Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 26979 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 26979 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 11/06/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da NOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 20/01/1952, COGNOME NOME, nato a Milano il 06/04/1976, COGNOME NOME, nato a Vimercate il 24/05/1965, COGNOME NOME, nato a Bergamo il 31/01/1961, avverso la sentenza del 20/09/2024 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; udito l’avv. NOME COGNOME del foro di Milano, in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME del foro di Milano, in difesa di NOME COGNOME nonché in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME del foro di Pavia, in difesa di NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi; udito l’avv. NOME COGNOME del foro di Campobasso, in difesa di NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito l’avv. NOME COGNOME del foro di Milano, in difesa di NOME
NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 12/07/2021, il Tribunale di Milano condannava NOME COGNOME alla pena di due anni di reclusione, in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, ascritti ai capi a), b), d) ed e) d rubrica, in essi assorbiti i capi 7), 8) e 9), questi ultimi due limitatamente all’annualità 2011, perché, in qualità di amministratore di fatto di diverse società, aveva omesso di presentare, essendovi obbligato, le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, per anni di imposta dal 2011 al 2014; condannava, inoltre, NOME COGNOME riconosciute le circostanze attenuanti generiche, alla pena di nove mesi di reclusione in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, ascritti ai capi I) ed m) della rubr perchè, in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, aveva omesso di presentare, essendovi obbligato, le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, per gli anni di imposta 2013 e 2014; condannava, ancora, NOME COGNOME alla pena di nove mesi di reclusione in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, ascritto al capo e) della rubrica perchè, in qualità di legale rappresentante e, successivamente, liquidatore della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, aveva omesso di presentare, essendovi obbligato, le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, per gli anni di imposta 2012, 2013 e 2014; condannava, infine, NOME COGNOME alla pena di un anno e dieci mesi di reclusione in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui agli artt. 10-ter e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, ascritti ai capi aa) e bb) della rubrica perchè, in qualità di procuratore speciale della RAGIONE_SOCIALE, aveva omesso di versare VIVA dovuta con riferimento agli anni di imposta 2015 e 2016 e di presentare, essendovi obbligato, le dichiarazioni ai fini dell’IVA, per gli anni di imposta 2013 e 2014. Il Tribunale applicava le pene accessorie di legge, concedeva a NOME COGNOME il beneficio della sospensione condizionale della pena principale delle pene accessorie e ordinava la confisca dei beni sequestrati a NOME COGNOME, NOME COGNOME. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Con sentenza del 20/09/2024, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME in ordine ai reati di cui ai capi a), b), d) ed e), limitatamente per quest’ultimo all’anno di imposta 2012, nei confronti di NOME COGNOME in ordine al reato di cui al capo e), limitatamente all’anno di imposta 2012, nei confronti di NOME Giuseppe COGNOME in ordine al reato di cui al capo aa), limitatamente all’anno di imposta 2015, perchè estinti per intervenuta prescrizione, assolvendo NOME COGNOME dal reato di cui al capo aa),
relativamente all’anno di imposta 2016, rideterminando la pena in un anno e sette mesi di reclusione per NOME COGNOME e in otto mesi e quindici giorni di reclusione per NOME COGNOME per entrambi in ordine ai reati residui di cui al capo e), relativamente agli anni di imposta 2013 e 2014, in un anno e due mesi di reclusione per NOME COGNOME COGNOME in ordine ai reati residui di cui al capo bb), e confermando nel resto, per i predetti imputati e per NOME COGNOME, la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME
COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
3.1 Con il primo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione, per la mancata valutazione delle deduzioni difensive incidenti sulla tenuta logicoargomentativa della decisione impugnata.
In sintesi, lamenta la difesa che, con riferimento alla individuazione del dies a quo per l’applicazione delle regole e delle garanzie ex art. 220 disp. att. cod. proc. pen., la Corte territoriale ha individuato tale momento in quello di ultimazione dei processi verbali di constatazione, risalenti all’aprile 2017-gennaio 2018, momento in cui era stata quantificata l’imposta evasa, quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 dei 2000, senz considerare che i processi verbali di constatazione originavano da una indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Cremona, ricomprendente anche ipotesi di reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, per le quali non si poneva un problema di individuazione della soglia di punibilità, e senza considerare altresì che, in data 27 aprile 2016, era stato eseguito un decreto di perquisizione presso la sede del consorzio RAGIONE_SOCIALE, con il sequestro probatorio della documentazione contabile delle cooperative consorziate e senza considerare infine le dichiarazioni autoindizianti rese da NOME COGNOME e NOME COGNOME che facevano emergere indizi quantomeno in ordine al reato di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000, con la conseguente applicazione dell’art. 63 cod. proc. pen.
3.2 Con il secondo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alle s.i.t. rese dai testimoni NOME COGNOME e NOME COGNOME, in date 14/11/2016 e 10/11/2016, indebitamente confluite nella motivazione della sentenza impugnata.
In sintesi, lamenta la difesa che, a fronte dell’utilizzo nella sentenza di primo grado delle sommarie informazioni rese da COGNOME e COGNOME nel corso delle indagini
preliminari, nonostante il divieto specifico di utilizzo in dibattimento, la Corte territoriale, non fornendo alcuna motivazione sulla correttezza dell’operato del primo giudice, aveva riportato le medesime dichiarazioni anche nella sentenza di appello.
3.3 Con il terzo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al travisamento dei fatti e delle risultanze probatorie, in relazione alla avvenuta cancellazione della RAGIONE_SOCIALE società cooperativa in liquidazione, dal registro delle imprese a far data dal 24/09/2014, con una serie di conseguenze, tra le quali la impossibilità di avviare un accertamento tributario nei confronti di una società cancellata o estinta e, quindi, la non configurabilità di alcun obbligo dichiarativo della società estinta rispetto all’anno di imposta 2014, per il venir meno di un elemento costitutivo del reato, ovverosia la insussistenza della pretesa impositiva; inoltre, la cancellazione preclude l’accesso alla procedure conciliative e di adesione all’accertamento, nonché ogni altra procedura di ravvedimento operoso, per cui era errata l’affermazione della Corte territoriale che aveva posto a fondamento dell’elemento soggettivo del reato il persistere del debito tributario, senza alcuna condotta di ravvedimento operoso anche in epoca successiva all’avvio del procedimento penale.
NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
4.1 Con il primo motivo, eccepisce violazione di legge penale e processuale, con riferimento all’aver la sentenza impugnata utilizzato le dichiarazioni rese da NOME COGNOME in occasione della verifica fiscale, poi riportate nel processo verbale di constatazione.
In sintesi, lamenta la difesa la non corretta applicazione delle regole e delle garanzie ex art. 220 disp. att. cod. proc. pen., in relazione all’art. 191 e agli artt. 63 e 64 cod. proc. pen., avendo la Corte territoriale individuato il momento di applicazione delle garanzie di cui all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. in quello di ultimazione dei processi verbali di constatazione, risalenti all’aprile 2017-gennaio 2018, momento in cui era stata quantificata l’imposta evasa, quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, senza considerare che i processi verbali di constatazione originavano da una indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Cremona, ricomprendente anche ipotesi di reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, per le quali non si poneva un problema di individuazione della soglia di punibilità, e senza considerare altresì che erano stati anche già eseguiti atti di perquisizione e successivi decreti di sequestro, per cui l’utilizzo delle dichiarazioni autoaccusatorie del ricorrente si poneva in violazione della norma di cui all’art. 63 cod. proc. pen.
4.2 Con il secondo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 ed omessa risposta a censure difensive dedotte con l’atto di appello.
In sintesi, deduce la difesa che il ricorrente aveva Svolto una funzione sostanzialmente equivalente a quella di NOME COGNOME quali pedine di un gioco più grande condotto da altri personaggi, per cui le dichiarazioni rese dal ricorrente ritenute confessorie e tali da integrarne la responsabilità evidenziavano nella loro genericità la non conoscenza della realtà aziendale in cui si trovava ad operare. La difesa lamenta, conseguentemente, l’assenza di elementi fattuali dimostrativi del dolo specifico, ovverosia che il ricorrente avesse consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione per evadere l’imposta in misura superiore alla soglia penalmente rilevante.
NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
5.1 Con il primo motivo, eccepisce vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, senza la valutazione degli elementi e delle deduzioni difensive, in particolare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in fase d’indagine e acquisite in sede di verifica fiscale, la inutilizzabilità delle dichiarazioni del ricorren contenute nel processo verbale di constatazione, la prova del superamento della soglia di punibilità fondata su presunzioni tributarie semplici, la rilevanza delle sentenze tributarie versate in atti.
5.2 Con il secondo motivo, eccepisce violazione di legge con riferimento alla utilizzabilità delle dichiarazioni rese in fase d’indagine ed acquisite in sede di verifica fiscale.
In sintesi, lamenta la difesa che, con riferimento alla individuazione del dies a quo per l’applicazione delle regole e delle garanzie ex art. 220 disp. att. cod. proc. pen., la Corte territoriale ha individuato tale momento in quello di ultimazione dei processi verbali di constatazione, risalenti all’aprile 2017-gennaio 2018, momento in cui era stata quantificata l’imposta evasa, quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, senz considerare che i processi verbali di constatazione originavano da una indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Cremona, ricomprendente anche ipotesi di reato diverse e più ampie; senza considerare altresì che, in data 27 aprile 2016, era stato eseguito un decreto di perquisizione presso la sede del consorzio RAGIONE_SOCIALE, con il sequestro probatorio della documentazione contabile delle cooperative consorziate; senza considerare infine le dichiarazioni autoindizianti
rese in sede di verifica fiscale da NOME COGNOME idonee da sole, poiché confessorie, a fare emergere indizi di reato, con la conseguente applicazione degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen.
5.3 Con il terzo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alle s.i.t. rese dai testimoni NOME COGNOME e NOME COGNOME, in date 14/11/2016 e 10/11/2016, indebitamente confluite nella motivazione della sentenza impugnata.
In sintesi, lamenta la difesa che, a fronte dell’utilizzo nella sentenza di primo grado delle sommarie informazioni rese da COGNOME e COGNOME nel corso delle indagini preliminari, nonostante il divieto specifico di utilizzo in dibattimento, la Corte territoriale, non fornendo alcuna motivazione sulla correttezza dell’operato del primo giudice, aveva riportato le medesime dichiarazioni anche nella sentenza di appello.
5.4 Con il quarto motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al travisamento dei fatti e delle risultanze probatorie, in relazione alla avvenuta cancellazione della RAGIONE_SOCIALE società cooperativa in liquidazione, dal registro delle imprese a far data dal 24/09/2014, con una serie di conseguenze, tra le quali la impossibilità di avviare un accertamento tributario nei confronti di una società cancellata o estinta e, quindi, la non configurabilità di alcun obbligo dichiarativo della società estinta rispetto all’anno di imposta 2014, per il venir meno di un elemento costitutivo del reato, ovverosia la insussistenza della pretesa impositiva; inoltre, la cancellazione preclude l’accesso alla procedure conciliative e di adesione all’accertamento, nonché ogni altra procedura di ravvedimento operoso, per cui era errata l’affermazione della Corte territoriale che aveva posto a fondamento dell’elemento soggettivo del reato il persistere del debito tributario, senza alcuna condotta di ravvedimento operoso anche in epoca successiva all’avvio del procedimento penale.
NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
6.1 Con il primo motivo, eccepisce violazione di legge processuale e vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta utilizzabilità del processo verbale di constatazione e degli elementi e dei documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza in sede di verifica.
In sintesi, lamenta la difesa che, con riferimento alla individuazione del dies a quo per l’applicazione delle regole e delle garanzie ex art. 220 disp. att. cod. proc. pen., la Corte territoriale ha individuato tale momento in quello di ultimazione dei processi verbali di constatazione, risalenti all’aprile 2017-gennaio
2018, momento in cui era stata quantificata l’imposta evasa, quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, così eludendo le garanzie procedurali che avrebbero consentito al ricorrente di anticipare l’interlocuzione con l’Agenzia delle Entrate, per il pagamento rateale delle imposte dovute, e senza considerare che i processi verbali di constatazione originavano da una indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Cremona, per le ipotesi di reato di cui agli artt. 4, 5 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000; e senza considerare altresì che, fin dalla prima convocazione in sede di processo verbale di constatazione, veniva contestata al ricorrente l’omessa presentazione delle dichiarazioni, per cui, sin dal 30/10/2017, gli accertatori erano a conoscenza di una condotta che poteva integrare reato ed erano in grado, attraverso le banche dati e la documentazione consegnata, di evincere con precisione il superamento della soglia di punibilità, con la conseguente applicazione delle regole procedurali di cui all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen.
6.2 Con il secondo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
In sintesi, deduce la difesa che l’onere gravante sull’accusa di dimostrare il dolo specifico di evasione, vale a dire la sussistenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato avesse preordinato l’omessa dichiarazione al fine specifico di evadere l’imposta in misura superiore alla soglia penalmente rilevante, non era stato nella fattispecie dimostrato, avendo il ricorrente affidato la gestione della contabilità e degli adempimenti fiscali ad uno studio professionale, apprendendo della omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali relative agli anni di imposta 2013 e 2014 solo a seguito dell’avvio della verifica fiscale, per cui aveva revocato l’incarico allo studio professionale e sottoscritto atto di accertamento con adesione per l’anno di imposta 2013 finalizzato al pagamento del debito tributario, tanto che le dichiarazioni fiscali per gli anni successivi erano state regolarmente presentate e le scritture contabili erano istituite e regolarmente tenute. Concludeva, quindi, nel senso che la sentenza impugnata non avesse valorizzato elementi di fatto idonei a dimostrare la sussistenza del dolo specifico di evasione in capo al ricorrente.
E’ pervenuta memoria dell’avv. NOME COGNOME, difensore di fiducia di NOME COGNOME COGNOME con la quale si eccepisce la intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, con riferimento all’anno di imposta 2013. Si ribadisce, inoltre, che al ricorrente avrebbe dovuto essere garantita l’assistenza di un difensore sin dalla prima convocazione in data 30/10/2017, in considerazione della indagine preesistente condotta dalla Procura della
Repubblica di Cremona, per le ipotesi di reato di cui agli artt. 4, 5 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000, nonché del fatto che gli accertatori erano già a conoscenza della mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali relative agli anni di imposta 2013 e 2014, nonché del volume di affari della società. Si ribadisce che la sussistenza del dolo specifico è stata considerata in re ipsa, senza alcuna valutazione ed indagine.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo dei ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME e il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME tra loro connessi perché incentrati sulla violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., sono manifestamente infondati.
Il tema è stato affrontato e adeguatamente valutato dalla Corte territoriale alle pagine 56-59 della sentenza impugnata, ribadendo la linea motivazionale del giudice di primo grado e con essa saldandosi in un unico corpo motivazionale ricorrendo una ipotesi di “doppia conforme”, secondo cui l’emersione degli elementi costitutivi dei reati contestati era coincisa con il momento di ultimazione dei processi verbali di constatazione, risalenti al periodo aprile 2017 – gennaio 2018, essendosi in tale momento proceduto alla quantificazione dell’imposta evasa secondo la prospettiva accusatoria, attraverso la determinazione degli imponibili, dei costi deducibili e delle detrazioni di imposta, dati estrapolati da varie fonti, sicchè le sommarie informazioni erano state rese dai ricorrenti in epoca precedente all’emersione dei reati, momento in cui non vi era obbligo di apprestare le garanzie di cui agli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. Né, prosegue la Corte territoriale, poteva sostenersi che le indagini in corso integrassero il presupposto per l’applicazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., dal momento che le ipotesi di reato contestate agli imputati erano state il frutto degli accertamenti condotti proprio in seno ai processi verbali di constatazione che avevano consentito l’emersione dei dati e la loro rielaborazione, con il superamento delle soglie di rilevanza penale. Il giudice di primo grado precisa, inoltre, che solo nella sezione conclusiva dei processi verbali di constatazione la Guardia di Finanza riservava la trasmissione delle violazioni costituenti reato alla competente Procura della Repubblica per le ipotesi di reato contestate ai soggetti verificati..
L’impostazione della Corte territoriale risulta in sintonia con il principio affermato da questa Corte (Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019, Rv. 276679; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Rv. 246599), secondo cui il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, in quanto atto amministrativo
extraprocessuale, costituisce prova documentale e, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., giacché altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e quindi non è utilizzabile. Ne consegue che la parte di documento compilata prima dell’insorgere degli indizi ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito, con la precisazione che, in materia di attività ispettive, il presupposto di operatività dell’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale è quello nel quale è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone all’inchiesta amministrativa tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, COGNOME, Rv. 220291). E, pertanto, con riferimento alla fattispecie contestata di omessa denuncia, ex art. 5 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, deve emergere il superamento della soglia di punibilità che costituisce elemento costitutivo del reato (Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019, cit.; Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, COGNOME, Rv. 272578; più di recente, Sez. 3, n. 2792 del 08/10/2024, dep. 2025, COGNOME, n.m.; Sez. 3, n. 7244 del 12/01/2024, COGNOME, n.m.).
Del resto, la Corte di appello, oltre ad affermare che la compiuta emersione degli elementi costitutivi del reato di omissione dichiarativa era avvenuta all’esito dei processi verbali di constatazione, non ha mancato di sottolineare, ferma la pendenza di indagini al momento dell’attività ispettiva in sede di processi verbali di constatazione, la genericità delle contestazioni contenute in tutti i ricorsi circa la prova che le iscrizioni si riferissero alle omissioni dichiarative specificamente contestate e circa il momento in cui le indagini degli operanti, al di là dei primi approfondimenti esplorativi, avrebbero consentito l’emersione non di meri sospetti, ma di concreti elementi idonei a integrare, almeno a livello indiziario, gli estremi dei reati di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, oggetto di giudizio, questo sia con riferimento alle richiamate indagini in corso nell’ambito del procedimento iscritto al n. 5624/2014 R.G.N.R. presso la Procura della Repubblica di Cremona, sia con riferimento alla perquisizione ed al sequestro operati presso la sede del consorzio RAGIONE_SOCIALE. Priva di fondamento è anche la doglianza che richiama, quale momento di insorgenza del compendio indiziario e, quindi, della operatività dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., le dichiarazioni rese, in sede ispettiva, dal ricorrente Meda circa l’essersi disfatto della documentazione amministrativo-contabile oppure dal ricorrente COGNOME circa il suo ruolo gestorio, posto che, solo dopo tali dichiarazioni, è stato ricostruito il volume di affari delle cooperative interessate, e con esso l’accertamento della
soglia di punibilità del reato, non solo attraverso le fatture già acquisite presso il consorzio MPF, ma anche attraverso le risposte ai questionari inoltrati ai clienti della cooperativa, e le banche dati dell’INPS e del c.d. Spesonnetro.
In ogni caso, va richiamato il consolidato principio secondo cui, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; nello stesso senso, Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, COGNOME, Rv. 270303; e, da ult., Sez. 3, n. 3733 del 22/10/2024, dep. 2025, COGNOME, mm.).
Deve allora essere rimarcata la genericità dei motivi di ricorso nella parte in cui non è stato assolto l’onere difensivo di fornire la c.d. prova di resistenza, ovverosia la specificazione di quali parti del processo verbale di constatazione sarebbero state utilizzate indebitamente a fini probatori e la decisività di dette parti ai fini della decisione di condanna, ciò a fronte di una sentenza impugnata che, nel ritenere provati i fatti contestati, aveva valorizzato un diversificato compendio probatorio, costituito non solo e non tanto dalle dichiarazioni rese in sede ispettiva da alcuni dei ricorrenti (NOME COGNOME per la RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME per la RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME COGNOME per la DEK), quanto piuttosto (e soprattutto), ai fini dell’accertamento della soglia di punibilità, della documentazione acquisita, costituita dalle fatture già acquisite presso il consorzio MPF, dalle risposte ai questionari inoltrati ai clienti delle cooperative, e dagli elementi tratti dalle banche dati INPS e dal c.d. spesometro (cfr. pag. 22-24 per la RAGIONE_SOCIALE, pag. 27-28 per la RAGIONE_SOCIALE, pag. 33-34 per la DEK), tutti elementi che avevano consentito di accertare, all’esito dei processi verbali di constatazione, la sussistenza degli elementi costitutivi dei reati contestati.
Ne consegue la manifesta infondatezza delle censure difensive sullo specifico punto.
Il terzo motivo del ricorso di NOME COGNOME e il quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME connessi perché incentrati sul difetto degli elementi costitutivi del reato contestato, in ragione della intervenuta cancellazione della società, sono manifestamente infondati.
La giurisprudenza di legittimità è, infatti, ferma nel ritenere che la cancellazione della società dal registro delle imprese e la presentazione del
bilancio di liquidazione non fanno venir meno l’obbligo dichiarativo di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, perché altrimenti si legittimerebbe la prosecuzione “in nero” dell’attività di impresa, con conseguente sottrazione di ricavi ed elementi attivi all’imposizione diretta o sul valore aggiunto (Sez. 3, n. 20050 del 16/03/2022, COGNOME, Rv. 283201), atteso che, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, rileva l’esercizio effettivo dell’atti di impresa che genera redditi imponibili, per cui è stato condivisibilmente affermato che la fattispecie penale deve essere interpretata in base ad un criterio di effettività.
In coerenza con tali principi, la Corte territoriale ha correttamente affermato che, con specifico riferimento all’ipotesi in esame, la cancellazione dal Registro delle imprese e l’estinzione della società non fanno venir meno gli adempimenti dichiarativi a carico del liquidatore connessi alle dichiarazioni fiscali dell’anno precedente e del periodo dell’anno che precede la messa in liquidazione, nonchè del periodo della messa in liquidazione e sino al termine della stessa, con l’obbligo di effettuare i versamenti delle imposte dovute; obblighi che, nel caso di specie, non sono stati adempiuti, dal momento che la RAGIONE_SOCIALE cancellatasi dal Registro delle imprese in data 24.09.2014, ha omesso gli obblighi dichiarativi relativi agli anni di imposta 2013 e 2014, nei quali ha regolarmente operato.
Del resto, è stato anche affermato, con riferimento al delitto di occultamento di documenti contabili, che la natura permanente del predetto reato comporta che la condotta penalmente rilevante si protrae sino al momento dell’accertamento fiscale, ed è pertanto irrilevante l’intervenuta cancellazione dell’impresa, eseguita per cessazione dell’attività in epoca antecedente alla data dell’accertamento fiscale (Sez. 3, n. 38376 del 09/07/2015, Palermo, Rv. 264676).
Il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME e il terzo motivo del ricorso di NOME COGNOME connessi perché incentrati sull’utilizzo nella sentenza impugnata delle s.i.t. rese dai testimoni NOME COGNOME e NOME COGNOME sono manifestamente infondati.
Occorre rilevare in proposito che i predetti testimoni sono stati escussi in dibattimento, come risulta dalla sentenza di primo grado (pagg. 3, 4) che ne colloca l’assunzione delle testimonianze nelle udienze del 14/12/2020 (NOME COGNOME) e del 23/02/2021 (NOME COGNOME, tanto che i giudici di secondo grado, alle pagine 66 e 67 della sentenza impugnata, riportano testualmente larga parte del contenuto delle dichiarazioni testimoniali da costoro rese, dunque legittimamente acquisite, con espresso riferimento alle trascrizioni delle udienze del 14/02/2020 (Masini) e del 23/02/2021 (Sarni).
Tanto premesso, la doglianza circa l’illegittimo utilizzo delle s.i.t. rese in fase ispettiva dai predetti testimoni COGNOME e COGNOME risulta aspecifica, poiché in presenza di dichiarazioni testimoniali acquisite in dibattimento e testualmente riportate, i ricorsi non indicano in quale misura le fonti dichiarative asseritamente viziate abbiano inciso sul giudizio di responsabilità nei confronti dei ricorrenti NOME COGNOME e NOME COGNOME in relazione alle diverse ed ulteriori emergenze acquisite, procedendo alla c.d. prova di resistenza ((Sez. 3, n. 39603 del 03/10/2024, COGNOME, Rv. 287024 – 02; Sez. 4, n. 50817 del 14/12/2023, COGNOME, Rv. 285533 – 01).
In altri termini, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’errore di valutazione di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova erroneamente valutati diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; nello stesso senso, più di recente, Sez. 3, n. 39603 del 03/10/2024, Izzo, Rv. 287024 – 02; Sez. 2, n. 20141 del 09/04/2024, dep. 2025, L.V., n.m.), operando in tal modo una verifica dell’incidenza di una tale operazione sul percorso motivazione fondante la condanna.
Il secondo motivo dei ricorsi di NOME COGNOME e di NOME COGNOME con iequale le difese contestano la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, enfai manifestamente infondatC )
4.1 La Corte territoriale ha ritenuto comprovata la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, richiamando le dichiarazioni rese da NOME COGNOME in sede ispettiva, dalle quali emergeva il ruolo gestorio in capo al ricorrente, nonché gli ulteriori elementi consistenti nel mancato pagamento postumo delle imposte evase in tempi ragionevoli e la reiterazione dell’omissione per più anni, elementi ostativi alla possibilità di giustificare l’ignoranza dell’imposta dovuta e il superamento della soglia di punibilità, infine sottolineando che “il passaggio di consegne all’originario coimputato COGNOMENOME COGNOME nell’imminenza della scadenza del termine per la dichiarazione relativa all’anno di imposta 2014 è ampiamente significativo, soprattutto ove valutato alla luce della omessa tenuta della contabilità per quell’anno, oltre che per il precedente”, condotta quest’ultima che “nel costituire ostacolo alla precisa ed agevole ricostruzione delle operazioni
imponibili, del volume di affari e del reddito conseguito, resta funzionalmente collegata all’omessa presentazione delle dichiarazioni di imposta e, dunque, preordinata alla riuscita dell’evasione fiscale”.
La deduzione difensiva di aver svolto un ruolo di mera “testa di legno”, ignara di quanto il vero amministratore stesse facendo a sua insaputa, contrasta, pertanto, con quanto risulta dalla sentenza impugnata e dalla sentenza di primo grado, costituenti un unico corpo motivazionale, vertendosi in ipotesi di “doppia conforme”, che descrivono il ricorrente quale persona tutt’altro che estranea alla gestione societaria e niente affatto inconsapevole del meccanismo fraudolento.
Le argomentazioni utilizzate si pongono in sintonia con le affermazioni di questa Corte secondo cui, in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 38802 del 25/09/2024, Nuzzolese, Rv. 286950; Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, V., Rv. 267022), ammontare che, peraltro, può costituire oggetto di rappresentazione e volizione anche soltanto nella forma del c.d. dolo eventuale (cfr. Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272578), nonché dal mancato pagamento postumo dell’imposta evasa, in tempi ragionevoli, dalla reiterazione dell’omissione per più anni di imposta o, ancora, dal disinteresse rispetto alle richieste e verifiche tributarie (Sez. 3, n. 44170 del 04/07/2023, Marra, Rv. 285221).
Del resto, la più recente elaborazione giurisprudenziale, correttamente richiamata dalla Corte territoriale, ha affermato che il legale rappresentante di un ente che non abbia dello stesso l’effettiva gestione non risponde ex art. 40, comma secondo, cod. pen. per violazione dei doveri di vigilanza e controllo derivanti dalla carica rivestita, ma quale autore principale della condotta, in quanto direttamente obbligato “ex lege” a presentare le dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto di soggetti diversi dalle persone fisiche, che devono essere da lui sottoscritte e, solo in sua assenza, da chi abbia l’amministrazione, anche di fatto (Sez. 3, Sentenza n. 20050 del 16/03/2022, COGNOME, Rv. 283201).
La responsabilità omissiva del legale rappresentante dell’ente non deriva perciò dall’applicazione dell’art. 40, cpv., cod. pen. (e dunque dalla violazione di un dovere di controllo), bensì dalla violazione dell’obbligo gravante direttamente su di lui, obbligo che concorre a tipizzare la fattispecie di reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, selezionandone l’autore e qualificando il reato stesso come a “soggettività ristretta”, potendo essere
commesso solo da chi sia obbligato, per legge, a presentare la dichiarazione (nellò stesso senso, da ultimo, Sez. 3, n. 17283 dell’11/03/2025, Hu, n.m.; Sez. 3, n. 42606 del 15/10/2024, Larocca, n.m.).
Va da sé che l’errore sul dovere di presentare la dichiarazione fiscale ovvero dell’imposta dovuta e del superamento della soglia di punibilità integra non un errore sul fatto, bensì un errore sul precetto, che non scusa ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo il caso di ignoranza inevitabile, situazione che certamente non è ravvisabile nel caso in esame.
4.2 Quanto alla posizione di NOME COGNOME il quale ha sostenuto di aver delegato la presentazione delle dichiarazioni fiscali al proprio commercialista e di non essersi quindi accorto della mancata ottemperanza agli obblighi dichiarativi, la Corte distrettuale ha affermato che le giustificazioni fornite non escludessero la sua responsabilità penale, coerentemente con gli indirizzi affermati in sede di legittimità secondo cui, in tema di reati tributari, l’affidamento ad un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione in quanto la norma tributaria considera come personale ed indelegabile il relativo dovere, essendo unicamente delegabile la predisposizione e l’inoltro telematico dell’atto (Sez. 3, n. 9417 del 14/01/2020, Quattri, Rv. 278421; Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, COGNOME, Rv. 265087; nello stesso sento, più di recente, Sez. 3, n. 19606 del 09/05/2025, COGNOME, n.m.; Sez. 3, n. 13127 del 18/02/2025, COGNOME, n.m.), per cui la nomina del professionista è condotta che deriva dalla sussistenza dell’obbligo e prova, semmai, la consapevolezza del contribuente del suo doveroso adempimento (Sez. 3, n. 43366 del 08/10/2024, Gentile, n.m.).
Tanto più che, nel caso di specie, osserva ancora logicamente la Corte di merito, gli assunti giustificativi, circa l’inconsapevolezza delle omissioni dichiarative, sono risultati del tutto generici e la società cooperativa amministrata dall’imputato, in qualità di procuratore speciale, è risultata inottemperante agli obblighi dichiarativi ed evasore dell’imposta sul valore aggiunto per due annualità consecutive (2013 e 2014), né risulta esser stata attivata azione di responsabilità civile nei confronti del professionista delegato o presentata dichiarazione di imposta tardiva, a dimostrazione della buona fede; affermazioni anche queste coerenti ad un consolidato indirizzo di legittimità, sopra richiamato che valorizza l’entità dell’imposta evasa (nella specie pari complessivamente, per entrambe le annualità di interesse, a quasi un milione di euro), posto che, per un verso, l’omesso pagamento denunzia nei fatti la realizzazione dello scopo della condotta omissiva verbalmente negata da chi predica l’assenza del fine (Sez. 3, n. 43366 del 08/10/2024, deo. 2025, Gentile,
cit.), e, per altro verso, il mancato e reiterato pagamento per più anni delle imposte costituisce comportamento post factum legittimamente valutabile ai fini dell’accertamento del dolo, nel senso che la prova del dolo che caratterizza una determinata fattispecie può essere desunta dal comportamento tenuto dal colpevole in un momento successivo all’epoca delittuosa, perché il principio del libero convincimento del giudice non soffre distinzioni fra natura materiale e psicologica dei fatti emersi dal processo e oggetto di valutazione ai fini del convincimento stesso (Sez. 3, n. 36765 del 30/05/2024, Ferrara, Rv. 286999; Sez. 3, n. 44170 del 04/07/2023, Marra, Rv. 285221; n. 16469 del 28/02/2020, Veruari, Rv. 278966). Né è sostenibile il contrario alla luce del dedotto atto di accertamento con adesione relativo al solo anno di imposta 2013, poiché, a tacer d’altro, al mancato pagamento è equivalente l’ipotesi del versamento solo parziale del dovuto, per giunta dopo l’accertamento, come avvenuto nel caso in esame (Sez. 3, n. 42218 del 04/07/2023, Lin, n.m.).
Le argomentazioni della Corte di appello sono, pertanto, congrue e non manifestamente illogiche ed in linea con i principi di diritto affermati in materia, così sottraendosi al sindacato di legittimità, mentre le censure proposte sono meramente contestative ed orientate a sollecitare una rivalutazione delle risultanze istruttorie, preclusa in sede di legittimità, in linea con la consolidata affermazione della giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482) secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
Il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME è manifestamente infondato perché generico, omettendo un adeguato confronto con le argomentazioni contenute nella parte motiva della sentenza impugnata.
Diversamente da quanto rappresentato in ricorso, la Corte territoriale ha affermato di aver proceduto a ricostruire il reddito d’impresa e il volume di affari non sulla base di elementi presuntivi, ma sulla base delle fatture già acquisite presso il consorzio MPF, delle risposte ai questionari inoltrati ai clienti della cooperativa, e degli elementi tratti dalle banche dati INPS e dal c.d. spesometro, così pervenendo ad una quantificazione degli importi evasi ampiamente superiore alla soglia di punibilità, nonostante che gli accertatori, nell’operazione
di calcolo, avessero dedotto i costi ricavati dalle fonti utilizzate e detratto VIVA a credito. Ed è oggetto di costante affermazione in giurisprudenza il principio secondo cui, in tema di reati tributari, per il principio di atipicità de mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi delle risultanze degli eventuali accertamenti, sebbene induttivi, compiuto dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 36207 del 17/04/2019, COGNOME, Rv. 277581, e Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017 COGNOME, Rv. 270476; nello stesso senso, più di recente, Sez. 3, n. 3735 del 20/11/2024, dep. 2025, COGNOME, n.m.), nonché degli elementi accertati attraverso la consultazione della banca-dati, comunemente indicata come “spesometro”, accertamento quest’ultimo avente un contenuto “materiale”, essendo fondato su dati “reali” e non meramente presuntivi (cfr., in tal senso, Sez. 3, n. 39646 del 13/06/2024, Gualano, n.m.).
E’ stato poi messo in evidenza dalla Corte di merito come, in base alle dichiarazioni testimoniali rese da NOME COGNOME (consulente contabile) e NOME COGNOME (addetto alla gestione delle buste paga), il ricorrente si fosse relazionato con costoro, in tal modo sottolineando, con argomenti non illogici, che l’assunzione della carica di amministratore di diritto da parte del ricorrente non era stata meramente formale.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito in proposito che, in tema di reati tributari, l’amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, ovvero a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Sez. 3, n. 46834 del 21/09/2023, COGNOME; Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018, C. Rv. 273939-02).
Peraltro, GLYPH con GLYPH riferimento agli GLYPH obblighi GLYPH dichiarativi, la GLYPH più GLYPH recente elaborazione giurisprudenziale, sopra già richiamata, ha chiarito che il legale rappresentante di un ente che non abbia dello stesso l’effettiva gestione non risponde ex art. 40, comma secondo, cod. pen. per violazione dei doveri di vigilanza e controllo derivanti dalla carica rivestita, ma quale autore principale della condotta, in quanto direttamente obbligato “ex lege” a presentare le dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto di soggetti
diversi dalle persone fisiche, che devono essere da lui sottoscritte e, solo in sua assenza, da chi abbia lipmnninistrazione, anche di fatto (Sez. 3, Sentenza n. 20050 del 16/03/2022, Rv. 283201). In motivazione la Suprema Corte ha specificato che “si tratta di obblighi dichiarativi gravanti direttamente ed immediatamente sul legale rappresentante dell’ente secondo quanto dispongono gli artt. 1, comma 4, e 8, comma 6, d.P.R. n. 322 del 1988, a mente dei quali le dichiarazioni relative alle imposte dirette e sul valore aggiunto dei soggetti diversi dalle persone fisiche devono essere sottoscritte da chi ne ha la legale rappresentanza e solo in assenza di questi da chi ne ha l’amministrazione, anche di fatto. La responsabilità omissiva del legale rappresentante dell’ente, dunque, non deriva dall’applicazione dell’art. 40 cpv. cod. pen. (e dunque dalla violazione di un dovere di controllo), bensì dalla violazione dell’obbligo gravante direttamente su di lui, obbligo che concorre a tipizzare la fattispecie di reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 selezionandone l’autore e qualificando il reato stesso come a “soggettività ristretta” che può essere commesso solo da chi sia obbligato, per legge, a presentare la dichiarazione.
Il ricorrente, pertanto, oppone, al non illogico convincimento della Corte territoriale, argomenti fattuali e di merito che, oltre a non confrontarsi integralmente con la motivazione della sentenza impugnata, esulano dal perimetro assegnato al giudizio di legittimità.
Ne consegue che il motivo, oltre ad essere manifestamente infondato, è stato proposto fuori dai casi consentiti ed è, quindi, inammissibile.
6. In conclusione, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, i ricorsi proposti nell’interesse dei ricorrenti devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti stessi, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto, inoltre, della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende, esercitando la facoltà introdotta dall’art. 1, comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare oltre il massimo la sanzione prevista dall’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni dell’inammissibilità stessa come sopra indicate.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso l’11/06/2025.