Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 45992 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 45992 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Monopoli il 07/04/1953
avverso la sentenza del 22/01/2024 della Corte Appello di Bari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
E’ impugnata la sentenza del 22 gennaio 2024 con la quale la Corte di appello di Bari ha confermato la pronuncia del Tribunale di Bari del 18 novembre 2022, che aveva dichiarato NOME COGNOME penalmente responsabile del reato di cui all’art. 2, comma 1 e 1-bis, d.l. n. 463 del 1983, convertito dalla legge n. 683 del 1983, perché, in qualità di datore di lavoro e legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE, ometteva di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti da versarsi nel periodo gennaio 2015 a dicembre 2015 per un importo complessivo di 10.846,67 euro, e, ritenuta la recidiva specifica e infraquinquennale, equivalente alle
circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed euro 300,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
Propongono ricorso gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME difensori dell’imputato, affidandosi a due motivi.
2.1 Con il primo, composito, motivo, deducono sia il vizio di violazione di legge ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per erronea applicazione della legge penale in relazione al delitto di cui all’art. 2, comma 1-bis, d.l. n. 463 del 1983 sia la contraddittorietà, la manifesta illogicità della motivazione e l’inosservanza delle norme processuali, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. in relazione all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen.
Si osserva che la Corte di appello ha errato nell’attribuire ai modelli “DM10”, generati a seguito delle denunce contributive provenienti dall’imputato, valore probatorio “indiscutibile”, circa il regolare pagamento delle retribuzioni, pur dando atto dell’esistenza di elementi probatori di segno contrario, in contrasto con quanto afferma la giurisprudenza di questa Corte in materia (si citano Sez. 3, n. 46451 del 2009 e Cass. 3, n. 26579 del 2021) che riconosce il valore probatorio a detti modelli, purchè non risultino elementi di segno contrario, tenuto conto che non è configurabile il reato in esame senza il materiale esborso, anche solo in nero della retribuzione.
Si evidenzia che nel caso di specie sussistevano i predetti elementi di segno contrario non solo perché ritualmente indicati e prodotti dalla difesa, ma perché implicitamente riconosciuti anche dagli stessi giudici di secondo grado, laddove fanno riferimento ad alcune mensilità non corrisposte e danno atto che alcuni dipendenti si sono insinuati al passivo “anche per la rivendicazione dei contributi non riscossi”.
Si deduce il vizio di travisamento della prova nella parte in cui la Corte territoriale afferma che è rimasto indimostrato che i dipendenti della RAGIONE_SOCIALE insinuatisi al passivo si identifichino con coloro per i quali l’azienda aveva attestato il versamento delle retribuzioni e le ritenute operate, portando d’esempio la posizione di alcuni dipendenti e si afferma che la Corte avrebbe dovuto valutare con maggiore attenzione questi elementi anche alla luce del fatto che il superamento della soglia di punibilità è avvenuto per un importo ridottissimo, come dedotto dalla difesa nel motivo di gravame.
2.2. Con il secondo motivo, si lamenta mancanza di motivazione con riguardo al giudizio di comparazione tra circostanze, non avendo la Corte di appello considerato il riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla recidiva, così come richiesta dalla difesa a verbale nelle conclusioni orali, in cui la Corte di appello era stata espressamente invitata all’uso dei suoi poteri ufficiosi ex art. 597, comma 5, cod. proc. pen. Né sul punto può rilevare
che il trattamento sanzionatorio non formasse oggetto di gravame, in ossequio a quanto affermato da Sez. 3, n. 47828 del 12/07/2017, in quanto comunque la corte di appello era stata sul punto sollecitata in sede di conclusioni, come risulta dal verbale.
Con requisitoria scritta il Sost. Procuratore generale, richiamando Sez. 3, n. 28672 del 24/09/2020, Rv. 280089-01, ha rilevato la manifesta infondatezza del primo motivo di censura. Parimenti, sul secondo motivo, ha chiesto dichiararsi lo stesso inammissibile, trattandosi di una richiesta avanzata nel giudizio di appello solo in sede di conclusioni orali, mentre con il proposto appello non si erano dedotti motivi riguardanti la pena, che in ogni caso la Corte di appello ha ritenuto congrua, con conseguente infondatezza del motivo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esplicitate.
Il primo motivo è inammissibile, in quanto questa Corte condivide l’orientamento espresso da Sez. 3, Sentenza n. 42715 del 28/06/2016, COGNOME, Rv. 267781-01 e ripreso, più di recente da Sez. 3, n. 28672 del 24/09/2020, COGNOME, Rv. 280089-01 secondo cui, in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro, i modelli DM 10, formati secondo il sistema informatico UNIEMENS, possono essere valutati come piena prova della effettiva corresponsione delle retribuzioni, trattandosi di dichiarazioni che, seppure generate dal sistema informatico dell’INPS, sono formate esclusivamente sulla base dei dati risultanti dalle denunce individuali e dalla denuncia aziendale fornite dallo stesso contribuente.
Sulla scorta dell’indicato principio di diritto nessuna censura può muoversi alla Corte di appello che ha dedotto la prova del reato in contestazione da tali modelli e dal compendio istruttorio, costituito dalla documentazione acquisita e dalle dichiarazioni del curatore (in particolare nella parte in cui ha evidenziato che i dipendenti ed i collaboratori si erano dimessi per giusta causa lamentando il mancato pagamento del TFR e di diverse mensilità) rispetto alle quali la parte continua a offrire la propria diversa lettura, senza confrontarsi in senso adeguatamente critico con quanto affermato dalla Corte di appello, che ha ritenuto integrato il reato nonostante il successivo fallimento in applicazione del principio di diritto, che questo collegio condivide, in base al quale il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (art. 2 D.L. n. 463 del 1983, conv. in I. n. 638 del 1983) è integrato, siccome è a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, sicchè non rileva, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la
circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti (Sez. 3, n. 3705 del 19/12/2013, dep. 2014, Casella, Rv. 258056-01.
Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso, rispetto al quale va premesso che la parte ha proposto appello – come risulta dalla ricostruzione operata dalla Corte di appello in sentenza e non contestata – chiedendo in via subordinata solo il riconoscimento della particolare tenuità del fatto e non la prevalenza delle circostanze attenuanti (riconosciute in primo grado, ma con giudizio di equivalenza), che è stata, invece, oggetto di richiesta in sede di conclusione. Ne deriva che la richiesta deve considerarsi motivo nuovo, in quanto l’appello principale verteva su un punto distinto della decisione, non essendo state formulate con esso doglianze relative alle circostanze e più in generale al trattamento sanzionatorio.
2.1 Sul punto questa Corte aderisce all’orientamento secondo cui anche se la richiesta di riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti, pur costituente “motivo nuovo” contenuto in una memoria tardivamente presentata, non preclude al giudice d’appello la possibilità di effettuare d’ufficio il giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 cod. pen. (Sez. 3, n. 18896 del 10/03/2011, COGNOME, Rv. 250289-01), in tema di giudizio di appello, il giudice è tenuto a motivare sulla prevalenza o equivalenza delle circostanze solo se esse siano state dedotte con i motivi di impugnazione, ovvero, di ufficio, solo nel caso in cui, in secondo grado, vi sia stata una meno grave valutazione in punto di responsabilità, oppure sia stata riconosciuta una nuova attenuante (Sez. 5, n. 14745 del 26/11/1999, COGNOME, Rv. 215198-01).
2.2 Nel caso di specie, la Corte di appello, pur avendo confermato la sentenza di primo grado anche in punto di applicazione della pena e non essendo quindi tenuta ad operare d’ufficio il giudizio di comparazione, ha comunque valutato tale richiesta, disattendendola implicitamente, nel momento in cui ha ritenuto congrua la pena irrogata.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere per il ricorrente del pagamento delle spese del procedimento nonché, tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
Il collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall’art. 1, comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione
prevista all’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopraindicate
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 12/11/2024.