Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 30533 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 30533 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: PAZIENZA VITTORIO
Data Udienza: 15/07/2024
SENTENZA
Sul ricorso proposto da: COGNOME NOME, nato ad Asti il DATA_NASCITA avverso la sentenza emessa il 15/09/2023 dalla Corte d’Appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni del difensore del ricorrente, AVV_NOTAIO NOME, che ha concluso insistendo per l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 15/09/2023, la Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Asti, in data 16/09/2021, con la quale COGNOME NOME era stato condannato alla pena di giustizia in relazione al reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, a lui ascritto – relativamente all’anno di impos 2013 – in qualità legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE
Ricorre per cassazione il COGNOME, a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge con riferimento alla nullità del capo di imputazione per indeterminatezza nella descrizione dei fatti. Si censura la sentenza per non aver considerato, ai fini predetti, la mancata individuazione delle singole fatture cui si riferiva l’addebito di omessa indicazione nella dichiarazione IVA, elemento determinante anche ai fini della valutazione del superamento della soglia di punibilità. Si deduce altresì che la fondatezza dell’eccezione risultava confermata dall’operato del primo giudice che – preso atto della mancata indicazione e produzione delle fatture, aveva elaborato lo “specchietto” di c:ui alla pag. 2 della sentenza di primo grado, sulla scorta di quanto riferito dal teste di accusa dopo aver consultato i documenti in suo possesso. Si insiste sulla nullità del decreto introduttivo, comprovata dal persistente inadempimento del P.M. circa la produzione delle fatture, circostanza che aveva determinai:o una valutazione giudiziale (sul superamento della soglia) basata esclusivamente sulle dichiarazioni del teste.
2.2. Vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo. Si evidenzia che le fatture emesse erano funzionali alla commissione di una truffa in danno della RAGIONE_SOCIALE, par la quale era ancora in corso il procedimento penale; la loro emissione aveva dunque tale finalità, e non quella di evadere le imposte, risultando impropria la sovrapposizione della omessa dichiarazione – di rilievo meramente amministrativo – e la fattispecie penale. Si richiama, sul punto, la giurisprudenza di legittimità dalla quale emergeva l’impossibilità di ricavare il dolo specifico di evasione dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo.
3 Con requisitoria ritualmente trasmessa, il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO sollecita una declaratoria di inammissibilità del ricorso, perché in parte generico e comunque manifestamente infondato.
Con motivi aggiunti tempestivamente depositati, la difesa ribadisce e sviluppa le doglianze già articolate, evidenziando la mancanza di qualsiasi verifica dell’elemento soggettivo in relazione al superamento della soglia di punibilità (ci si era invero basati sulle sole dichiarazioni del teste), e l’inadeguatezza della motivazione quanto al dolo specifico, essendovi in atti solo la prova del diverso reato di truffa in danno della RAGIONE_SOCIALE, dovendosi respingere ogni automatismo, che finirebbe per trasformare il reato contestato in una fattispecie incriminatrice colposa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è nel suo complesso infondato e deve essere perciò rigettato.
Per ciò che riguarda il primo motivo, occorre prendere le mosse dall’insegnamento di questa Suprema Corte secondo cui «in tema di reati tributari, la mancata specificazione nell’imputazione di omessa dichiarazione dei redditi dell’ammontare effettivo del reddito e del volume di affari, sulla cui base calcolare l’importo dovuto a titolo di imposta, non integra un’ipotesi di nullità pe indeterminatezza sempre che sia indicato l’ammontare dell’imposta evasa con riferimento al periodo di imposta cui si riferisce la violazione» (Sez. 3, n. 7121 del 15/01/2009, Shao, Rv. 242675 – 01).
In tale ottica interpretativa, che si condivide e qui si intende ribadire, deve escludersi la fondatezza delle censure volte a sostenere la nullità del decreto di citazione per insufficiente descrizione del fatto.
L’imputazione di omessa dichiarazione formulata nei confronti del COGNOME, nella sua qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, indica infatti, con assoluta chiarezza, sia l’anno di imposta cui si riferisce l’accusa (2013), sia l’ammontare dell’imposta evasa (Euro 135.322,00). Risultano perciò del tutto irrilevanti, ai fini specifici che qui interessano, le successive vicende dibattimentali si allude alla produzione, da parte del P.M., delle cinque fatture emesse nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, alla base della contestazione, unitamente ad una nota di credito che aveva consentito al primo giudice di ridurre in sentenza l’imposta evasa ad Euro 120.912,00 (cfr. lo “specchietto” elaborato a pag. 2 della sentenza di primo grado).
Al riguardo, la Corte territoriale ha anche condivisibilmente osservato che la documentazione prodotta “era già disponibile nel fascicolo della pubblica accusa accessibile alla parte privata, di talchè neppure in concreto può dirsi violato in alcun modo il diritto di difesa” (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata).
Ad analoghe conclusioni di infondatezza deve pervenirsi quanto alle residue censure concernenti l’elemento soggettivo del reato.
Invero, la sintetica motivazione della Corte territoriale, connotata da un improprio richiamo al concetto di dolus in re ipsa (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata), deve essere valutata congiuntamente – secondo i consolidati principi in tema di “doppia conforme” – alle più diffuse e pregnanti argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado, in cui si è tra l’altro fatto riferimento, d tutto condivisibilmente, all’indirizzo interpretativo di questa Suprema Corte secondo cui «in tema di reati finanziari e tributari, il delitto di omessa dichiarazion a fini I.V.A. è configurabile anche nel caso in cui siano state emesse fatture per operazioni inesistenti, in quanto, secondo la normativa tributaria, l’imposta sul valore aggiunto è dovuta anche per tali fatture, indipendentemente dal loro effettivo incasso, con conseguente obbligo di presentare la relativa dichiarazione» (Sez. 3, n. 32500 del 06/06/2018, Brancaleon, Rv. 273697 – 01. In senso conforme, cfr. da ultimo Sez. 3, n. 10233 del 24/10/2023, dep. 2024, COGNOME).
Il richiamo a tale indirizzo interpretativo, contenuto nella sentenza di primo grado, va correlato alla prospettazione difensiva secondo cui le fatture erano state
in realtà emesse a fronte di operazioni inesistenti, al fine di ottener illegittimamente danaro dalla RAGIONE_SOCIALE (intento perseguito avvalendosi dell’opera di un dipendente infedele della predetta società, ed ottenuto come da denuncia sporta del suo legale rappresentante: cfr. pag. 2 della sentenza di primo grado, pag. 3 segg. dell’odierno ricorso).
Oltre all’irrilevanza della prospettata inesistenza delle prestazioni sottese alle fatture, il Giudice di primo grado ha tra l’altro evidenziato: la posizione amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE ricoperta dal COGNOME sin da epoca risalente (circostanza idonea a far ritenere che egli fosse al corrente di tutte le attività societarie e della conseguente necessità di presentare la dichiarazione); la mancata allegazione di qualsiasi elemento di fatto in grado di porre in dubbio la consapevolezza, in capo al COGNOME, degli obblighi a suo carico; la mancata allegazione di documenti idonei a comprovare la regolarizzazione successiva ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000 (cfr. pag. 4 della sentenza di primo grado).
Tale compendio argomentativo è rimasto privo di adeguata confutazione da parte della difesa ricorrente, che si è limitata a sostenere la configurabilità soltant del dolo di truffa in danno della RAGIONE_SOCIALE. Si tratta peraltro di una prospettazione del tutto apodittica, che si espone al concorde rilievo dei giudici di merito (pag. 3 della sentenza impugnata, pag. 4 della sentenza di primo grado) in ordine alla coesistenza anche del dolo di evasione, correlato all’ampio superamento – attesa l’entità delle somme complessivamente ricavate dalla RAGIONE_SOCIALE, grazie alle fatture – della soglia di rilevanza penale dell’omessa dichiarazione.
Le considerazioni fin qui svolte impongono il rigetto del ricorso, e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 15 luglio 2024
Il Presidente