Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 12401 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 12401 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto dal NOME nato a Napoli il 12/04/1979; nel procedimento a carico del medesimo; avverso la sentenza del 13/05/2024 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sost. Procuratore Generale dr.ssa NOME COGNOME che ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni del difensore dell’imputato, avv.to COGNOME a NOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Con sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Napoli riformava parzialmente la sentenza del tribunale di Napoli con la quale NOME era stato condannato in ordine ai reati di cui agli artt. 5 e 10 del Dlgs. 74/2000, riducendo la pena finale e revocando l’interdizione dai pubblici uffici, confermando nel resto la sentenza.
Avverso la predetta sentenza COGNOME il proprio difensore ha proposto ricorso per cassazione.
3.Deduce con un unico motivo vizi di violazione di legge e di motivazione. Vi sarebbe contraddittorietà nella parte in cui dapprima i giudici di appello hanno sostenuto la inammissibilità dei motivi di gravame, per poi invece superare le questioni proposte dalla difesa quanto alla natura delle fatture rinvenute e alla loro rilevanza ai fini in questione, sostenendo la irrilevanza della natura delle stesse come di vendita da parte di soggetti polacchi e a favore del ricorrente piuttosto che di acquisto dei primi, come ritenuto dal primo giudice e contestato in appello.
Si contesta poi la sentenza impugnata nella parte in cui si ritiene acquisita la esistenza di scritture contabili obbligatorie sulla sola scorta della emissione di fatture di vendita da parte di soggetto diverso dal ricorrente, acquirente. Si aggiunge che ai predetti fini si farebbe erroneamente riferimento ad un mero riepilogo contabile che si sostiene acquisito tramite l’autorità polacca, con riferimento a presunti acquisti che sarebbero stati effettuati, presso la società polacca venuta in rilievo nella vicenda in esame, tra il maggio e il luglio del 2015. E si osserva che già in appello si era evidenziato l’assenza di qualsivoglia fattura oltre che di elementi attestativi della autenticità della provenienza dei dati documentali citati in sentenza, in relazione alle informazioni assunte dall’estero. Sul punto, la corte di appello avrebbe cercato di superare l’errore del primo giudice sulla sussistenza di fatture, sostenendo il rilievo probatorio di un mero allegato e ritenendo che lo stesso corrispondesse al prospetto delle fatture che sarebbero state emesse dalla società polacca nei confronti dell’imputato. Sarebbe altresì apodittico l’assunto della corte per cui, in processi del genere, normalmente non si acquisiscono le fatture di riferimento.
Si aggiunge che non vi sarebbe traccia di una dichiarazione della società polacca sulla avvenuta effettuazione di cessioni intracomunitarie in favore della società di interesse per l’imputato, RAGIONE_SOCIALE, come anche di una corrispondente nota della Autorità Polacca riguardo a tale dichiarazione e pure citata in sentenza. In altri termini, l’impianto accusatorio si baserebbe su un anonimo prospetto che non proverebbe, diversamente da quanto sostenuto dai giudici, che con esso la società polacca avesse attestato documentalmente l’avvenuta emissione di fatture in favore del ricorrente. Sarebbe poi illogica la affermazione di cui alla sentenza, in cui si evidenzia la colpa della difesa che, nell’avere scelto il rito abbreviato, avrebbe accettato la carenza di eventuali accertamenti.
Si sostiene poi, che la possibilità di rilevare la manifesta illogicità motivazione può trovare fondamento nel non avere il giudice spiegato il mancato utilizzo dei poteri circa la necessità di disporre ulteriori accertamenti ai fini del decisione, limitandosi alla affermazione, presente in sentenza, per cui in processi di tal genere le fatture non verrebbero mai acquisite. Vizi di illogicità contraddittorietà si rinverrebbero anche nel passaggio in cui, pur dandosi atto del
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fatto che nell’allegato 6 non si rinverrebbe alcuna fattura ma solo un prospetto numerico, si ritiene provato il reato ascritto al ricorrente anche in assenza della certezza del rapporto commerciale tra le parti interessate.
4. Il ricorso è inammissibile. In sentenza si esaminano non solo i risultati istruttori ma anche le doglianze difensive, corrispondenti a quelle in questa sede ribadite e validamente confutate dalla Corte di appello. Quanto alla ritenuta contraddittorietà, va osservato che la corte ha sviluppato una doppia motivazione sul medesimo punto, perfettamente lecita, perché fornisce una risposta ancor maggiore di quella rinveniente da una dichiarazione di inammissibilità di una censura di gravame. Infatti, oltre a ricondurre l’inammissibilità del gravame al dato – rimasto incontestato – per cui l’imputato con la doglianza di appello non si sarebbe confrontato con le argomentazioni del primo giudice, la corte ha anche illustrato le ragioni della infondatezza della censura: consistenti nel dato, più che logico e quindi perfettamente ragionevole, per cui il rinvenimento di fatture, siano esse di vendita piuttosto che di acquisto o viceversa, integra il presupposto della appurata esistenza, presso l’imputato, della documentazione contabile ( le fatture) assunta come occultata ex art. 10 della L. 74/2000, sul rilievo per cui si tratta comunque di documentazione ordinariamente prodotta in duplice copia. In altri termini, il carattere “doppio” di una fattura, sia essa di vendita o di acquisto, fa che il suo rinvenimento presso uno dei due soggetti del rapporto commerciale sottostante, faccia ragionevolmente ritenere che la corrispondente copia sia stata consegnata all’altra parte così che il mancato rinvenimento presso quest’ultima può far ritenere occultato il relativo documento.
Anche il tema della prova dell’avvenuto rilascio, al ricorrente, di fatture ( in particolare di acquisto, rilasciate da una società polacca al medesimo) è tutt’altro che risolto mediante un travisamento della stessa. I giudici hanno chiaramente rappresentato che non sono state rinvenute le fatture che si assumono occultate, e tuttavia è stata raggiunta la prova della loro consegna al ricorrente sulla base di documentazione trasmessa dalla Autorità Polacca (specificamente citata in sentenza nella parte intitolata “motivi di appello”), per cui emerge una informativa della Agenzia delle Entrate che, a seguito di richiesta di scambio antifrode di informazioni e documentazione di rapporti commerciali intercorsi tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE Z Ograniczona, ha acquisito dalla Autorità Polacca notizia per cui quest’ultima società ha dichiarato di avere effettuato cessioni intracomunitarie in favore della RAGIONE_SOCIALE, di pertinenza del ricorrente, a tal fine anche esibendo un riepilogo delle fatture emesse tra il maggio e il luglio 2015 con importi e date delle operazioni commerciali avvenute. In sentenza si aggiunge la disponibilità di corrispondenti allegati, di cui uno, n. 5, estrapolato dalle banche dati VIES ed un altro recante il n. 6, descrittivi anche essi
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delle operazioni di acquisto di cui alle fatture in questione e dell’ammontare complessivo. Non è dato quindi rinvenire alcun travisamento, che per vero avrebbe richiesto l’adempimento, rimasto invece inevaso, dell’onere di allegazione degli atti di cui si contesta la lettura fornita dai giudici. Come noto infatti, il vizi travisamento della prova, fondato su dati dichiarativi, impone l’allegazione integrale dell’atto (cfr. Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011 (dep. 14/03/2012) Rv. 252349 S). Né, in assenza di tale allegazione, è validamente sostenibile alcuna incertezza circa la genuinità di quanto comunicato a seguito del citato scambio informativo intervenuto nel quadro di operazioni di cooperazione internazionale (cfr. al riguardo la nota in sentenza descrittiva del cd. sistema europeo VIES con cui le Amministrazioni finanziarie Europee scambiano informazioni sulle transazioni intracomunitarie tra operatori commerciali muniti di un dato numero identificativo IVA) di cui non si contesta specificamente la correttezza. Il contesto indiziario, peraltro, è corroborato, senza che il ricorrente si confronti adeguatamente, anche dalla valorizzazione di altri elementi: quali la circostanza per cui il commercialista dell’imputato non ha avuto rapporti dopo il 2012 con costui, laddove le fatture in questione risalgono al 2015 e non vi sarebbe interesse, per tale commercialista, di non fornire la predetta documentazione ove la avesse ricevuta e conservata presso di sé, nonché la mancata illustrazione, da parte del ricorrente, invitato in sede amministrativa a depositare le scritture contabili obbligatorie, delle ragioni della omissione di tale deposito.
In tale quadro non è affatto illogico il rilievo per cui in processi relativi a re quali quelli in esame la prova della tenuta della contabilità e del suo occultamento non avvenga, di norma, attraverso l’integrale rinvenimento della stessa bensì in altri modi, senza che ciò infici il giudizio di responsabilità, posta l’atipicità d prova. In ogni caso, si tratta di affermazione che non inficia il distinto quadro indiziario, granitico e ragionevole, sopra sintetizzato.
Infine, è generica la doglianza circa il mancato esercizio di poteri integrativi ex art. 441 cod. proc. pen., in assenza di una richiesta in tal senso nonché alla luce del principio per cui, nel giudizio abbreviato d’appello le parti sono titolari una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice “ex officio” nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell’art. 60 comma 3, cod. proc. pen., atteso che in sede di appello non può riconoscersi alle parti la titolarità di un diritto alla raccolta della prova in termini diversi e più rispetto a quelli che incidono su tale facoltà nel giudizio di primo grado. (Sez. 2 – n. 5629 del 30/11/2021 (dep. 17/02/2022 ) Rv. 282585 – 01). Da ciò discende l’assenza di un dovere del giudice di spiegare le ragioni per cui non avrebbe esercitato, di ufficio, poteri istruttori integrativi.
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5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammenda Così deciso in Roma, il 12.12.2024.