Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9398 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9398 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME, nata a Avezzano DATA_NASCITA, contro la sentenza della Corte d’appello de L’Aquila del 16.6.2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Generale NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza dell’1.6.2022 il Tribunale di Pescara aveva riconosciuto NOME COGNOME e NOME COGNOME responsabili del delitto loro in concorso ascritto e li aveva condannati alla pena di anni 1 di reclusione ed euro 200 di multa, ciascuno, oltre al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali;
la Corte d’appello de L’Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dagli imputati, ha assolto il COGNOME e, riconosciute alla COGNOME le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato la pena per costei in mesi 8 di reclusione ed euro 80 di multa;
ricorre per cassazione NOME COGNOME tramite il difensore che deduce:
3.1 violazione di legge in relazione agli artt. 633 e 639-bis cod. pen.: richiamate le circostanze di fatto emerse nel corso del dibattimento rileva che la ricorrente aveva fatto ingresso nell’immobile il giorno 17.4.2020 al solo fine di impedire cha altri se ne impossessasse in quanto al suo interno vi erano ancora le sue suppellettili, non sussistendo perciò né l’elemento oggettivo della occupazione per un periodo significativo né, tantomeno, l’elemento psicologico della volontà di trarre profitto dalla occupazione;
3.2 violazione di legge in relazione agli artt. 125, 530, 533 e 546 cod. proc. pen. anche per il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. o del beneficio della sospensione condizionale della pena: rileva ancora l’assoluto difetto di motivazione su tali punti come anche, sul pure sollecitato beneficio della sospensione condizionale della pena e sulla entità della stessa;
la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell’art. 23, comma 8, del DL 137 del 2020 concludendo per l’inammissibilità del ricorso che ripropone le medesime doglianze già articolate con l’atto di appello cui la sentenza impugnata ha risposto con motivazione adeguata in fatto e corretta in diritto;
la difesa ha tramesso le proprie conclusioni scritte riportandosi ai motivi articolati con il ricorso ed insistendo nel suo accoglimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate o non consentite in questa sede.
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Va rilevato, in primo luogo, che, nel caso di specie, si è in presenza di una “doppia conforme” di merito, ovvero di decisioni che, nei due gradi, ed in punto di responsabilità, sono pervenute a conclusioni analoghe sulla scorta di una conforme valutazione RAGIONE_SOCIALE medesime emergenze istruttorie, cosicché è certamente possibile richiamare e fare applicazione del principio per cui la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia quando operi attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia quando, per l’appunto, adotti gli stessi criteri utilizzati nella valutazione RAGIONE_SOCIALE prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette in maniera congiunta e complessiva ben potendo integrarsi reciprocamente dando luogo ad un unico complessivo corpo decisionale (cfr., Sez. 2 – , n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, NOME, 252615; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
Ed è proprio la ricostruzione del fatto operata nella sentenza di primo grado che rende manifesta la infondatezza del primo motivo del ricorso con cui la difesa denunzia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto in esame.
A tal proposito, è utile ribadire che la condotta tipica del reato di invasione di terreni o edifici consiste nell’introdursi dall’esterno in un fondo o in un immobile altrui di cui non si abbia il possesso o la detenzione: si è chiarito, infatti, che la nozione di “invasione” non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce “arbitrariamente”, ossia “contra ius” in quanto privo del diritto d’accesso, cosicché la conseguente “occupazione” costituisce l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione; (cfr., per tutte,
Sez. 2 – , n. 29657 del 27/03/2019, COGNOME, Rv. 277019 01; Sez. 2, n. 53005 del 11/11/2016, COGNOME, Rv. 268711 01; Sez. 2, n. 30130 del 09/04/2009, COGNOME, Rv. 244787 01; Sez. 2, n. 49169 del 27/11/2003, COGNOME, Rv. 227692 – 01).
Ebbene, il Tribunale aveva richiamato la deposizione della teste NOME COGNOME, dipendente dell’RAGIONE_SOCIALE, la quale aveva chiarito in aula che “… il 26.11.2019, in séguito allo sfratto eseguito nei confronti di COGNOME NOME, l’Ente proprietario era tornato in possesso dell’immobile, che veniva murato: in séguito ad un nuovo danneggiamento della muratura … l’alloggio era stato murato nuovamente quindi, ad aprile 2020, i Carabinieri avevano segnalato che erano rientrati senza averne titolo; la teste ha infatti spiegato che i due prevenuti non erano assegnatari dell’alloggio, né provvedevano a pagare l’indennità di
occupazione che viene richiesta agli occupanti abusivi” (cfr., pag. 2 della sentenza di primo grado).
È vero, allora, che l’appartamento era stato originariamente assegnato a NOME COGNOME, marito della COGNOME; è vero pure che, come accertato dai giudici di merito, era stata dichiarata la decadenza dell’assegnatario con provvedimento del 17.3.2006 e che, soprattutto, l’Ente era rientrato nella disponibilità dell’immobile che aveva “murato”.
Non è perciò possibile invocare la giurisprudenza che, sul presupposto della assenza di una condotta di “invasione”, ha chiarito che non integra il delitto di invasione di terreni o edifici la condotta di chi abbia continuato ad abitare in un appartamento dello IACP, dopo la morte della vedova assegnataria, che lo aveva ospitato, continuando a versare il canone locativo, non rilevando la insussistenza RAGIONE_SOCIALE condizioni richieste per l’assegnazione dell’alloggio, circostanza che può valere a fini amministrativi o civilistici, ma che non rileva sotto il profilo penalistic sia per l’assenza del dolo specifico che per la mancanza dell’elemento materiale rappresentato dalla necessaria arbitraria invasione dell’immobile (cfr. Sez. 2, n. 43393 del 17.10.2003, COGNOME; Sez. 2, n. 15874 del 30.1.2019, COGNOME; Sez. 2, n. 51754 del 3.12.2013, COGNOME; conf., più recentemente, Sez. 6 – , n. 25382 del 17/05/2023, COGNOME, Rv. 284886 – 01, in cui la Corte ha ribadito che la condotta tipica del reato di invasione di terreni o edifici consiste nell’introduzione dall’esterno in un fondo o in un immobile altrui di cui non si abbia il possesso o la detenzione, sicché l’invasione non ricorre laddove il soggetto, entrato legittimamente nella disponibilità del bene, prosegua nell’occupazione contro la sopraggiunta volontà dell’avente diritto).
Nel caso di specie, l’iniziativa della COGNOME, che si era giustificata sostenendo che all’interno vi erano ancora i mobili di sua proprietà che intendeva (con la apposizione di una porta blindata) proteggere da terzi, in quanto intervenuta dopo che l’RAGIONE_SOCIALE era rientrato in possesso dell’immobile che aveva anzi provveduto a “murare”, si era perciò risolta in una abusiva “riappropriazione” realizzata con condotta perfettamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 633 cod. pen..
2. Il secondo motivo è in parte precluso ed in parte manifestamente infondato.
È precluso nella parte in cui la difesa lamenta il difetto di motivazione circa la invocata causa di giustificazione dello stato di necessità che, tuttavia, non aveva formato oggetto di censura in appello e su cui, pertanto, la Corte non era tenuta a motivare (cfr., Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316 – 01, in cui
la Corte ha spiegato che non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura “a priori” un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello; conf., Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745 – 01).
Preclusa è, anche, la doglianza relativa alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena che non era stato chiesto nell’atto di appello ma che, dall’esame del verbale, non risulta nemmeno essere stato sollecitato in sede di discussione (cfr., sulpunto, Sez. U – , n. 22533 del 25/10/2018 -dep. 22/05/2019 -, Salerno, Rv. 275376 01, secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, fermo l’obbligo del giudice d’appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza RAGIONE_SOCIALE condizioni che ne consentono il riconoscimento, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito).
È invece manifestamente infondato il rilievo concernente il diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. su cui la Corte d’appello lyz, c, motivato argomentando sul fatto che l’imputata aveva mantenuto la disponibilità dell’immobile dopo ed in spregio dell’adottato provvedimento di revoca dell’assegnazione.
Ed è appena il caso di ricordare che questa Corte ha più volte sostenuto che, nei reati permanenti (quale indubbiamente è quello che ci occupa), è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, in ragione per l’appunto della perdurante compressione del bene giuridico quale effetto della persistente condotta delittuosa (cfr., Sez. 3, Sentenza n. 30383 del 30/03/2016, COGNOME ed altro, Rv. 267589 – 01).
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della RAGIONE_SOCIALE, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE.
Così deciso in Roma, il 14.2.2024