Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 25939 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 25939 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Ferrara il 16/08/1981
avverso la sentenza del 19/11/2024 della Corte di appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha richiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la correzione dell’errore di calcolo contenuto in sentenza in ordine al trattamento sanzionatorio.
RITENUTO IN FATTO
1. NOME COGNOME per mezzo dei difensori, ricorre avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Bologna che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Ferrara che aveva condannato l’imputato, irrogando la pena in anni
due di reclusione, ha rideterminato la pena in un anno di reclusione in ordine ai delitti di cui agli artt. 81, 337, 341-bis e 582-585 cod. pen.
NOME COGNOME è accusato di avere, in data 22 giugno 2017, minacciato ed opposto violenza nei confronti del Maresciallo NOME COGNOME intervenuto in abiti civili per far cessare il comportamento molesto assunto dal COGNOME all’interno di un locale pubblico (capo a), contesto in cui veniva offeso l’onore ed il decoro del militare (capo b) che, a seguito di una spinta ricevuta, riportava lesioni guaribili i giorni venti (capo c).
NOME COGNOME deduce due motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge per insussistenza dei presupposti in ordine ai reati di cui agli artt. 337 e 341-bis cod. pen. per “mancata qualificazione formale del pubblico ufficiale” ex art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.
La condanna – secondo la difesa – si fonda sul presupposto che il pubblico ufficiale avesse provveduto a qualificarsi all’atto dell’intervento e che l conoscenza del pubblico ufficiale da parte dell’imputato dovesse essere presunta in ragione del ristretto numero di abitanti del centro in cui si erano svolti i fa Mentre il primo aspetto non trova conferma negli atti, che sul punto sono stati travisati (rinviando al secondo motivo), il secondo risulta una mera valutazione inidonea a costituire prova di una conoscenza del Maresciallo COGNOME da parte di NOME COGNOME ed anzi smentita dal fatto che avesse chiesto se costui fosse un parente di NOMECOGNOME così dimostrando di non conoscerlo.
Lo stesso pubblico ufficiale aveva affermato di non essersi qualificato esibendo le proprie credenziali che ne attestavano la qualifica, con conseguente insussistenza del necessario elemento soggettivo richiesto per i delitti di resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale ex artt. 337 e 341-bis cod. pen.
2.2. Con il secondo motivo si deducono vizi di motivazione anche sub specie di travisamento delle risultanze processuali in punto di svolgimento dei fatti ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
La Corte di appello ha disatteso le censure che mettevano in evidenza come non corrispondesse a verità che il Maresciallo COGNOME fosse intervento perché richiesto in ausilio dal gestore dell’esercizio pubblico, che ha negato tale circostanza ed affermato di non ricordare se il Maresciallo avesse esibito i documenti, come confermato dallo stesso pubblico ufficiale.
Risulta errata la ricostruzione delle fasi del contatto fisico tra il pubbli ufficiale e il COGNOME, avendo lo stesso militare dichiarato di aver avuto solo un contatto “preventivo” con COGNOME, prima che questi si avvicinasse con un gesto interpretato come minaccioso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, in quanto aspecifico e teso ad una rivalutazione nel merito delle risultanze, è inammissibile.
Deve preliminarmente ribadirsi, sul piano generale ed al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di appello, che la sentenza impugnata non può essere isolatamente valutata, ma deve essere esaminata in stretta correlazione con la sentenza di primo grado, quando l’iter motivazionale di entrambe si dispiega secondo l’articolazione di sequenze logicogiuridiche pienamente convergenti (ex multis, Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002, dep. 2003, COGNOME, Rv. 223061 – 01). Siffatta integrazione tra le due motivazioni si verifica non solo allorché i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, per tutte, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, NOME, Rv. 252615 – 01).
La combinata lettura delle due sentenze consente, invero, di rilevare come le censure formulate in sede di appello e reiterate in sede di ricorso fossero state adeguatamente confutate già dal primo giudice che aveva analizzato il compendio probatorio a disposizione, smentendo i rilievi posti in ordine alla mancata consapevolezza del ricorrente che NOME COGNOME fosse un maresciallo dei carabinieri, rappresentando nel dettaglio le fasi che avevano visto il militare intervenire su sollecitazione del gestore del locale in cui il ricorrente, in stato alterazione psicomotoria per l’eccessivo uso di alcolici, creava disturbo.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME si rivela, altresì, aspecifico in quanto i motivi di censura, anziché evidenziare i vizi dedotti, mira a sottoporre alla Corte di cassazione un alternativo ragionamento probatorio, ritenuto maggiormente plausibile, fondato su una diversa lettura delle emergenze processuali, notoriamente precluso in questa sede (tra le tante, Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482 – 01).
A tale critica si presta la parte del ricorso che, sottoponendo al vaglio di questa Corte frammentari passaggi dell’istruttoria dibattimentale, richiede una differente valutazione degli stessi rispetto a quella svolta dai giudici di merito; ci si verifica, in particolare, rispetto alle ragioni dell’intervento del militare, alla
in cui costui aveva declinato la propria qualifica e gli eventi che ne sono seguiti, apparendo invero anche manifestamente infondata la parte del motivo con cui si censura la ritenuta consapevolezza del COGNOME in ordine alla funzione pubblica espletata dalla persona offesa, evenienza resa invece palese dallo stesso tenore della frase offensiva proferita (“non me ne fotte un cazzo chi sei”), aspetto che non ha costituito oggetto di censura.
Nonostante la difesa deduca il travisamento delle risultanze probatorie, si pretende di dimostrare tale vizio assegnando ai dati probatori un significato che si assume non essere stato correttamente percepito, affermazione rimasta priva di idonea allegazione.
5. A ciò deve aggiungersi come il ricorso si riveli generico nella parte in cui non confuta il preciso passo della motivazione in cui si rileva come il teste COGNOME su specifica contestazione del Pubblico Ministero, avesse dichiarato, contrariamente a quanto dedotto, che aveva richiesto l’intervento del militare per aiutarlo a tranquillizzare l’imputato in evidente stato di ebbrezza alcolica e che il maresciallo COGNOME ebbe a qualificarsi come tale.
Il Collegio non ritiene di rettificare, come richiesto dal Procuratore generale nelle sue conclusioni, il calcolo in ordine alla pena irrogata ex art. 619, comma 2, cod. proc. pen., non essendo ravvisabile un profilo di illegalità della pena e n n
essendo inequivocamente evidente, in assenza di specifica impugnazione sul punto, che la pena sia frutto di determinazione erronea e non piuttosto di errata
rappresentazione del percorso intermedio di calcolo, in particolare con riguardo all’entità della pena imputata a ciascun reato unificato ex art. 81 cod. pen.
6. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non potendosi escludere profili di colpa, della
somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall’art. 616, comma 1, cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 28/05/2025.