Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 6818 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3   Num. 6818  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
QUATTRI NOME NOME a BRESCIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 28/11/2022 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del COGNOME NOME COGNOME Il Proc. Gen. conclude per l’inammissibilità del ricorso
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RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza del 28 novembre 2022 la Corte di appello di Brescia ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Brescia il 10 gennaio 2022 a NOME COGNOME alla pena di 2 anni di reclusione per i delitti ex art. 5 d.lgs. n. 74 del 200 perché, quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, al fine di evadere le imposte dirette e sul valore aggiunto, omise di presentare le dichiarazioni relative a dette imposte per gli anni di imposta 2014 e 2015, con evasione degli importi indicati nel capo di imputazione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato.
2.1. Con il primo motivo si deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte di appello, nell’accertamento dell’elemento oggettivo e del superamento della soglia di punibilità, si sarebbe limitata all’acquisizione delle risultanze dell’accertamento tecnico preventivo -redte analitico induttivo del procedimento tributario – che si fonderebbe su presunzioni mentre non avrebbe valutato un elemento decisivo: la Guardia di finanza non avrebbe acquisito gli estratti di conto corrente della società amministrata dall’imputato, come già indicato nell’appello ed emerso dall’esame del AVV_NOTAIONOME COGNOME. Dall’analisi dei conti correnti si sarebbe potuto appurare l’effettivo volume di affari e determinare l’esatto ammontare dell’imposta evasa.
La mera analisi delle fatture non permetterebbe di accertare quali importi siano stati effettivamente incassati e quali siano insoluti perché non sarebbero assimilabili ad una quietanza di pagamento potendo il corrispettivo essere versato successivamente o non versato.
La Guardia di finanza non avrebbe tenuto conto, per il 2014, di ulteriori costi deducibili ai fini Ires, da redditi da lavoro dipendente e per i contribu previdenziali.
La sentenza, per il 2014, sarebbe lacunosa ed illogica nell’affermare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio.
2.2. Con il secondo motivo si deduce la mancanza ed illogicità della motivazione sulla sussistenza del dolo, generico e specifico, fondata sulla condotta successiva al reato, non avendo l’imputato esibito la documentazione fiscale richiesta dalla Polizia Tributaria.
La Corte territoriale non avrebbe valutato, come indicato nell’appello, che il ricorrente, al momento degli accertamenti fiscali, non era legale rappresentante, perché sostituito dal 15 marzo 2017 da altro soggetto, e non sarebbe stato in possesso della documentazione contabile della società.
L’erronea indicazione, da parte del ricorrente, che la documentazione fosse presso il commercialista non proverebbe il dolo ma dimostrerebbe la volontà di collaborare con la Polizia tributaria.
L’omessa esibizione della documentazione contabile sarebbe stata incolpevole. In ogni caso, l’argomento relativo alla mancata collaborazione con la Polizia tributaria non sarebbe utilizzabile perché tale condotta sarebbe espressione del diritto di difesa e del principio nemo tenetur se detegere, sicché la motivazione sarebbe priva di logicità.
Inoltre, risulterebbe che, per gli anni di imposta 2014 e 2015, sarebbero state presentate 2 dichiarazioni per la AJP, che indicherebbero il nome errato del legale rappresentante (sig.ra COGNOME) ma che sarebbero state sottoscritte dal ricorrente; nonostante ciò, gli sarebbe stato contestato l’art. 5 d.lgs. n.74 del 2000. Tale circostanza di fatto proverebbe l’assenza del dolo.
L’argomento difensivo non sarebbe superato dalla motivazione della sentenza impugnata sull’omesso pagamento delle imposte che, invece, costituirebbe solo un indizio contraddetto dalle dichiarazioni fiscali sottoscritte dall’imputato, anche se riportanti un nome diverso.
Il ricorrente, poi, all’atto dell’accertamento della Polizia tributaria, non era p il legale rappresentante sicché non avrebbe potuto attingere alle riserve della società e pagare i tributi; il pagamento con le proprie riserve economiche avrebbe concretizzato un indebito soggettivo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è manifestamente infondato.
1.1. Oltre alla deduzione promiscua dei vizi della motivazione, inammissibile secondo la giurisprudenza (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 01, in motivazione), la questione della responsabilità fondata solo sull’accertamento induttivo non è stata dedotta con l’appello, ma solo con il ricorso per cassazione, sicché è inammissibile ex art. 606, comma 3, e 609 cod. proc. pen.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la lettura coordinata degli artt. 609 e 606, comma 3, cod. proc. pen. impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, quale rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugNOME, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti è facilmente diadnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto
dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale (in tal senso cfr. Sez. U. n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794, in motivazione).
1.2. In ogni caso, il motivo è manifestamente infondato perché dalla sentenza impugnata risulta chiaramente che l’accertamento del volume di affari e dell’Iva non corrisposta, dei redditi percepiti e non dichiarati, è avvenuto in via documentale, mediante i partitari clienti/fornitori, le liquidazioni periodiche Iva e i registri Iva acquisti e vendite; quindi, mediante gli accertamenti documentali eseguiti presso i clienti della società.
Per altro, le argomentazioni esposte sul valore probatorio delle fatture non tengono in minimo conto le regole giuridiche sull’obbligo di pagamento dell’Iva collegato alla emissione delle fatture.
Risulta dalla sentenza impugnata che sono stati valutati anche i costi sostenuti e documentati.
Il secondo motivo è manifestamente infondato nella parte in cui deduce la mancanza di motivazione sul dolo specifico perché la motivazione è esistente, come risulta dallo stesso ricorso.
Va, poi, ricordato che il vizio ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. sussiste sol nei casi di motivazione manifestamente illogica, e non solo illogica, come indicato nel ricorso.
2.1. La Corte di appello ha esplicitamente valutato la modifica relativa alla rappresentanza legale ma ha ritenuto tale dato del tutto irrilevante; tale valutazione è corretta tenuto conto dei termini di scadenza delle dichiarazioni e della consapevolezza del volume di affari della società cooperativa, come indicato dallo stesso ricorrente (cfr. pag. 6 della sentenza). Con tale parte della motivazione, per altro, il ricorso non si confronta ed inammissibile per il difetto del requisito della specificità estrinseca.
2.2. La tesi difensiva dell’affidamento al commercialista è stata ritenuta priva di riscontro e smentita dallo stesso commercialista, mentre il dolo è stato ritenuto esistente attraverso l’analisi complessiva delle fonti di prova.
Il ricorso non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata sulle dichiarazioni del commercialista sui rapporti con il solo ricorrente, con la condotta di quest’ultimo in occasione della presentazione delle dichiarazioni – da parte di altro soggetto non legittimato – con valore zero, con la mancata consegna della documentazione proprio al commercialista.
2.3. Il motivo è manifestamente infondato quando afferma che l’omessa esibizione della documentazione societaria costituirebbe un esercizio del diritto di difesa e come tale non valutabile ai fini della sussistenza del dolo specifico, tenuto conto degli obblighi di collaborazione previsti dalla disciplina tributaria, come ad
esempio previsto nell’art.32, comma 4, d.p.r. n. 600 del 1973, e degli effetti nel procedimento tributario.
2.4. Il motivo è anche manifestamente infondato in fatto perché, al contrario di quanto si rappresenta nel ricorso, la sentenza impugnata ha rilevato che negli anni di imposta 2014 e 2015 la dichiarazione dei redditi della società cooperativa era stata presentata, indicando dati Iva con valori pari allo 0, non dal legale rappresentante ma dalla moglie firmataria COGNOME NOME, che era stata amministratrice della cooperativa dal 2010 al 2012. La dichiarazione presentata da soggetto non legittimato si considera omessa.
2.5. La valutazione del comportamento successivo ai fini della sussistenza del dolo è corretta. La giurisprudenza ha ritenuto che il comportamento successivo possa essere valutato ai fini della sussistenza del dolo, ed ha affermato la rilevanza, ai fini della prova del dolo, del successivo omesso pagamento dei tributi (Sez. 3, n. 16469 del 28/02/2020, Veruari, Rv. 278966 – 01).
Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3.000,00, determinata in via equitativa, in favore della RAGIONE_SOCIALE delle Ammende, tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE delle ammende.
Così deciso il 24/10/2023.