Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 14723 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 14723 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/03/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOME, nata a Reggio Calabria il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/5/2023 della Corte di appello di Reggio Calabria; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto dichiarare inammissibili i ricorsi;
udite le conclusioni del difensore dei ricorrenti, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16/5/2023, la Corte di appello di Reggio Calabria, in riforma della pronuncia emessa il 19/11/2020 dal locale Tribunale, dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME in ordine al reato ascrittogli,
perché estinto per morte dell’imputato, e confermava la condanna di NOME COGNOME ed NOME COGNOME con riguardo al capo A) della rubrica.
Propongono congiunto ricorso per cassazione i due imputati, deducendo i seguenti motivi:
violazione degli artt. 55-1161 Cod. Nav. La Corte di appello non avrebbe esaminato il primo motivo di gravame, con il quale si sarebbe contestata l’avvenuta realizzazione degli abusi edilizi ad opera dei ricorrenti; tale responsabilità, peraltro, risulterebbe esclusa da entrambe le sentenze di merito, e ciò avrebbe imposto una espressa pronuncia di assoluzione per non aver commesso il fatto;
con riguardo allo stesso capo, si contesta il giudizio di colpevolezza formulato sull’asserita conoscenza – in capo agli imputati – del carattere abusivo dell’occupazione. La Corte di merito, infatti, non avrebbe considerato che i COGNOME avrebbero acquistato il bene con rituale atto notarile, nel quale si darebbe conto della piena ed esclusiva proprietà e disponibilità, presso l’alienante, di quanto trasferito; gli acquirenti, pertanto, si sarebbero fidati del controllo eseguito dal notaio, senza che gravasse su di loro alcun obbligo di accertamento. La sentenza, peraltro, non considererebbe che i ricorrenti sarebbero venuti a conoscenza dell’ingiunzione a demolire solo in epoca successiva all’inizio dell’occupazione, così da non potersi riconoscere la fattispecie di reato sotto il profilo soggettivo, attesa l’evidente buona fede;
la violazione di legge, infine, è dedotta quanto alla prescrizione del reato, che la sentenza non avrebbe dichiarato, sebbene maturata. Quanto alla fattispecie di cui agli artt. 55-1161 Cod. Nav., la permanenza cesserebbe infatti al termine dell’esecuzione delle opere, risalenti al 1979, con termine di prescrizione, dunque, maturato al più alla fine del 1984. In ordine, poi, al reato di cui agli artt. 54-1161 Cod. Nav., la sentenza erroneamente negherebbe efficacia interruttiva della permanenza al decreto penale di condanna emesso nei confronti degli imputati, sol perché revocato; questa conclusione, tuttavia, contrasterebbe con la costante giurisprudenza di questa Corte. Sul punto, peraltro, i ricorrenti evidenziano che la contestazione integrativa della permanenza sarebbe stata effettuata dal Pubblico Ministero all’udienza del 16/5/2019, quando la prescrizione del reato in origine contestato era ormai maturata. Il protrarsi della condotta illecita, in ogni caso, avrebbe dovuto costituire oggetto di accertamento, quel che, tuttavia, sarebbe avvenuto solo fino al settembre 2012.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi risultano manifestamente infondati.
Con riguardo alla prima censura, con la quale si contesta che l’istruttoria non avrebbe provato l’abusiva realizzazione delle opere da parte degli imputati, di cui all’art. 55 Cod. Nav. (Nuove opere in prossimità del demanio marittimo), senza tuttavia assolverli, il Collegio rileva che il contenuto di entrambe le sentenze delimita l’accertamento della responsabilità alla sola condotta di occupazione arbitraria di area demaniale marittima, di cui agli artt. 54-1161, come peraltro riportato espressamente nel capo A). L’esecuzione delle opere, dunque, non ha costituito oggetto di contestazione o di condanna, come peraltro evidenziato dall’assenza di aumenti di pena a titolo di continuazione.
I ricorsi, di seguito, risultano del tutto infondati anche sulla seconda censura, in punto di responsabilità e, particolarmente, di profilo soggettivo, sul presupposto che agli imputati dovrebbe essere riconosciuta la buona fede.
5.1. Come appena richiamato, infatti, i ricorrenti sono stati condannati per aver abusivamente occupato un’area demaniale; a questa conclusione i Giudici del merito sono giunti evidenziando che gli stessi imputati, se pur avevano acquistato in buona fede, ignorando la natura demaniale di una porzione del terreno, avevano tuttavia poi avuto consapevolezza dell’occupazione illecita, quantomeno a seguito di una ingiunzione a demolire e sgomberare emessa dal Comune di Melito di Porto Salvo nel 2009. Quantomeno a partire da quel momento, quindi, i COGNOME avevano protratto l’occupazione abusiva dell’area, con coscienza e volontà del proprio comportamento illecito; a nulla rilevando, dunque, che tale consapevolezza fosse sopraggiunta all’inizio dell’occupazione, come affermato nei ricorsi, in quanto per costante indirizzo – la fattispecie incriminatrice di cui agli artt. 54 e 1161 cod. nav., che sanziona la condotta di occupazione senza titolo di un’area demaniale marittima, impedendone o limitandone la fruibilità, si applica anche a chi abbia protratto l’abusiva occupazione da altri precedentemente iniziata (per tutte, Sez. 3, n. 25984 del 2/7/2020, COGNOME, Rv. 279901).
Risulta manifestamente infondato, infine, anche l’ultimo motivo di ricorso, in tema di prescrizione del reato.
La Corte di appello, pronunciandosi sulla stessa eccezione, ha correttamente affermato che non vi era prova di un atto interruttivo della permanenza, che – ancora per giurisprudenza costante – si riscontra nel conseguimento dell’autorizzazione prescritta o nella demolizione del manufatto abusivo. Questa Corte, infatti, ha più volte affermato che la permanenza del reato di arbitraria occupazione di spazio demaniale (artt. 54 e 1161 Cod. nav.) si protrae sino a che la stessa perdura, sicché il termine di prescrizione non decorre dalla data dell’accertamento, ma dalla data di rilascio della concessione o da quella dello sgombero, individuandosi in tale momento la cessazione dell’illegittimo uso e godimento di fatto del bene demaniale (tra le molte, Sez. 3, n. 6732 del 9/1/2019,
COGNOME, Rv. 275837; Sez. 3, n. 16859 del 16/3/2010, COGNOME, Rv. 247160; Sez. 3, n. 15657 del 27/02/2008, COGNOME, Rv. 240154). La conclusione, del resto, era stata affermata dalla decisione delle Sezioni Unite n. 17178 del 27/2/2002, COGNOME, che aveva rimarcato la distinzione tra le condotte illecite poste in essere in violazione dell’art. 54 cod. nav. e quelle commesse in violazione del successivo art. 55. Nella motivazione di detta sentenza si legge che «il legislatore ha chiaramente distinto, anzitutto sul piano terminologico, tra l’abusiva “occupazione” (anche mediante esecuzione di innovazioni non autorizzate) del demanio marittimo (articolo 54), e la “esecuzione” non autorizzata di opere nella zona di rispetto dello stesso demanio (articolo 55). La distinzione, resa maggiormente evidente dal fatto che i due diversi comportamenti sono previsti da norme distinte, è dovuta anche all’ovvia ragione che nell’ipotesi di occupazione del demanio marittimo il soggetto attivo invade in maniera permanente un bene di proprietà dello Stato; mentre nell’ipotesi di costruzione nella zona di rispetto, il bene utilizzato per l’esecuzione dell’opera è normalmente di proprietà dello stesso privato che l’ha effettuata, e quindi non si verifica alcun tipo di invasione di un immobile altrui. Ciò posto, sembra opportuno evidenziare che il termine “occupazione”, nella nostra lingua, designa una “presa di possesso stabile o temporanea” di un bene, mentre il termine “esecuzione” indica “l’attuazione sul piano pratico o materiale” di un’opera. Dunque, è agevole rilevare che – secondo l’interpretazione più coerente al “significato proprio della parole secondo la connessione di esse, e all’intenzione del legislatore” (articolo 12 delle preleggi) la “occupazione” di un bene demaniale costituisce un reato permanente, dal momento che la condotta illecita si compie con il fatto della presa di possesso del bene e si protrae per tutto il tempo in cui questa persiste; e che, invece, nel caso di “esecuzione” di un’opera, l’azione vietata si perfeziona ed esaurisce con la materiale attuazione dell’opera stessa, la quale va dall’inizio alla ultimazione dei lavori, con la conseguente configurabilità di una permanenza circoscritta nell’ambito di questi due momenti» (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, COGNOME, Rv. 221398, in motivazione). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
7.1. Alla luce di queste considerazioni, risulta dunque manifestamente infondata anche l’affermazione secondo cui il pubblico ministero avrebbe modificato il capo di imputazione, all’udienza del 16/5/2019, quando il reato risultava già estinto per prescrizione; a fronte di una contestazione che fissava il tempus commissi delícti alla data dell’accertamento del reato (17/6/2009), l’integrazione si era infatti risolta nell’aggiunta del periodo “con condotta tuttora permanente”, senza che ciò modificasse in alcun modo l’individuazione del dies a quo della prescrizione stessa, comunque legato – come già richiamato – solo al rilascio di un provvedimento autorizzativo o alla cessazione dell’occupazione.
Non può essere accolta, infine, neppure la censura con la quale si afferma che la perduranza dell’occupazione sarebbe stata accertata soltanto fino al settembre 2012; a fronte di una condotta illecita alla quale i ricorrenti non avevano dato esito, come riscontrato a quella data, avrebbe infatti costituito onere di questi provare una circostanza di segno contrario, ossia di aver ottenuto un valido titolo oppure di aver cessato l’occupazione stessa entro la pronuncia del giudizio di appello. Di ciò, tuttavia, le impugnazioni non hanno dato conto.
I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Depositata in Cancelleria