Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 13051 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 13051 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME, nato in Francia il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/11/2022 della Corte d’appello di Genova;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Genova riformava parzialmente la condanna dell’imputato per violenza o minaccia a un pubblico ufficiale dell’imputato, derubricando l’ipotesi dell’art. 336, comma 1, cod. pen. in quella dell’art. 336, comma 2, cod. pen. e confermando la condanna per oltraggio
a pubblico ufficiale (art. 341-bis cod. pen.), per aver l’imputato minacciato e offeso un agente in servizio presso la casa circondariale dove era detenuto allo scopo di costringerlo a chiamare, immediatamente e in sua presenza, l’ispettore coordinatore di sorveglianza.
Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite dell’AVV_NOTAIO, articolando i seguenti due motivi.
2.1. Errata applicazione degli artt. 336 e 341-bis cod. pen.
Premesso che il delitto di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 cod. pen.) è a dolo specifico, richiedendo che l’agente agisca al fine di impedire il compimento dell’atto del suo ufficio da parte dell’agente pubblico, nel caso di specie, gli stessi Giudici di appello hanno riconosciuto che l’imputato si era limitato a lamentare la necessità di chiamare l’ispettore della sorveglianza, dovendo conferire con lui per esporre legittime problematiche.
Quanto alla fattispecie di oltraggio e ricordato che il tipo legislativo richiede l presenza di più soggetti, secondo la giurisprudenza di legittimità, la frase offensiva deve raggiungere anche persone estranee alle pubbliche funzioni in corso di svolgimento. Non sussistendo alcun riscontro probatorio in ordine all’effettiva presenza di altri soggetti e alla percezione diretta delle frasi pronunciate da parte di chicchessia, il fatto integrerebbe, al limite, un’ingiuria, tuttavia non più previs come reato.
2.2. Errata applicazione della legge penale con riferimento alle circostanze attenuanti generiche.
La natura, le modalità e i tempi dell’azione, il danno concretamente patito dalla persona offesa, uniti all’oggetto e al fine per cui il reato era commesso, non denoterebbero un complessivo particolare disvalore dell’azione criminosa. Nemmeno il diniego delle circostanze attenuanti generiche avrebbe potuto essere giustificato dal mero richiamo A precedenti penali dell’imputato, la valutazione dovendo essere invece basata sui criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del di. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta, nei termini ivi previsti, di discussione orale, il AVV_NOTAIO generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
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CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Dalla ricostruzione del fatto compiuta nella sentenza di primo grado e confermata in appello emerge che: l’imputato chiamava un agente chiedendogli di parlare con l’ispettore di sorveglianza; l’agente cercava di contattare quest’ultimo, riuscendovi soltanto alla quarta o quinta telefonata; il detenuto dall’interno della cella iniziava, nonostante i tentativi dell’agente, a sbattere il blindato e ad ingiuriare l’agente.
Nella pronuncia si precisa altresì che l’agente penitenziario, sentito come teste, aveva specificato che gli altri detenuti erano nella cella e che potevano aver sentito.
3. Ciò premesso, il primo motivo è manifestamente infondato.
Quanto alla dedotta non configurabilità del delitto di cui all’ad 336 cod. pen., la Corte di appello ha derubricato l’ipotesi del comma 1 in quella del comma 2, che prevede una pena minore là dove il fatto sia commesso per costringere il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di esso: il che è, appunto, accaduto nel caso di specie.
Di conseguenza, non si ravvisano errori nella qualificazione giuridica del fatto. Quanto all’ipotesi di oltraggio e in disparte la considerazione che tale motivo non era stato dedotto – quantomeno nei presenti termini – in appello (sicché, ai sensi dell’art. 606, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., già per tale ragione il motivo sarebbe inammissibile), dal capo di imputazione e poi dalla sentenza di primo grado si evince, rispettivamente, che l’imputato pronunciava le parole offensive «davanti ai detenuti all’interno della sezione detentiva» e che un teste riferì che «gli altri detenuti erano nelle celle e potevano aver sentito».
Escluso, quindi, che – come invece dedotto dal ricorrente – non si fosse raggiunta la prova della presenza di altri soggetti estranei alle funzioni svolte dal soggetto passivo’, il problema starebbe, al più, nella mancata dimostrazione che le parole pronunciate dall’imputato fossero state realmente percepite dai presenti.
Sul punto, però, soccorre l’univoco insegnamento di questa Corte secondo cui, raggiunta la prova della presenza di più persone, tale circostanza è sufficiente a far ritenere integrato il reato la mera possibilità della percezione dell’offesa da parte dei presenti (Sez. 6, n. 29406 del 06/06/2018, COGNOME, Rv. 273466; Sez. 6, n. 19010 del 28/03/2017, COGNOME, Rv. 269828; Sez. 6, n. 15440 del 17/03/2016, COGNOME, Rv. 266546): rappresentando, d’altronde, la
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percezione delle parole pronunciate da parte delle persone presenti una massima di esperienza suscettibile di essere vinta soltanto in virtù di contrarie allegazioni, che nel caso di specie non risultano.
4. Del pari inammissibile è il secondo motivo di ricorso.
Il mancato riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62-bis cod, proc. pen. costituisce un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Conformandosi a tale insegnamento, i Giudici dell’appello, nel rispondere ad analogo motivo, hanno motivato – in modo compiuto, logico e non contraddittorio – come alla concessione delle circostanze attenuanti generiche ostassero i precedenti specifici a carico dell’imputato, oltre alle numerosissime condanne per altri reati.
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 07/03/2024