obblighi di comunicazione».
Orbene, nel riaffermare la correttezza dell’orientamento assolutamente maggioritario della Corte di cassazione, si deve ribadire che, alla luce delle già evidenziate natura di reato di pericolo presunto del delitto de quo e ratio di esso
di consentire ai nuclei di polizia economico-finanziaria un controllo patrimoniale sistematico e a carattere analitico nei confronti di persone che sono ritenute particolarmente pericolose, al fine di accertare tempestivamente se le variazioni del loro patrimonio dipendano, eventualmente, dallo svolgimento di attività illecite, l’obbligo di comunicazione che è imposto a tali persone ha a oggetto tutte le variazioni (superiori alla soglia normativamente prevista) sia nell’entità sia nell composizione del loro patrimonio, senza che si possano ritenere ammesse valutazioni soggettive in relazione alla natura e provenienza delle stesse variazioni. Tali valutazioni, oltre a non essere previste dalla chiara lettera dell legge (che parla, indifferentemente, di «variazioni»), potrebbero infatti frustrare, evidentemente, l’indicato scopo della stessa legge di assicurare un monitoraggio costante, sistematico e analitico del patrimonio dei condannati per reati di criminalità organizzata e di effettuare, eventualmente, le conseguenti necessarie verifiche.
Alla luce di ciò, si deve reputare che, nel caso in esame, il riscatto anticipato delle due polizze assicurative e la liquidazione di esse integrasse senz’altro una variazione nella composizione del patrimonio dell’imputata e, tenuto conto della liquidazione delle stesse polizze sul conto corrente del padre, anche nell’entità dello stesso patrimonio, nel senso indicato dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982.
1.3.2. Secondo la ricorrente, in secondo luogo, «la condotta di immissione di capitale fermo, già posseduto ai fini della sua spendita, non ha prodotto in concreto (per omissione di denuncia) alcuna offensività all’ordine pubblico».
Con riguardo a tale aspetto, si deve osservare che: a) da un lato, la Corte costituzionale ha espressamente affermato che, nel sistema che è stato congegnato dal legislatore con gli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, la mancanza della comunicazione della variazione patrimoniale al nucleo RAGIONE_SOCIALE polizia economico-finanziaria – anche quando tale variazione consegua a un atto soggetto a pubblicità legale – «risulta tutt’altro che priva di offensività» (sentenza n. 99 d 2917); b) dall’altro lato, con riguardo alla verifica dell’offensività “in concreto” del se, cioè, la condotta omissiva dell’agente risulti, eventualmente, assolutamente inidonea, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, a porre in pericolo il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva e, perciò, non punibile (Sez. 3, n. 50299 del 27/10/2023, Vandelli, Rv. 285589-01) -, che il Tribunale di Reggio Calabria ha adeguatamente evidenziato come la mancata comunicazione, da parte dell’imputata, delle variazioni in questione avesse reso necessario lo svolgimento di articolate attività di indagine, sia presso RAGIONE_SOCIALE sia presso l’istituto bancario presso il quale era stato acceso il conto corrente del padre della stessa imputata, al fine di rintracciare le somme che erano state liquidate a seguito del riscatto anticipato delle due polizze,
ciò che era tale da evidenziare la concreta offesa recata al più volte evidenziato scopo della norma incriminatrice di consentire un controllo immediato, oltre che sistematico, delle variazioni che intervengono nel patrimonio di soggetti di accertata pericolosità sociale (pag. 15 della sentenza di primo grado).
1.4. Le doglianze della ricorrente attengono peraltro essenzialmente, come si è detto, all’asserita ignoranza inevitabile, contrariamente a quanto è stato ritenuto dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, della legge che prevede l’obbligo di comunicazione della variazione patrimoniale.
A tale proposito, la Corte di cassazione ha affermato il principio, che è condiviso dal Collegio, secondo cui l’ignoranza dell’obbligo di comunicare alla polizia giudiziaria le variazioni patrimoniali da parte del condannato per reati di criminalità organizzata non esclude il dolo del reato, in quanto l’art. 30 della legge n. 646 del 1982, che impone tale obbligo, è la norma integratrice del precetto penale, sebbene la sanzione per la sua violazione sia contenuta nel successivo art. 31 della stessa legge, e, quindi, l’ignoranza in ordine a essa si traduce non in errore sul fatto, bensì in ignoranza della legge penale, rilevante solo in caso di sua inevitabilità (Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, dep. 2014, COGNOMECOGNOME, Rv. 25899101, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha escluso l’ignoranza inevitabile del precetto osservando che il reo, condannato per il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen., aveva in ogni caso l’onere di informarsi della disciplina a lui applicabile. In senso analogo, in precedenza: Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, COGNOME, Rv. 253200-01).
Al fine di stabilire la sussistenza o no, nella specie, di un’ignoranza inevitabile della legge penale, ai sensi dell’art. 5 cod. pen., nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, a fronte di un illecito che si deve ritenere rientrare nell’area dei mala quia prohibita, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha fatto uso dei criteri cosiddetti oggettivo, soggettivo e misto che sono stati elaborati dalla giurisprudenza sulla scia della suddetta pronuncia della Corte costituzionale (si veda ancora: Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, dep. 2014, COGNOME, cit.; Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, COGNOME, cit.).
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la Corte d’appello di Reggio Calabria, nel fare correttamente riferimento a tali tre criteri oggettivo, soggettivo e misto, ha applicato gli stessi senza incorrere né in violazioni di essi né in contraddizioni o illogicità.
I giudici reggini hanno in particolare congruamente argomentato: a) quanto al criterio oggettivo, come il testo dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 non fosse né oscuro né contraddittorio né oggetto di «caos interpretativo» e come il contenuto precettivo dello stesso articolo, oltre a essere, perciò, sufficientemente chiaro, non si poteva neppure ritenere assolutamente estraneo ai valori correnti
nella società (in misura tale, come è stato precisato dalla due citate sentenze della Sesta sezione della Corte di cassazione, da non trovare nessuna rispondenza nella cosiddetta “sfera parallela laica”); b) quanto al criterio soggettivo, che è basato sulle caratteristiche personali dell’agente che possano influire sulla conoscenza del precetto, quali l’elevato deficit culturale (alla luce, ad esempio, della condizione d straniero che provenga da aree culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia o dell’incolpevole carenza di socializzazione, come è stato affermato, quanto a quest’ultima ipotesi, da Sez. 3, n. 2149 del 09/05/1996, COGNOME, Rv. 20551301), come siffatte situazioni fossero del tutto estranee alle condizioni culturali sociali dell’imputata; c) quanto al criterio misto, che ha riguardo ai casi in cu operino, in varia misura e con diverso spessore, criteri sia oggettivi sia soggettivi, in combinazione tra loro, come lo stesso criterio misto, per le ragioni indicate, non fosse neppure esso applicabile, e come, comunque, la giurisprudenza avesse evidenziato come l’esimente della buona fede possa trovare applicazione solo nel caso in cui l’agente abbia fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato dell norma e questa sia stata violata per cause indipendenti dalla volontà del reo, al quale non possa essere mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, con la conseguenza che non può essere considerato sufficiente a integrare gli estremi della scriniinante il comportamento passivo dell’agente – come era stato nel caso di specie -, essendo invece necessario che questi si attenga, con l’ordinaria diligenza, all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi (Sez. 5, n. 41476 del 25/09/2003, COGNOME, Rv. 227042-01. In senso analogo: Sez. 1, n. 25912 del 18/12/2003, dep. 2004, Garzanti, Rv. 228235-01).
Tale motivazione della Corte d’appello di Reggio Calabria appare conforme ai principi che sono stati elaborati dalla giurisprudenza in tema di ignoranza inevitabile della legge penale e congruamente argomentata con riguardo alla loro applicazione al caso di specie.
Quanto al dolo del delitto, l’imputata, oltre ad avere ovviamente coscienza di essere stata condannata per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., aveva altresì coscienza e volontà di non effettuare le comunicazioni in contestazione, che, come si è detto, assumeva di non avere effettuato in quanto non a conoscenza dell’obbligo che le era imposto dalla norma.
Il secondo motivo non è fondato sotto tutti i profili in cui è articolato.
2.1. Quanto al primo di tali profili, si deve osservare che, come è stato precisato da Sez. 6, n. 35670 del 12/05/2005, COGNOME (non massimata sul punto), l’art. 30 della legge n. 646 del 1982 prevede due distinti obblighi di comunicazione: il primo è relativo alle variazioni che concernono elementi di valore non inferiore a € 10.329,14, le quali devono essere comunicate entro trenta giorni dal fatto; il
secondo è relativo alle variazioni intervenute nell’anno precedente che concernono «complessivamente» elementi non inferiori alla suddetta soglia di € 10.329,14.
I due obblighi hanno perciò sia un diverso oggetto sia un diverso termine di adempimento. Quanto all’oggetto, il secondo obbligo è relativo, più specificamente, alle variazioni patrimoniali intervenute nell’anno precedente che, pur non raggiungendo ciascuna la soglia sopra indicata, la raggiungano complessivamente nell’anno solare.
Questo, come si è detto al punto 1.1, al fine di evitare l’elusione dell’obbligo – e del controllo – mediante il frazionamento, per valore e per tempo, delle variazioni patrimoniali.
Alla luce della chiara lettera e di tale ratio del precetto, si deve reputare che, come è stato correttamente ritenuto dai giudici di merito, colui o colei che ometta di comunicare, entro trenta giorni dal fatto, una variazione sopra soglia e, poi, essendo intervenuta, nello stesso anno solare, anche una variazione sotto soglia, ometta di comunicarla entro il 31 gennaio dell’anno successivo, nonostante essa, insieme con quella sopra soglia («complessivamente»), superi evidentemente la soglia stessa, viola entrambi gli obblighi sopra indicati – in particolare, viola anch il secondo obbligo – e commette, perciò, non uno ma due reati, eventualmente unificati, come è stato ritenuto nella specie, dal vincolo della continuazione.
2.2. Quanto al secondo dei profili in cui è articolato il motivo in esame, esso attiene all’attribuzione della recidiva (infraquinquennale) e al diniego dell circostanze attenuanti generiche.
2.1.1. Quanto all’applicazione della recidiva, la Corte di cassazione ha affermato il principio che è richiesta al giudice una specifica motivazione sia che egli affermi sia che escluda la sussistenza della stessa (Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, COGNOME, Rv. 274782-01). In motivazione, la Corte ha chiarito che tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato.
In senso sostanzialmente analogo, è stato affermato che l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva facoltativa attiene all’esercizio di u potere discrezionale del giudice, del quale deve essere fornita adeguata motivazione, con particolare riguardo all’apprezzamento dell’idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo (Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 26346401).
Più diffusamente, la stessa Corte di cassazione ha precisato che, ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo
dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto a esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente t fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato sub iudice (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, COGNOME, Rv. 270419-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha applicato la recidiva (infraquinquennale) reputando che i reati attribuiti all’imputata, consistendo nella violazione di obblighi che conseguivano alla condanna per il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen., si dovessero ritenere il frutto della medesima spinta a delinquere e, come tali, rimarcassero un atteggiamento dell’imputata refrattario all’osservanza dei precetti normativi e la sua proclività al delitto.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un discrezionale giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
2.2.2. Quanto al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, la Corte di cassazione afferma costantemente che, sul tema, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fi della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269-01).
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli fac riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli al disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, COGNOME, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244-01).
Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare allo scopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivo
e prevalente, a tale fine, l’elemento – che aveva già valorizzato ai fin dell’attribuzione della recidiva e che attiene alla capacità a delinquere dell’imputata -, della sua refrattarietà all’osservanza dei precetti normativi e della sua proclivi al delitto, come era dimostrato dal fatto che i reati a lei attribuiti consisteva nella violazione di obblighi che conseguivano alla precedente condanna per il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
2.3. Quanto al terzo dei profili in cui è articolato il motivo in esame, esso attiene alla determinazione degli aumenti di pena per la recidiva e per la continuazione.
2.3.1. Quanto alla determinazione dell’aumento di pena per la recidiva, si deve rammentare che la Corte di cassazione ha costantemente ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficient che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243-01).
Nel caso di specie, l’aumento di pena di quattro mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa che è stato irrogato per la recidiva infraquinquennale, a fronte di una pena base di due anni di reclusione ed C 11.000,00 di multa, è al di sotto della media dell’aumento di pena che è previsto, sul piano edittale, per la suddetta circostanza aggravante, per la quale può essere operato un aumento «fino alla metà» (art. 99, secondo comma, cod. pen.) – e, quindi, nel caso di specie, fino a un anno di reclusione ed C 5.500,00 di multa -, con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben può ritenersi assolto mediante il riferimento, già operato dal Tribunale di Reggio Calabria, ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., del cui impiego i giudici di merito si devono ritenere avere così dato sufficientemente conto.
2.3.2. Quanto alla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione, si deve rammentare che, con la sentenza COGNOME (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 -01), le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno stabilito che il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre a
individuare il reato più grave e a stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite.
Questo rigore astrattamente richiesto ai giudici di merito nel determinare l’aumento di pena per ciascuno dei reati in continuazione deve essere peraltro calato, di volta in volta, nel caso concreto, atteso che, come è stato chiarito dalle Sezioni unite nella stessa sentenza COGNOME, il grado di impegno motivazionale che è richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all’entità degli stessi e è funzionale a consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto d proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risult rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia ope surrettiziamente un cumulo materiale di pene.
Nel sottolineare come il peso (in termini di aumento di pena irrogata) attribuito dal giudice a ciascuno dei reati satellite concorra a determinare il ragionevole trattamento sanzionatorio – con la conseguente necessità che siano resi palesi gli elementi che hanno condotto la stesso giudice al risultato al quale è pervenuto – la sentenza COGNOME non ha peraltro mancato di sottolineare il consolidato il principio secondo cui, quando venga irrogata una pena di gran lunga più vicina al minimo che non al massimo edittale, il mero richiamo ai «criteri di cui all’art. 133 c.p.» si deve ritenere motivazione sufficiente per dimostrare l’avvenuta ponderazione di una pena adeguata all’entità del fatto, atteso che l’obbligo della motivazione, in ordine alla congruità della pena inflitta, tanto più s attenua quanto maggiormente la pena in concreto irrogata si avvicina al minimo edittale (le Sezioni unite hanno richiamato, sul punto: Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464-01; Sez. 1, n. 6677 del 05/05/1995, COGNOME, Rv.201537-01).
Tanto premesso in ordine alla disciplina che governa il dovere di motivazione in ordine alla quantificazione della pena anche con riguardo agli aumenti per i reati satellite, si deve rilevare che, nel caso di specie, le conformi sentenze dei giudici di merito hanno irrogato alla COGNOME, per il meno grave reato commesso il 08/06/2012, l’aumento di pena di due mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa.
Risulta quindi determinante, nel caso di specie, il fatto che l’irrogato aumento di pena di due mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa appare evidentemente di esigua entità, anche in rapporto alla pena edittale che è prevista per il reato dall’art. 31 della legge n. 646 del 1982 (reclusione da due a sei anni e multa da C 10.329,00 a C 20.658,00).
A fronte di ciò, la ricorrente neppure censura la concreta quantificazione che è stata operata dai giudici di merito né rivolge specifiche critiche in ordine a concreto rispetto dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen., dolendosi unicamente
dell’omessa motivazione circa la quantificazione dell’aumento di pena, sicché non si può ritenere neppure evidenziato quale concreto interesse sorreggerebbe il suo ricorso sul punto.
Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Posto che, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere i reati attribuiti alla COGNOME, per quanto si è detto al punto 2.1.1., si deve tenere conto della recidiva infraquinquennale, circostanza a effetto speciale (art. 99, secondo comma, cod. pen.: «La pena può essere aumentata fino alla metà»), e considerato che tale circostanza incide sul calcolo del termine prescrizionale minimo del reato, ai sensi dell’art. 157, secondo comma, cod. pen. e, in presenza di atti interruttivi, anche sul calcolo del termine massimo, ex art. 161, secondo comma, cod. pen. (Sez. 4, n. 44610 del 21/09/2023, COGNOME, Rv. 285267-01; Sez. 5, n. 32679 del 13/06/2018, COGNOME, Rv. 273490-01; Sez. 2, n. 5985 del 10/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272015-01; Sez. 3, n. 50619 del 30/01/2017, COGNOME, Rv. 271802-01; Sez. 6, n. 50089 del 28/10/2016, COGNOME, Rv. 268214), ne consegue che il tempo necessario a prescrivere i reati attribuiti all’imputata è di nove anni (sei anni, massimo della pena edittale, più tre anni, ai sensi del secondo comma dell’art. 157 cod. pen.).
Risultando l’esistenza di atti interruttivi, si deve rilevare che tale interruzio della prescrizione, a norma dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., richiamato anche dall’art. 160, terzo comma, dello stesso codice, non può comportare l’aumento, nel caso di specie di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., di più della metà del tempo necessario a prescrivere, con la conseguenza che, nel caso di specie, tale tempo è perciò di tredici anni e sei mesi.
Poiché i reati ascritti alla COGNOME sono stati commessi il 08/06/2012 e il 01/02/2013, essi si prescriverebbero solo, rispettivamente, il 08/12/2025 e il 01/08/2026. Dovendosi, altresì, aggiungere 210 giorni di sospensione del corso della prescrizione durante il giudizio di primo grado.
Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 29/02/2024.