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Oltraggio a pubblico ufficiale: quando è reato?

Un dipendente della Polizia Municipale è stato condannato per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale nei confronti di un superiore. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il suo ricorso, chiarendo un punto fondamentale: per configurare il reato, l’offesa deve avvenire in presenza di almeno due persone. La Corte ha specificato che anche altri pubblici ufficiali presenti possono essere considerati come ‘pubblico’ ai fini della norma, a meno che non si dimostri che la loro presenza fosse strettamente legata all’atto d’ufficio che ha generato la condotta oltraggiosa.

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Pubblicato il 13 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Oltraggio a pubblico ufficiale: la presenza di colleghi integra il reato?

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale è una fattispecie complessa che richiede requisiti precisi per la sua configurazione. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 15207/2024) è intervenuta per chiarire un aspetto cruciale: la validità della testimonianza di altri pubblici ufficiali, presenti al momento del fatto, ai fini dell’integrazione del reato. La decisione offre spunti fondamentali per comprendere i confini tra un’accesa discussione e un illecito penale, specialmente in ambienti di lavoro gerarchicamente strutturati come le forze dell’ordine.

I Fatti del Caso: un Diverbio in Ufficio

Il caso ha origine da un episodio avvenuto all’interno di un comando di Polizia Municipale. Un agente, dopo essere stato ripreso da un suo superiore gerarchico per ripetute assenze dal suo ufficio che avevano causato un disservizio, reagiva in modo offensivo. La condotta veniva tenuta alla presenza di altri colleghi appartenenti allo stesso Corpo di Polizia Municipale. A seguito di ciò, l’agente veniva condannato in primo e secondo grado per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale previsto dall’art. 341-bis del codice penale.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

L’agente proponeva ricorso per Cassazione basandosi su diverse argomentazioni, tutte respinte dalla Corte:

1. Reazione a un atto arbitrario: Sosteneva che la sua reazione fosse giustificata da un presunto atto arbitrario del superiore, invocando la causa di non punibilità dell’art. 393-bis c.p. La Corte ha ritenuto questa tesi infondata, poiché il superiore aveva pieno potere di richiamare il sottoposto al rispetto dei suoi doveri.
2. Provocazione: In subordine, chiedeva il riconoscimento dell’attenuante della provocazione, ma non è stato ritenuto provato uno ‘stato d’ira’ causato da un ‘fatto ingiusto altrui’.
3. La questione della pluralità di persone: Il motivo più rilevante, e sul quale si concentra l’analisi della Corte, riguardava l’assenza, a suo dire, del requisito della ‘presenza di più persone’. Secondo la difesa, i colleghi presenti, in quanto pubblici ufficiali, non potevano essere considerati come il ‘pubblico’ richiesto dalla norma per la configurazione del reato.

L’Analisi della Cassazione sull’Oltraggio a Pubblico Ufficiale

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. La parte centrale della motivazione riguarda proprio l’interpretazione del requisito della presenza di ‘più persone’.

Le Motivazioni della Decisione

Richiamando un suo precedente orientamento (sentenza n. 6604/2022), la Corte ha ribadito un principio di diritto fondamentale. Per integrare il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, l’offesa deve avvenire alla presenza di almeno due persone. Queste persone devono essere estranee all’azione e non direttamente coinvolte. Tuttavia, ciò non esclude a priori altri pubblici ufficiali. La Corte ha specificato che il requisito della pluralità è soddisfatto quando sono presenti:

* Persone estranee alla pubblica amministrazione (i cosiddetti ‘civili’).
* Altri pubblici ufficiali che, pur essendo presenti, non si trovino lì per lo stesso motivo d’ufficio in relazione al quale è stata posta in essere la condotta oltraggiosa.

Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato a sostenere genericamente che i presenti fossero colleghi, senza però specificare perché si trovassero lì e, soprattutto, senza dimostrare che la loro presenza fosse funzionale a supportare l’azione del Vice Comandante che stava compiendo il richiamo. In assenza di tale prova, la loro presenza è stata considerata alla stregua di quella di qualsiasi altro cittadino, rendendo così pienamente configurato il reato.

Le Conclusioni

L’ordinanza della Cassazione consolida un principio importante: non è sufficiente che i testimoni di un’offesa a un pubblico ufficiale siano a loro volta dei colleghi per escludere il reato di oltraggio. L’imputato che voglia far valere questa tesi ha l’onere di dimostrare che gli altri ufficiali presenti erano lì per ragioni di servizio direttamente collegate all’atto contestato. In mancanza di questa prova, la loro qualifica non li ‘neutralizza’ come testimoni e la loro presenza è idonea a integrare il requisito della pubblicità dell’offesa richiesto dalla norma. La decisione, pertanto, riafferma la tutela dell’onore e del prestigio della funzione pubblica, anche all’interno degli stessi uffici.

Perché la reazione dell’agente non è stata considerata giustificata come reazione a un atto arbitrario?
La Corte ha stabilito che l’atto del superiore non era arbitrario. Riprendere un dipendente per le sue assenze, che stavano causando un disservizio, rientrava pienamente nei poteri e doveri del superiore gerarchico. Pertanto, la causa di non punibilità non era applicabile.

Quando la presenza di altri pubblici ufficiali integra il reato di oltraggio?
La presenza di altri pubblici ufficiali integra il reato quando questi non sono presenti per lo stesso motivo d’ufficio che ha originato la condotta oltraggiosa. Se sono semplici spettatori, anche se colleghi, la loro presenza soddisfa il requisito della pluralità di persone richiesto dalla legge.

Cosa significa che un motivo di ricorso è ‘riproduttivo’ e manifestamente infondato?
Significa che il ricorrente si è limitato a riproporre alla Corte di Cassazione le stesse argomentazioni già presentate e correttamente respinte dalla Corte d’Appello, senza sollevare nuove questioni di legittimità o vizi logici nella motivazione della sentenza impugnata. Questo porta a una dichiarazione di inammissibilità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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