Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 47627 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 47627 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME nato a Firenze il 28/2/1979
avverso la sentenza del 21/12/2023 della Corte di appello di Firenze; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procur generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. NOME COGNOME chiesto l’accoglimento del ricorso, anche con memoria
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21/12/2023, la Corte di appello di Firenze confermava pronuncia emessa il 15/11/2019 dal locale Tribunale, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 5 10 marzo 2000, n. 74, limitatamente ad un’imposta evasa pari a 59.945,00 eu e condannato alla pena di un anno e due mesi di reclusione.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo – con unico motivo – l’erronea applicazione dell’art. 5 contestato ed il vizio di motivazione. La Corte di appello avrebbe ritenuto valido il metodo di calcolo applicato dal Tribunale, nonostante la sua erroneità, con immediata incidenza sulla individuazione dell’imposta evasa e, dunque, sul superamento della soglia di punibilità. Il Tribunale, infatti, avrebbe correttamente rideterminato l’imposta indicata nel capo di imputazione, detraendo l’IVA dall’ammontare complessivo dei redditi della “RAGIONE_SOCIALE“; per contro, non avrebbe detratto IRES ed IRAP, come invece dovuto, così che la conferma di questa modalità di calcolo da parte della Corte di appello risulterebbe viziata (errore, peraltro, commesso anche dall’Agenzia delle entrate in un avviso di accertamento a carico del ricorrente). Applicando il metodo corretto, dunque, l’imposta evasa sarebbe risultata pari a 38.463,00 euro, al di sotto della soglia di punibilità. Il ricorso osserva, infine, che anche laddove si ritenesse integrato l’elemento oggettivo del reato, difetterebbe comunque il dolo specifico, che dovrebbe avere ad oggetto anche l’esatta misura dell’imposta evasa; la sentenza, per contro, lo avrebbe individuato con mera presunzione semplice, non sostenuta da elementi gravi, precisi e concordanti.
La difesa ha depositato memoria, ribadendo i propri argomenti di impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta infondato.
La prima censura concerne il profilo oggettivo del reato, ed attiene alle modalità di calcolo impiegate per individuare la somma percepita dal ricorrente nel 2013 – quale socio titolare al 98% della “RAGIONE_SOCIALE – e pacificamente non dichiarata. A fronte di una contestazione che aveva quantificato l’imposta IRPEF evasa in 73.875,00 euro, il Tribunale aveva sottolineato che il relativo calcolo non aveva tenuto conto dell’IVA, che doveva esser detratta dall’ammontare complessivo dei corrispettivi della società non registrati: su questa somma, doveva esser poi quantificata la misura del 98% (pari alla partecipazione detenuta) ed applicata l’aliquota del 49,72% per le partecipazioni qualificate, così pervenendo al reddito percepito nella misura di 155.290,82 euro ed ad un’IRPEF evasa nella misura di 59.945,05 euro. Questo importo è stato confermato dalla Corte di appello.
4.1. Il ricorso contesta tale calcolo, evidenziando che dal reddito complessivo accertato in capo alla società dovrebbero detrarsi non solo gli importi a titolo di IVA, ma anche quelli versati a titolo di IRES e IRAP, e solo dopo procedere alla quantificazione della somma in rapporto al 98% delle quote detenute,
all’applicazione dell’aliquota del 49,72% e, infine, alla individuazione dell’IRPEF dovuta.
La censura non può essere accolta.
5.1. La Corte di appello, pronunciandosi sulla medesima questione (posta in quella sede con i motivi aggiunti), ha evidenziato – con argomento solido e privo di vizi – che la base imponibile per calcolare l’imposta evasa non è rappresentata dal complessivo ricavo della società (sul quale sono calcolate IRES e IRAP), bensì dal dividendo percepito dall’imputato quale persona fisica, ottenuto previa depurazione del già richiamato 49,72% (da applicare sulla quota detenuta del 98% della società): tale meccanismo, infatti, ha la finalità di attenuare la portata della doppia imposizione, che sarebbe invece integrale laddove il dividendo concorresse per intero alla formazione del reddito complessivo della stessa persona fisica.
Il profilo oggettivo del reato, pertanto, risulta confermato in termini corretti, qui non sindacabili.
Con riguardo, poi, all’effettiva consapevolezza dell’illecito, ed in particolare del superamento della soglia di punibilità, la sentenza di appello – sul punto non contestata – ha dichiarato inammissibile la relativa censura, perché presentata con motivi aggiunti privi di collegamento con l’unico motivo oggetto del gravame principale: questo, infatti, aveva contestato soltanto l’effettiva ripartizione degli utili secondo la formale intestazione delle quote (98% al ricorrente e 2% a suo padre).
6.1. La doglianza in punto di dolo, pertanto, non può essere proposta, per la prima volta, con il ricorso per cassazione.
Lo stesso atto, dunque, deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 5 novembre 2024
Il Pre9fdente