Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 5152 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 5152 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Borgorose il DATA_NASCITA, avverso la sentenza del 27-01-2023 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
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Depositata in Caneelleíta
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 27 gennaio 2023, la Corte di appello di Milano confermava la decisione del 22 settembre 2021, con la quale il Tribunale di Milano aveva condannato NOME COGNOME alla pena di mesi 8 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 10 , ter del d. Igs. n. 74 del 2000, a lui contestato perché, quale legale rappresentante della società “RAGIONE_SOCIALE“, avente sede in Milano, non versava, entro il 27 dicembre 2017, termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale riguardante l’anno 2016, per un ammontare pari a euro 1.756.148; fatto commesso in Milano in data 27 dicembre 2017. Veniva parimenti confermata la statuizione con cui era stata disposta la confisca della somma di euro 1.654.432,49, corrispondente al profitto del reato.
Avverso la sentenza della Corte di appello meneghina, COGNOME, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa contesta, sotto il duplice profilo dell’erronea applicazione della legge penale e del vizio di motivazione, la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato, evidenziando che la sentenza impugnata si è limitata a operare una serie di richiami giurisprudenziali, senza affrontare adeguatamente i temi devoluti nell’atto di appello, concernenti l’interruzione del nesso casuale per la sussistenza della scriminante ex art. 45 cod. pen. e la sussistenza del dolo generico necessario ai fini della configurabilità del reato.
Si osserva in particolare che COGNOME, maresciallo dell’Arma in pensione, privo di un patrimonio personale degno di questo nome, a capo di una società cresciuta lentamente nel tempo grazie al credito bancario, non poteva assumere alcuna iniziativa strategica o finanziaria per sbloccare o reperire altrove risorse interne.
A ciò si aggiunge che la cessazione dell’attività imprenditoriale,impiegante 300 persone,avrebbe costituito per la zona del lodigiano un caso sociale e un costo importante se non impensabile, per cui la condotta che si contesta all’imputato di non aver tenuto non era esigibile, tanto più ove si consideri che la scelta di COGNOME di provvedere al pagamento di dipendenti e fornitori è avvenuta in una prospettiva di continuità aziendale, nella convinzione, poi rivelatasi corretta, che tale opzione avrebbe consentito la prosecuzione dell’attività di impresa, il conseguimento di ricavi, la produzione di utili e, in un futuro imminente, anche l’adempimento dell’obbligazione tributaria in forma concorsuale. Andava quindi escluso il dolo generico richiesto per la sussistenza del reato, rappresentandosi l’imputato, al momento della scadenza del pagamento erariale, una impossibilità contingente, ma una possibilità futura di pagare l’imposta dovuta.
Con il secondo motivo, è stata eccepita l’inosservanza dell’art. 603 /comma 3,cod. proc. pen., per avere la Corte di appello omesso di attivare i suoi poteri di integrazione probatoria, pur a fronte della necessità di accertare circostanze importanti ai fini del decidere, ovvero: da quando tempo durava la crisi aziendale e se vi fosse la concreta possibilità di farvi fronte, quanto fosse l’ammontare delle fatture a enti pubblici o privati dalle quali derivava l’obbligo di versamento dell’iva a prescindere dall’incasso e quali fossero le altre sofferenze; quali scelte programmatiche o difficoltà societarie fossero state esposte nelle relazioni al bilancio con riferimento ai crediti e agli accantonamenti.
Con il terzo motivo, infine, oggetto di doglianza è l’inosservanza dell’art. 81 cod. pen., per avere omesso la Corte di appello di riconoscere la continuazione tra reati, nonostante vi fosse in atti la prova della continuità della violazione della medesima norma per svariati anni da parte dell’imputato, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e per effetto della stessa crisi di liquidità che si trascinava da tempo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato non presenta alcun vizio dì legittimità.
Deve premettersi al riguardo che non è contestata la sussistenza del reato dal punto di vista oggettivo, essendo pacifico che la “RAGIONE_SOCIALE“, società di cui il ricorrente era legale rappresentante, non ha versato, entro il 27 dicembre 2017, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale riguardante l’anno 2016, per l’importo di euro 1.756.148.
Il tema controverso riguarda piuttosto l’asserita scusabilità della condotta omissiva che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe dipesa da comprovate e insuperabili circostanze indipendenti dalla volontà dell’imputato.
La questione è stata già adeguatamente affrontata dalla Corte di appello, che, sviluppando ulteriormente le considerazioni già espresse dal Tribunale, si è posta sulla scia della consolidata affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019, Rv. 275967, Sez. 3, n. 20266 dell’08/04/2014, Rv. 259190, e Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Rv. 263128), secondo cui l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito erariale, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lu medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idone
da valutarsi in concreto, occorrendo in definitiva la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.
Alla luce di tale premessa, devono escludersi le violazioni di legge e le lacune argomentative dedotte dalla difesa, avendo la Corte di appello rimarcato, da un lato, la mancata prova circa l’epoca di insorgenza della crisi di liquidità e, dall’altro lato, la circostanza, emersa nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che a partire dal 2016, periodo di imposta contestato, e fino al 2021, i dipendenti della società sono passati da 200 a 300, mentre nel 2001 erano soltanto 20.
Partendo da questo dato di fatto, la Corte territoriale ha sottolineato (pag. 5 ss. della sentenza impugnata) che, anche dando per scontato che la RAGIONE_SOCIALE si sia trovata in difficoltà a causa del ritardo dei clienti nei pagamenti, de fallimento di alcune ditte creditrici e della mancata concessione dei fidi da parte delle banche, non è stato tuttavia provato che tale difficoltà fosse insormontabile risultando l’aumento dei dipendenti indicativo invece di una crescita economica.
In ogni caso, non è stato dimostrato che l’imputato, una volta manifestatosi il dissesto economico, si sia attivato per porvi rimedio, ad esempio mediante il ricorso a fidi bancari, che non risulta siano stati effettivamente richiesti.
In definitiva, a fronte di un percorso motivazionale privo di incongruenze motivazionali e coerente con gli indirizzi ermeneutici elaborati in questa materia, non vi è spazio per l’accoglimento delle censure difensive, volte sostanzialmente a suggerire una non consentita rilettura degli elementi probatori, dovendosi ritenere invece, adeguatamente argomentate sia la sussistenza del dolo che l’esclusione della forza maggiore rispetto al mancato versamento dell’iva, dipeso evidentemente da una scelta volontaria e consapevole dell’imputato.
Di qui l’infondatezza delle censure in punto di responsabilità.
2. Alla medesima conclusione deve pervenirsi rispetto al secondo motivo. Ed invero la difesa lamenta la mancata attivazione da parte della Corte di appello dei poteri di integrazione probatoria di cui all’art. 603 cod. proc. pen., senza tuttavia considerare, da un lato, che, nell’atto di appello, non fu formulata alcuna sollecitazione istruttoria e, dall’altro lato, che la questione della rilevanza dell crisi economica della società è stata già ampiamente affrontata dai giudici di merito, per cui legittimamente non sono stati ritenuti necessari ulteriori accertamenti sul punto, tanto più che sarebbe stato onere della difesa comprovare l’eventuale inevitabilità della condotta omissiva contestata, a ciò
dovendosi solo aggiungere che, secondo il consolidato principio affermato da questa Corte (cfr. Sez. Un. n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266820), la rinnovazione dell’istruttoria nel g iudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo g rado, è un istituto di carattere eccezionale, al q uale può farsi ricorso esclusivamente allorché il g iudice riten g a, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato de g li atti.
Parimenti infondato è il terzo motivo di ricorso.
Nel ri g ettare la richiesta difensiva volta al riconoscimento della continuazione tra i fatti di causa e q uelli g iudicati dalla sentenza della Corte di appello del 15 dicembre 2020, irrevocabile il 23 g iug no 2021 e confermativa della pronuncia di condanna del Tribunale di Lodi del 13 ma gg io 2020, i g iudici di secondo g rado hanno infatti evidenziato come non potesse ravvisarsi il medesimo dise g no criminoso tra i due reati, posto che, al di là dell’omo g eneità delle violazioni, l’imputato non aveva fornito il benché minimo elemento per sostenere che, al momento della commissione del primo omesso versamento Iva (27 dicembre 2013) avesse ideato, seppure a g randi linee, la commissione del secondo omesso versamento Iva (27 dicembre 2017), risalente appunto a distanza di ben 4 anni, da ciò desumendosi piuttosto che “COGNOME fosse aduso a commettere più delitti in materia di Iva, non tanto in esecuzione del medesimo dise g no criminoso, q uanto piuttosto q uale modus operandi” (pag . 9 della sentenza impu g nata).
Tale valutazione resiste senz’altro alle censure difensive, sia perché non manifestamente illo g ica, sia perché coerente con la condivisa affermazione di q uesta Corte (cfr. Sez. 5, n. 1766 del 06/07/2015, dep. 2016, Rv. 266413), secondo cui, in tema di continuazione, l’esistenza di un medesimo dise g no criminoso va desunta da elementi indizianti q uali l’unitarietà del contesto e della spinta a delin q uere, la brevità del lasso temporale che separa i diversi episodi, l’identica natura dei reati, l’analo g ia del modus operandi, profili q uesti che, anche nel ricorso, oltre che in sede di merito, non sono stati ade g uatamente illustrati.
Alla stre g ua di tali considerazioni, il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME deve essere q uindi ri g ettato, con conse g uente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rig etta il ricorso e condanna il ricorrente al pa g amento delle spese processuali.
Così deciso il 27/10/2023