Omessa Dichiarazione: Quando il Ricorso in Cassazione è Inammissibile?
La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 36779/2024 offre un’importante lezione sui limiti del ricorso in sede di legittimità in materia di reati tributari. Il caso riguarda un imprenditore condannato per omessa dichiarazione, il quale ha tentato di contestare la sentenza basandosi su critiche all’accertamento del reddito. La decisione della Suprema Corte ribadisce un principio fondamentale: la Cassazione non è un terzo grado di giudizio dove si possono ridiscutere i fatti.
I Fatti del Processo
Un imprenditore individuale veniva condannato in primo grado dal Tribunale di Asti e successivamente dalla Corte di Appello di Torino per il reato di omessa dichiarazione, previsto dall’art. 5 del D.Lgs. 74/2000. La pena inflitta era di un anno e sei mesi di reclusione. La condanna si basava sull’accertamento di un reddito non dichiarato, che superava ampiamente la soglia di punibilità prevista dalla legge.
I Motivi del Ricorso e l’accusa di omessa dichiarazione
L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, articolando la sua difesa su due punti principali:
1. Inattendibilità dello ‘Spesometro’: Secondo la difesa, l’accertamento del reddito era stato condotto basandosi esclusivamente sui dati dello ‘spesometro’, uno strumento che, a suo dire, avrebbe un valore puramente indiziario e presuntivo.
2. Mancata Considerazione dei Costi: Il ricorso lamentava che i giudici di merito avessero confuso il concetto di ‘ricavo’ con quello di ‘reddito’, omettendo di considerare i costi aziendali, elemento essenziale per determinare l’effettivo profitto e, di conseguenza, l’esistenza stessa del reato.
In sostanza, l’imputato chiedeva alla Corte di Cassazione di riesaminare le modalità con cui era stato calcolato il suo reddito imponibile.
La Decisione della Corte di Cassazione e le Motivazioni
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione di tremila euro. Le motivazioni della decisione sono chiare e riaffermano principi consolidati della procedura penale.
Il Divieto di un Terzo Grado di Giudizio sul Merito
Il motivo principale dell’inammissibilità risiede nel fatto che il ricorso non sollevava questioni di legittimità (cioè errori nell’applicazione della legge), ma si limitava a riproporre le stesse censure già avanzate e respinte dalla Corte di Appello. Agendo in questo modo, l’imputato cercava di ottenere una nuova e diversa valutazione delle prove, un’attività preclusa alla Corte di Cassazione, che è giudice di legittimità e non di merito.
La Valutazione degli Elementi di Prova
La Corte ha sottolineato che la sentenza d’appello aveva fornito una motivazione logica e congrua. L’accertamento del reddito non si basava unicamente sui dati dello ‘spesometro’, ma questi erano stati corroborati da un elemento di riscontro decisivo: le fatture emesse dalla stessa ditta individuale del ricorrente. La combinazione di questi elementi rendeva l’accertamento solido e non manifestamente illogico. Inoltre, la Corte ha evidenziato come il superamento della soglia di punibilità fosse cospicuo, un fatto di cui l’imputato doveva essere consapevole, anche alla luce della documentazione sequestrata.
L’Irrilevanza della Censura sui Costi
Anche la doglianza relativa all’omessa valutazione dei costi è stata ritenuta inammissibile. La Corte ha qualificato questa censura come ‘di puro merito’, poiché implicava una riconsiderazione delle risultanze probatorie per determinare l’imponibile, un’operazione non consentita in sede di legittimità.
Le Conclusioni
Questa ordinanza è un monito per chi intende adire la Corte di Cassazione in materia di reati tributari. Il ricorso è ammissibile solo se denuncia vizi di legge o difetti di motivazione gravi e palesi (come una motivazione totalmente assente o manifestamente illogica). Non è possibile utilizzare questo strumento per contestare l’apprezzamento dei fatti e delle prove compiuto dai giudici di primo e secondo grado. La decisione conferma che, nel caso di omessa dichiarazione, quando l’accertamento del reddito si fonda su dati incrociati e prove documentali come le fatture, è molto difficile scardinare la valutazione dei giudici di merito attraverso un ricorso basato su censure fattuali.
È possibile contestare in Cassazione la valutazione del reddito basata sullo ‘spesometro’ per il reato di omessa dichiarazione?
No, non se la contestazione si limita a riproporre censure di puro merito già esaminate nei gradi precedenti. In questo caso, la Corte ha ritenuto la valutazione corretta perché i dati dello ‘spesometro’ erano supportati da elementi di riscontro oggettivi, come le fatture emesse dall’imputato.
La mancata considerazione dei costi di gestione può essere un valido motivo di ricorso in Cassazione?
Secondo questa ordinanza, la censura relativa all’omessa valutazione dei costi è una questione di puro merito e, come tale, non è consentita in sede di legittimità. Spetta ai giudici di primo e secondo grado valutare tali elementi.
Cosa succede se un ricorso in Cassazione si limita a riproporre le stesse argomentazioni già respinte in Appello?
Il ricorso viene dichiarato inammissibile perché non solleva questioni di diritto ma cerca di ottenere una nuova valutazione delle prove, attività preclusa alla Corte di Cassazione. Di conseguenza, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 36779 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 36779 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CARMAGNOLA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 26/10/2023 della CORTE APPELLO di TORINO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Premesso che con sentenza del 26/10/2023 la Corte di appello di Torino confermava la pronuncia emessa il 16/12/2021 dal Tribunale di Asti, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 5, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione.
Rilevato che propone ricorso per cassazione l’imputato, contestando le modalità di accertamento del reddito, legate esclusivamente allo “spesometro” e, dunque, a criteri presuntivi che possono avere soltanto valore indiziario. La sentenza, oltre a confondere reddito e ricavo, non avrebbe poi considerato i costi, pur trattandosi di un elemento essenziale per la valutazione dell’esistenza del reato.
Considerato che il ricorso è inammissibile, perché – riproponendo le medesime censure avanzate alla Corte di appello – tende ad ottenere in questa sede una nuova e non consentita lettura delle stesse emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, sollecitandone una valutazione diversa e più favorevole invero preclusa alla Corte di legittimità.
La doglianza, inoltre, trascura che la sentenza di merito – pronunciandosi proprio sulla questione qui riprodotta – contiene una motivazione del tutto congrua, fondata su oggettive risultanze dibattimentali e non manifestamente illogica; come tale, quindi, non censurabile. La Corte, in particolare, ha evidenziato che l’ammontare dei redditi era stato adeguatamente accertato con i dati del citato “spesometro”, da non valutare soltanto in sé ma anche alla luce di un evidente elemento di riscontro, quali le fatture emesse dalla ditta individuale del ricorrente. Ancora, la Corte ha evidenziato il cospicuo superamento della soglia di punibilità allora vigente, del quale il ricorrente doveva ritenersi certamente a conoscenza anche alla luce della documentazione sequestrata e richiamata in sentenza. Di seguito, risulta inammissibile la censura che contesta l’omessa valutazione dei costi di gestione, in quanto di puro merito e non consentita in sede di legittimità. Infine, si osserva che la sentenza ha congruamente superato la tesi difensiva secondo cui non sarebbe stato il ricorrente, in realtà, a gestire la ditta individuale ma un altro soggetto; il tema, tuttavia, non è stato ripreso nel ricorso per cassazione.
Rilevato, pertanto, che lo stesso deve esser dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 13 settembre 2024
IXÇonsigliere estensore
Il Presidente