Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 21570 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 21570 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 15/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a San Giovanni Ilarione il 29/08/1946, avverso la sentenza del 10/10/2024 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avv. NOME COGNOME del foro di Busto Arsizio, difensore di fiducia di NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20/12/2023, il Tribunale di Busto Arsizio, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, condannava NOME COGNOME alla pena di mesi otto di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, per aver omesso, in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, di versare l’imposta sul valore aggiunto, entro il termine del 27/12/2017 per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, dovuta per euro 342.182,00 in base alla dichiarazione annuale per l’anno di imposta 2016, applicando le pene accessorie di legge e disponendo confisca di denaro e beni nei confronti dell’imputato fino alla concorrenza del valore di euro 342.182,00, infine sostituendo la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, di cui impartiva le prescrizioni da osservare.
Con sentenza del 10/10/2024, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125, comma 3, 192, comma 1, e 533, comma 1, cod. proc. pen., carenza ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere il giudice di appello affermato la sussistenza del reato, eludendo le censure esplicitate nell’atto di appello e nei motivi nuovi relativamente al mancato incasso dell’IVA dichiarata nei bilanci degli anni 2016 e 2017, in conseguenza del mancato pagamento delle fatture emesse.
In sintesi, deduce la difesa che, non avendo la società incassato i rilevanti crediti, dei quali dimostra la sussistenza con la produzione dei bilanci e le affermazioni del teste, non aveva neanche incassato VIVA relativa a quei crediti, per cui il ricorrente non avrebbe potuto adempiere all’obbligo tributario a causa della situazione di illiquidità nella quale la società, fallita di lì a pochi ann trovava.
Lamenta la difesa il vizio logico della sentenza ricorsa nella parte in cui afferma che, per la punibilità del sostituto d’imposta, è necessario che il fatto sia stato determinato da causa sopravvenuta all’incasso dell’IVA, senza che l’appello abbia affrontato il tema della datazione della dedotta inesigibilità: sarebbe infatti illogico, ad avviso del ricorrente, che la non punibilità riguardasse l’imprenditore che incassi VIVA e poi non la versi a causa di una sopravvenuta impossibilità e non anche l’imprenditore che documenti una situazione di crisi e non incassi VIVA
che dovrebbe versare allo Stato, non riuscendo a riscuotere i crediti contenuti nelle fatture cui VIVA si riferisce, richiamando in proposito la sentenza di legittimità n. 41238 dell’11/11/2024.
2.2 Con il secondo motivo, deduce erronea applicazione della legge penale, rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., in relazione alla mancata applicazione della scriminante di cui all’art. 45 cod. pen.
La difesa lamenta che la Corte territoriale non aveva considerato la documentata crisi di liquidità nella quale versava da tempo la società e i tentativi dell’imprenditore imputato di ovviare a questa grave situazione di difficoltà aziendale, raggiungendo un accordo con le banche, a seguito del quale la società era riuscita a rientrare della propria esposizione di circa sei milioni di euro ed aveva potuto continuare ad operare, nonostante l’esposizione debitoria grazie ad una linea di affidamento concessa dalle banche di due milioni di euro; né la Corte di merito aveva considerato i tentativi di mantenere viva la produzione e salvaguardare le posizioni lavorative dei dipendenti, attraverso l’impiego di risorse personali dell’imputato, valutando come mere opzioni imprenditoriali i tentativi di salvare l’azienda destinando le risorse a pagare quanto fosse funzionale alla sopravvivenza dell’azienda medesima in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, di cui cita le pronunce nn. 31352 del 05/05/2021, 19651 del 24/02/2022, 30532 del 25/07/2024, che avevano affrontato, rispettivamente, il tema della crisi aziendale dipendente dal mancato incasso di crediti, la concreta impossibilità di far fronte agli obblighi di versamento, per la situazione di crisi dell’impresa determinata da ingenti inadempimenti dei clienti, le modalità e le tempistiche del ricorso al credito da parte del soggetto agente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente in considerazione della sovrapponibilità delle censure con essi formulate, relative alla operatività della scriminante ex art. 45 cod. pen. e della causa di non punibilità di cui all’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, sono infondati.
Sostiene la difesa l’illogicità della affermazione di responsabilità del ricorrente, nonostante si fosse trovato in una situazione di crisi di liquidità, dovuta al mancato incasso di rilevanti crediti che non gli avevano consentito di pagare VIVA che nemmeno aveva riscosso, e nonostante avesse tentato di ovviare a tale crisi, raggiungendo un accordo con le banche e ottenendo una linea di affidamento di due milioni di euro, mettendo a disposizione delle banche la proprietà dell’immobile in cui viveva con la moglie.
1.1 Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di reato di omesso versamento dell’IVA (Sez. 3, n. 23796 del 29/05/2019, Rv. 275967), la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrata la non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo. L’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo generico richiesto dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, atteso che l’obbligo del versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa (Sez. 3, n. 33430 del 16/06/2023, COGNOME, non mass.).
Dunque, sotto il profilo psicologico, secondo la giurisprudenza, nel reato di omesso versamento di Iva (art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000) ai fini dell’esclusione della colpevolezza è irrilevante il mancato incasso dei crediti per inadempimento contrattuale e la conseguente crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi (Sez. 3, n. 27202 del 19/05/2022, Natale, Rv. 283347; Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Rv. 278909; Sez. 3, n. 2614 del 21/01/2014, Rv. 258595).
Nella fattispecie, la Corte territoriale, la cui decisione si salda con la sentenza di primo grado in unico corpo motivazionale ricorrendo una ipotesi di doppia conforme, ha, senza vizi logici, evidenziato che il ricorrente aveva preferito la continuità aziendale, sacrificando l’Erario, pagando in contanti i fornitori più importanti e i dipendenti, lasciando insoluti i debiti erariali circostanza che la Corte di legittimità ha più volte evidenziato essere ostativa alla dimostrazione della sopravvenienza della impossibilità di soddisfare i crediti tributari: in tal modo, infatti, con la scelta di non pagare VIVA dovuta, deve essere esclusa la forza maggiore, integrata da un evento imponderabile tale da annullare la signoria del soggetto sui propri comportamenti, poiché l’omesso versamento dell’imposta è riconducibile ad una precisa scelta di politica imprenditoriale che, così operando, non assolve all’onere di ripartire le residue
risorse esistenti in modo da adempiere anche al proprio debito erariale. Per altro verso, l’imputato non aveva documentato la sussistenza di concrete azioni poste in essere al fine di reperire risorse necessarie ai pagamenti dei debiti erariali, anche con impegni personali (il riferimento della Corte territoriale è, ad es., a finanziamenti in conto capitalizzazione della società), né aveva aderito ad alcuno strumento deflattivo all’epoca dell’accertamento.
L’affermazione dei giudici di secondo grado deve ritenersi conforme agli insegnamenti di questa Corte (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263128; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, COGNOME, Rv. 258055), secondo i quali, in tema omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (nello stesso senso, Sez. 3, n. 4420 del 10/10/2024, dep. 2025, COGNOME, non mass.), mentre la circostanza di aver destinato scientemente e prioritariamente le risorse disponibili alla soddisfazione di altri crediti, diversi da quelli fiscali, è stata ripetutamente ritenuta ostativa alla dimostrazione della sopravvenienza non imputabile della impossibilità di soddisfare i crediti tributari (Sez. 3, n. 38801 del 19/09/2024, COGNOME, non mass.).
E’ stato, inoltre, affermato in proposito che, anche in conseguenza della riscossione delle somme e dell’obbligo di accantonamento, la scelta di non pagare l’imposta dovuta prova il dolo: soprattutto quando risulti che al contempo si siano pagati altri debiti o che le somme, che avrebbero dovuto essere accantonate, siano state impiegate in altro; infatti, la scelta imprenditoriale attiene ai motivi a delinquere e non può pertanto escludere la sussistenza del dolo (Sez. 3, n. 30677 del 24/06/2021, Maino; Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, COGNOME; Sez. 3 n. 43599 del 09/09/2015, COGNOME, Rv. 265262); ed anche il solo mancato incasso dei corrispettivi per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10 ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in quanto l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme, mentre la crisi di liquidità costituisce elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario (v., ex multis, Sez. 3, n. 5804 del 08/01/2025, Novelli, n.m.; Sez. 3, n. 2613 del 02/12/2022, dep. 2023, Consoli, n.m.; Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, COGNOME, Rv. 276546, non massimata sul punto).
1.3 Né la situazione così descritta può essere diversamente considerata alla luce di alcuni arresti della più recente giurisprudenza di legittimità che, nel ribadire che l’omesso versamento dell’iva dipeso dal mancato incasso di crediti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di inadempimento riconducibile all’ordinario rischio di impresa, ha tuttavia subordinato l’affermazione alla condizione che tali insoluti siano contenuti entro una percentuale da ritenersi fisiologica (Sez. 3, n. 31352 del 05/05/2021, COGNOME, Rv. 282237, la quale ha ritenuto non fisiologica una presenza di insoluti per circa il 43% del fatturato, cui era seguita una gravissima crisi di liquidità; v. anche Sez. 3, n. 19651 del 19/5/2022, COGNOME, non mass.; Sez. 3, n. 30532 del 15/07/2024, Giove, non mass.), nonchè delle modifiche normative introdotte dal d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 (“Revisione del sistema sanzionatorio tributario, ai sensi dell’articolo 20 della legge 9 agosto 2023, n. 111”), il quale ha modificato l’articolo 13 del d.lgs. n. 74 del 2000 mediante l’inserimento di un comma 3-bis, secondo cui «i reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi», giacché la Corte territoriale, senza vizi logici, ha escluso la sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti affinché possa dedursi una crisi di liquidità quale causa di non punibilità dovuta alle cause normativamente indicate.
Quanto alla inesigibilità dei crediti, la Corte di merito dà atto che non ricorre il presupposto dell’accertata insolvenza, non essendo stato documentato che i crediti fossero stati portati all’incasso mediante azione legale, per poi operare la loro svalutazione o l’appostamento nei crediti inesigibili, ed anzi ne veniva ritenuta l’esigibilità entro l’esercizio successivo; né ancora era stata evidenziata la datazione dei crediti, mentre le indicazioni del fondo svalutazione crediti erano indeterminate, non essendo indicati specificamente i crediti, né la stima della perdita, né la previsione della definitiva inesigibilità.
Quanto, invece, alla non imputabilità e alla sopravvenienza alla riscossione dell’imposta delle cause che ne hanno determinato il mancato versamento, la Corte distrettuale dà atto che, sebbene la difesa sostenga la mancata riscossione dell’imposta, non risulta evidenziata la datazione dei crediti, mentre l’appostazione dei crediti nel bilancio del 31/12/2016, con relativo fondo di svalutazione, rivela l’esistenza di una situazione di insolvenza di fatto pregressa
e non sopravvenuta rispetto all’imposta non versata; né la situazione prospettata appare imprevedibile ed estranea alla sfera di dominio dell’imprenditore, nè
dovuta a vicende anomale o eccezionali nell’ambito della vita e della attività di una impresa commerciale, trattandosi di avvenimenti (quali la riduzione degli
affidamenti bancari o la chiusura delle linee di credito) che rientrano nel novero delle evenienze che possono ordinariamente verificarsi nel corso di un’attività di
impresa e fanno parte del rischio della stessa.
In definitiva, a fronte di un percorso motivazionale privo di incongruenze motivazionali e coerente con gli indirizzi ermeneutici elaborati in questa materia,
non vi è spazio per l’accoglimento delle censure difensive, volte sostanzialmente a suggerire una non consentita rilettura degli elementi probatori, dovendosi
ritenere invece adeguatamente argomentate sia la sussistenza del dolo che l’esclusione della forza maggiore rispetto al mancato versamento delle ritenute.
Di qui l’infondatezza delle censure difensive.
2. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve ex
essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, art. 616 cod.
proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 15/04/2025.