Sentenza di Cassazione Penale Sez. U Num. 16896 Anno 2019
Penale Sent. Sez. U Num. 16896 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 31/01/2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Bologna il 01/12/1962 avverso la ordinanza del 09/01/2018 del Tribunale di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal componente NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore generale aggiunto NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 12 gennaio 2018 ha rigettato l’istanza di riesame, proposta nell’interesse di NOME COGNOME avverso il decreto emesso il 20 novembre 2017 con il quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale ha disposto il sequestro preventivo, ai fini della confisca diretta, del 50% di un immobile ubicato in Bologna e, ai fini della confisca di valore, di somme di denaro depositate su conti correnti, di beni immobili e quote societarie fino alla concorrenza dell’importo di oltre 391.000 euro, il tutto riconducibile allo COGNOME, indagato del reato di cui all’art. 76, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011 (condotta già prevista come reato dall’art. 31, legge n. 646 del 1982), per inottemperanza all’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, gravante su soggetto destinatario di un provvedimento di prevenzione definitivo, come previsto dal successivo articolo 80 del medesimo d.lgs. n. 159 (già art. 30, legge n. 646 del 1982).
2. I fatti oggetto di provvisoria incolpazione sarebbero avvenuti in dieci occasioni, collocate entro un arco temporale compreso tra il 2012 e il 2017 (in particolare, il 21 ottobre 2012; 25 giugno 2012; 31 gennaio 2012; 31 gennaio 2013; 31 gennaio 2014; 31 gennaio 2015; 31 gennaio 2016; 9 luglio 2016; 31 gennaio 2017) e correlate ad operazioni economiche poste in essere dallo COGNOME e soggette, secondo l’ipotesi accusatoria, all’obbligo di comunicazione, stante l’applicazione nei suoi confronti della misura di prevenzione personale con qualificazione di pericolosità semplice (ai sensi dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, con riferimento alla categoria dei soggetti dediti a traffici delittuosi), divenuta definitiva il 4 luglio 2008 a seguito di sentenza n. 31931/2008, emessa dalla Prima Sezione penale di questa Corte ed avendo egli provveduto a dare tardivamente comunicazione, il 27 febbraio 2017, di una soltanto di tali operazioni, effettuata il 9 giugno 2016.
3. Nell’ordinanza impugnata i giudici del riesame evidenziano, in primo luogo, che «sebbene l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 30 legge n. 646 del 1982 fosse vigente soltanto per prevenuti indiziati di appartenere a organizzazioni mafiose quando il decreto di assoggettamento dello COGNOME alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale è divenuto definitivo, nondimeno egli ha commesso il delitto di cui si discute, poiché quando hanno avuto luogo le transazioni ‘incriminate’, pure lui era assoggettato a tale obbligo», così aderendo a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento ad analoga questione (Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, COGNOME, Rv. 264137),
specificando che l’introduzione, ad opera della legge n. 136 del 2010, di ulteriori reati da cui deriva l’obbligo, determina la vigenza del medesimo (e della conseguente responsabilità in caso di violazione) anche in ipotesi di condanna divenuta definitiva prima della modifica legislativa, a condizione, però, che i beni siano entrati nel patrimonio del soggetto in data successiva.
Il Tribunale, applicando il principio al caso sottoposto al suo esame, collega temporalmente l’introduzione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali alla vigenza della legge n. 136 del 13 agosto 2010 (posteriore alla definitività della misura di prevenzione), con la quale venne innovato il testo dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982, ripristinando l’applicabilità della «clausola estensiva generale» di cui all’art. 19 della legge n. 152 del 22 maggio 1975, volta ad assoggettare a tale obbligo tutti i destinatari di misure di prevenzione personali. Conseguentemente, osservano i giudici del riesame, a far data dal 2010 tali disposizioni erano produttive di effetti anche nei confronti dell’indagato.
In secondo luogo, l’ordinanza del Tribunale esclude la dedotta carenza dell’elemento soggettivo del dolo, ovvero la sussistenza di una condizione di ignoranza inevitabile della legge penale così come individuata dall’art. 5 cod. pen. a seguito della sentenza 364/1988 della Corte costituzionale e ciò in quanto viene ravvisata, al momento della conclusione delle transazioni incriminate, la violazione di un obbligo di doverosa informazione circa le conseguenze dei suoi trascorsi giudiziari, considerando, altresì, che per la configurabilità del reato contestato è richiesto il dolo generico, rispetto al quale risulta ininfluente la tardiva, parziale comunicazione giustificata dal fatto di essere venuto a conoscenza, attraverso la stampa, di analogo provvedimento di sequestro emesso in danno di altra persona, unitamente alla quale era stato imputato per i fatti che avevano dato poi luogo all’applicazione della misura di prevenzione.
Osserva infine il Tribunale, quanto alla inoffensività della condotta, pure oggetto di deduzione difensiva, che una tale evenienza avrebbe potuto ravvisarsi solo nel caso, non verificatosi nella fattispecie, in cui il Nucleo di Polizia Tributaria, entro i termini previsti per l’effettuazione delle comunicazioni delle variazioni patrimoniali, fosse comunque venuto a conoscenza delle transazioni riferibili all’indagato.
Avverso tale pronuncia NOME COGNOME propone ricorso per cassazione tramite i propri difensori di fiducia, Avv. NOME COGNOME e Avv. NOME COGNOME articolando le doglianze in quattro distinti motivi.
4.1 Il ricorrente deduce, con il primo motivo di ricorso, la violazione di legge e l’assenza di motivazione, quanto alla riconosciuta sussistenza del fumus del reato oggetto di provvisoria incolpazione, con riferimento all’elemento psicologico, che
il Tribunale non avrebbe considerato i contenuti della documentazione prodotta in udienza, dalla quale emergerebbe che le diverse transazioni, comunque tracciabili, sarebbero state effettuate senza alcuna finalità elusiva, con la conseguenza che l’omissione di tale dovuta disamina avrebbe determinato la mera apparenza della motivazione, specie in rapporto alla particolare fattispecie incriminatrice – di natura formale e di pura creazione legislativa – posta a base del provvedimento di sequestro.
Richiama, poi, la lettura della disposizione incriminatrice offerta dalla giurisprudenza di legittimità, con la quale viene posto in evidenza come la natura di reato omissivo di pura creazione legislativa della fattispecie incriminatrice, storicamente riferita a specifici destinatari, quali gli indiziati di appartenenza ad organizzazioni mafiose e solo in un secondo tempo esteso ai destinatari di misure di prevenzione in quanto tali, richieda una approfondita verifica dell’elemento psicologico, la cui sussistenza avrebbe dovuto essere esclusa, nel caso specifico, in ragione della tardiva comunicazione conseguente alla conoscenza di vicenda analoga, indicativa, quanto alle precedenti condotte, dell’assenza di consapevolezza e volontà di violare il precetto penale.
4.2. Con un secondo motivo di ricorso lamenta, poi, l’assenza di motivazione e la violazione di legge in tema di inescusabilità dell’ignoranza del precetto penale, osservando come l’estensione, ai soggetti destinatari di misure di prevenzione per pericolosità non mafiosa, degli obblighi di comunicazione delle variazione patrimoniali introdotti dalla legge n. 646 del 1982, fosse conseguenza di plurimi e complessi interventi normativi e come lo stesso Tribunale avesse, nel suo caso, espressamente riconosciuto che tale obbligo non era vigente quando la misura di prevenzione applicatagli era divenuta definitiva, pervenendo tuttavia all’attribuzione di un onere di informazione che riversa sul destinatario di una misura di prevenzione per pericolosità generica un dovere irragionevole, finalizzato al superamento della condizione di assoluta oscurità della disposizione incriminatrice.
Assume, inoltre, che i giudici del riesame, ragionando in termini del tutto astratti e senza considerare la particolarità del caso, non avrebbero osservato le fondamentali indicazioni fornite dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale in tema di ignoranza della legge penale, dal momento che all’atto della sottoposizione alla misura di prevenzione il ricorrente non era stato posto a conoscenza dell’obbligo e che questi, secondo quanto ritenuto dal Tribunale, avrebbe dovuto assolvere all’onere di informazione dopo la cessazione della misura della sorveglianza speciale.
4.3. Con il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2 cod. pen. in relazione alla ritenuta applicabilità, nel caso di specie, degli artt. 30 e 31 della
legge n. 646 del 1982, osservando che il Tribunale avrebbe seguito, in maniera del tutto assertiva, un orientamento sulla individuazione del periodo di vigenza della norma incriminatrice che non può, però, ritenersi pacifico, in quanto confutato da una sentenza di questa Corte (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, COGNOME, Rv. 256137).
Osserva quindi, tenuto conto di quanto affermato dalla citata pronuncia, che dovrebbe considerarsi che egli è stato destinatario della misura di prevenzione nel dicembre 2006 e che essa è cessata di diritto al termine della sua durata biennale, in epoca quindi antecedente all’entrata in vigore sia della legge n. 136 del 2010 che del d.lgs. n. 159 del 2011 e che, ricorrendo le condizioni dell’art. 30, il «termine di dieci anni», il quale decorre, nella vicenda in esame, dal decreto del Tribunale (2006) ovvero dalla sua irrevocabilità (2008), è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, in quanto integra e delimita l’ambito temporale “di sospetto e di attenzione” che il legislatore, nella sua discrezionalità tecnica, ha voluto precisare e definire, in funzione di un controllo pluriennale sulle variazioni di rilievo, nell’entità e nella composizione del patrimonio, soltanto di una cerchia determinata di persone di cui egli non faceva parte nei periodi indicati.
Da ciò conseguirebbe l’applicazione retroattiva, da parte del Tribunale, in violazione del generale divieto di retroattività delle norme incriminatrici, di una tale disposizione non vigente né all’atto della definitività della decisione sulla misura di prevenzione (2008) né, tanto meno, al momento della sottoposizione, successiva alla decisione di primo grado (2006), con ulteriore violazione del canone della prevedibilità delle conseguenze sfavorevoli di una condotta.
4.4. Con il quarto motivo di ricorso denuncia la mancanza di motivazione e la violazione di legge sotto il profilo della concreta offensività della condotta, richiamando quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 99 del 2017, la quale promuove la valorizzazione – nel momento applicativo – del canone interpretativo della concreta offensività della condotta omissiva e sostiene che la comunicazione del febbraio del 2017, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, era del tutto idonea a consentire l’esercizio dei poteri di controllo sulle variazioni patrimoniali, di fatto eliminando l’offensività delle condotte antecedenti.
Il ricorso è stato assegnato alla Prima Sezione penale, la quale, rilevata la sussistenza di un contrasto interpretativo, lo ha rimesso alle Sezioni Unite.
Premessa dunque una disamina della disciplina di settore, la Sezione rimettente ha posto in luce la sussistenza di due differenti linee interpretative, la prima delle quali (sostenuta da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, COGNOME, Rv. 256137) evidenzia come il presupposto che determina l’insorgenza dell’obbligo di comunicazione della variazione patrimoniale e, cioè, la definitività della “decisione
fonte”, debba necessariamente verificarsi dopo l’entrata in vigore della disposizione che amplia la fattispecie incriminatrice, determinandosi, in caso contrario, la violazione del generale divieto di retroattività delle norme incriminatrici di cui all’art. 25, comma 2, Cost., mentre la seconda ritiene detto obbligo sussistente e penalmente rilevante anche qualora la condanna definitiva per il nuovo delitto presupposto sia antecedente alla modifica legislativa – aspetto che l’ordinanza di rimessione ritiene doversi tradurre, nel caso di specie, in definitività della misura di prevenzione per pericolosità semplice antecedente alla estensione legale delle ipotesi – sempreché i beni siano entrati nel patrimonio del soggetto in data successiva (si indicano, come orientate in tal senso, Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, COGNOME, Rv. 253538; Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, COGNOME, Rv. 264137).
Il Presidente Aggiunto, con decreto del 16 novembre 2018, ha fissato per la data odierna la trattazione del ricorso in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite può essere così enunciata: “se l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applichi anche quando il provvedimento che ha disposto la misura sia divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo”.
La soluzione della questione prospettata richiede la previa illustrazione delle disposizioni succedutesi nel tempo.
Occorre, in primo luogo, precisare che:
nel caso in esame, la misura di prevenzione è stata applicata in forza dell’art. 1, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e che la legge 22 maggio 1975, n. 152, con l’art. 19, ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956;
l’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella sua originaria formulazione, stabiliva che le persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e i condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall’articolo 416-bis cod. pen., sono tenuti a
comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad un certo importo (stabilendo, altresì, un obbligo di comunicazione entro il 31 gennaio per le variazioni intervenute nell’anno precedente concernenti elementi di valore non inferiore ad un determinato limite e con esclusione dei beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani);
il termine decennale decorre dalla data del decreto, ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna, mentre gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione;
l’omessa comunicazione è sanzionata dall’art. 31 della stessa legge.
2.1. L’ambito di operatività della disposizione era originariamente limitato ai soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, come si deduce dal fatto che il legislatore individua, quale soggetto destinatario delle comunicazioni concernenti le variazioni patrimoniali, il «nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575».
Tale ultimo articolo, infatti, è stato introdotto dall’art. 14 della legge n. 646 del 1982 e faceva riferimento, nella sua prima stesura, alle «persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad alcuna delle associazioni previste dall’articolo 1» e, successivamente, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990, ai «soggetti indicati all’articolo 1 nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno».
L’art. 1 riguardava a sua volta, originariamente, «gli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose» e tale generico richiamo veniva successivamente puntualizzato mediante un più dettagliato riferimento agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso» (modifica apportata dalla legge n. 646 del 1982).
Le ulteriori, successive modifiche a tale disposizione non rilevano, per quel che ora interessa, in quanto la legge 19 marzo 1990, n. 55, con l’art. 11, ha sostituito il comma 1 dell’art. 30, legge n. 646 del 1982, indicando come soggette all’obbligo di comunicazione «le persone condannate con sentenza definitiva per il
reato di cui all’articolo 416-bis del codice penale o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall’articolo 1 di tale legge»
A quel tempo, pertanto, detto obbligo veniva quindi chiaramente limitato, quanto ai soggetti sottoposti a misura di prevenzione, a quelli raggiunti da un provvedimento definitivo, specificando, altresì, che la misura considerata è quella applicata agli indiziati di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso.
Si tratta, dunque, di una puntualizzazione che ha individuato espressamente quei soggetti, destinatari degli obblighi di comunicazione, che già l’originaria stesura dell’articolo 30 consentiva di determinare attraverso i richiami ad altre disposizioni di cui si è già detto.
2.2. Un’ulteriore modifica del comma 1 dell’art. 30 è stata apportata dall’art. 7, comma 1, lett. b) della legge 13 agosto 2010 n. 136, prevedendo l’obbligo di comunicazione non soltanto per i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge n. 575 del 1965, ma anche alle persone condannate, con sentenza definitiva, per taluno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen., ovvero per il delitto di cui all’articolo 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.
Estendendone l’ambito di applicazione soggettivo, l’art. 30 veniva dunque adeguato ai contenuti del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e della legge 15 luglio 2009, n. 94, che avevano ampliato il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione apportando modifiche all’art. 1 della legge n. 575 del 1965.
La stessa legge n. 136 del 2010 conferiva anche una delega al Governo per l’emanazione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, cui veniva data attuazione mediante il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha abrogato, con l’art. 120, le leggi n. 1423 del 1956 e 575 del 1965, lasciando intatta la legge n. 646 del 1982 (fatta eccezione per l’art. 16).
L’art. 80 del citato decreto legislativo, infatti, fa salvo quanto già previsto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982, stabilendo che «le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria (ora nucleo di polizia economico finanziaria ai sensi dell’art. 35, comma 8, lett. a), d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, n.d.r.) del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni
intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. Gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata».
Le sanzioni in caso di violazione dell’obbligo sono stabilite dall’art. 76, comma 7 del medesimo decreto.
L’introduzione del menzionato art. 80 ha determinato uno scorporo dell’originaria fattispecie, la quale, per ciò che concerne i soggetti sottoposti a misura di prevenzione, è stata trasfusa nel decreto legislativo (artt. 80 e 76, comma 7), restando invece intatta negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 relativamente ai soggetti condannati con sentenza definitiva.
Dalla disamina delle richiamate disposizioni emerge, dunque, che fino all’intervento modificativo apportato dalla legge n. 136 del 2010 (entrata in vigore il 7 settembre 2010), l’ambito di operatività dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 era limitato ai soli soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e solo successivamente è stata estesa agli altri soggetti di cui si è detto in precedenza.
Occorre osservare, a tale proposito, che nell’ordinanza di rimessione si afferma, non condividendosi quanto sostenuto dal Tribunale di Bologna nel provvedimento impugnato, che l’intervento modificativo ad opera della legge n. 136 del 2010 – pur avendo accresciuto i «reati/fonte» a seguito dell’abolizione della precisazione, circa la correlazione tra imposizione dell’obbligo e indizio di appartenenza alla organizzazione mafiosa, apportata dal legislatore del 1990 avrebbe lasciato comunque intatto il testo dell’articolo 30, vigente tra il 2010 e il 2011, il quale continuava a fare riferimento ai destinatari di misura di prevenzione applicata ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, con la conseguenza che ciò non autorizzerebbe una interpretazione ampliativa (pur agganciata alla riemersa vigenza, dopo il decreto legge 92 del 23 maggio 2008, del testo originario dell’art. 19 legge n. 152 del 1975 in tema di applicabilità ai pericolosi semplici di talune disposizioni della legge n. 575 del 1965), stante il generale principio di tassatività e la tecnica descrittiva del presupposto di incriminazione.
Si assume, in definitiva, che, per quanto riguarda le misure di prevenzione, l’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali sarebbe avvenuta nel 2011 con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159
Come si è detto in precedenza, l’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 30 rispondeva ad un esigenza di adeguamento della norma all’incremento, operato dal c.d. pacchetto sicurezza, dei possibili destinatari delle misure di prevenzione, poiché, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 10, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e dall’art. 2, comma 4, della legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 1 della legge 575/1965 stabiliva che le misure di prevenzione disposte dalla medesima legge 575/1965 potessero essere applicate – oltre che agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso – anche ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen. e dall’art. 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 306/1992 (trasferimento fraudolento di valori).
Con l’entrata in vigore della legge n. 136 del 2010, dunque, per effetto delle modifiche apportate, era stato realizzato uno stabile coordinamento tra le diverse disposizioni.
Considerata, dunque, la successione delle varie modifiche che hanno interessato le richiamate disposizioni, vanno considerati i contenuti dei diversi orientamenti, GLYPH segnalati GLYPH dall’ordinanza GLYPH di GLYPH rimessione, GLYPH circa GLYPH l’incidenza dell’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali di cui si è detto.
Si tratta di considerazioni che la giurisprudenza ha espresso con riferimento all’incremento del novero dei reati per i quali è richiesta la condanna definitiva, ma che, come rilevato nell’ordinanza di rimessione, assumono rilievo anche riguardo al corrispondente ampliamento delle ipotesi in cui è possibile l’applicazione delle misure di prevenzione.
Un primo orientamento (espresso da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, COGNOME, Rv. 256137) ha escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 31 della legge n. 646 del 1982 nel caso in cui la condanna per il delitto presupposto (nella fattispecie, quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui a 260 d.lgs. 152/06, ora 452 -quaterdecies cod. pen., introdotto ex novo dall’art. 7, comma primo, lett. b) della legge n. 136 del 2010) sia intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge n. 136, ritenendo altresì non rilevante il fatto che i beni e le disponibilità oggetto dell’omessa comunicazione siano entrati nel patrimonio del condannato per il delitto presupposto in data successiva alla predetta normativa del 2010.
Nella richiamata decisione si assume che, in presenza delle condizioni di cui all’art. 30 della legge n. 646 del 1982, il termine decennale, decorrente, nel caso esaminato in quell’occasione, dalla sentenza definitiva di condanna, è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, in quanto integra e delimita l’ambito temporale «di sospetto e di attenzione» che il legislatore ha individuato nella sua discrezionalità tecnica al fine di consentire un quadro dinamico ed aggiornato di controllo sulle variazioni patrimoniali, oltre un certo rilievo, soltanto di determinati soggetti (coloro i quali abbiano commesso uno dei reati tassativamente indicati nel catalogo delle violazioni del suindicato art. 30), con la conseguenza che esso deve essere accertato, nella sua sussistenza, al tempo dell’entrata in vigore della norma penale che stabilisce la sanzione (7 settembre 2010, data dalla quale la violazione dell’art. 260 d.lgs. 152/06 era stata inserita nel novero dei reati presupposto).
Viene conseguentemente ritenuto contrastante con il disposto dell’art. 2 cod. pen. e dell’art. 25, comma secondo, Cost. il diverso orientamento, prospettato nel provvedimento poi annullato, ove veniva valorizzato il fatto che gli obblighi di comunicazione avrebbero dovuto comunque essere adempiuti dalla data di entrata in vigore della norma incriminatrice, tanto che, nella fattispecie, si erano considerati soltanto i movimenti patrimoniali successivi a tale data (anche Sez. 6, n. 6744 del 7/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv 258991 qualifica l’art. 30 della legge 646/82 quale norma integratrice del precetto penale, ancorché la sanzione per la sua violazione sia contenuta nel successivo art. 31).
6. Un secondo indirizzo interpretativo pone, invece, in evidenza la natura di reato omissivo istantaneo del delitto in esame, la consumazione del quale deve essere collocata nel momento e nel luogo in cui le comunicazioni delle variazioni patrimoniali andavano effettuate, poiché ciò che rileva è la condotta omissiva di colui che, nel momento in cui non provvede alla comunicazione, si trovi nelle condizioni soggettive ed oggettive richieste dalla legge (Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, COGNOME, Rv. 253538. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, COGNOME e altro, Rv. 264137, ove viene dato conto del diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 41113/2013).
La natura di reato omissivo istantaneo della violazione in esame era stata d’altronde già affermata in precedenti occasioni (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 264164. V. anche Sez. 5, n. 3079 del 17/01/2005, COGNOME, Rv. 231417), peraltro, in un caso (Sez. 1, n. 2440 del 20/12/2007, dep. 2008, COGNOME, Rv. 239209), richiamando analoghe conclusioni cui si era pervenuti in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali (Sez. 1, n. 6850 del
04/12/1997, dep. 1998, COGNOME, Rv. 209538; Sez. 3, n. 3985 del 24/11/2000, dep. 2001, COGNOME, Rv. 218321).
Va a questo punto rilevato come la natura del reato in esame sia stata presa in considerazione più volte dalla giurisprudenza di legittimità.
Si è, in primo luogo, affermato che la legge 22 maggio 1975, n. 152, estendendo, con l’art. 19, l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956, ha operato una completa equiparazione tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e soggetti pericolosi in quanto ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi da cui traggono, almeno in parte, i mezzi di vita, attraverso l’estensione a questi ultimi della disciplina introdotta per i primi (lo ricorda, in particolare, Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, COGNOME, Rv. 272311, richiamando i principi precedentemente espressi da Sez. 5, n. 38 del 12/01/1999, COGNOME, Rv. 212341; Sez. 1, n. 950 del 23/02/1994, COGNOME, Rv. 196838; Sez. 1, n. 5166 del 29/11/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 196098).
Si è anche chiarito (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, COGNOME, Rv. 256137) che la condotta sanzionata, concernente la violazione dell’obbligo di comunicazione di variazioni patrimoniali da parte di persone condannate per uno dei delitti indicati nell’art. 30, non costituisce una pena accessoria del reato presupposto, stante la sua autonomia rispetto a quest’ultimo, richiamandone la natura «sanzionatoria», ovvero «pregiudizievole», o ancora configurabile alla stregua di una «conseguenza giuridica negativa», dell’imposizione di comunicare ogni variazione patrimoniale che consegue di diritto alla condanna per il delitto di associazione mafiosa, e, dall’altro, che detto obbligo risponde ad esigenze di tutela e ad interessi del tutto analoghi a quelli posti a base dell’incriminazione cui è riferita la condanna a tale fine rilevante.
Il bene giuridico tutelato è stato individuato nell’ordine pubblico (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 264164; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, COGNOME, Rv. 234248; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001, Messina, Rv. 220377).
Quanto all’elemento soggettivo del reato, si è sostenuto (Sez. 6, n. 36659 del 17/06/2015, COGNOME, Rv. 264666) che il delitto in esame è integrato dal semplice dolo generico, sicché non è richiesto che l’autore agisca allo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni cui l’obbligo imposto si riferisce (conf. Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269074; Sez. 5, n. 38098 del 29/5/2015, Clemente, Rv. 264998; Sez. 6, n. 33590
del 15/6/2012, COGNOME, Rv. 253199; Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro’, Rv. 247570; Sez. 2, n. 27196 del 18/05/2010, COGNOME, Rv. 247842).
Risulta, inoltre, ormai consolidato l’orientamento secondo il quale il dolo non può escludersi in caso di variazioni patrimoniali documentate da atti pubblici (Sez. 5, n. 15220 del 18/02/2003, COGNOME, Rv. 224379; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, COGNOME, Rv. 234248; Sez. 1, n. 12433 del 17/02/2009, COGNOME, Rv. 243486; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, COGNOME, Rv. 246398; Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254387; Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, COGNOME, Rv. 256655) rispetto a quello che lo escludeva (Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, COGNOME, Rv. 221494; Sez. 6, n. 11398 del 05/02/2003, Libri e altro, Rv. 224007), specificando, peraltro, che l’incertezza derivante da tali contrastanti arresti giurisprudenziali non consente di invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale, poiché al contrario, tale situazione deve indurre ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269074. V. anche Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, COGNOME, Rv. 253200; Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, COGNOME, Rv. 258991).
In particolare, la sentenza COGNOME dando conto dei diversi criteri – oggettivo, soggettivo e misto- elaborati dalla giurisprudenza di legittimità alla luce della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale ha rilevato, sulla scorta del primo, ravvisabile nelle situazioni connotate da oscurità o contraddittorietà del testo legislativo, generalizzato caos interpretativo o assoluta estraneità del contenuto precettivo ai valori correnti nella società, che la norma in esame offre un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e non si discosta dai valori correnti nella società in misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d. sfera parallela laica, alla quale è noto che la legge prevede una serie di controlli e di cautele nei confronti dei soggetti condannati per reati di mafia.
L’operatività del criterio soggettivo, legato alle condizioni personali dell’agente che abbiano influito sulla conoscenza del precetto penale, come l’elevato deficit culturale, alla luce, ad esempio, della condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia, o l’incolpevole carenza di socializzazione è stata pure esclusa, così come l’applicabilità del parametro misto, comprensivo delle ipotesi in cui, in varia misura e con diverso spessore, operano entrambi i criteri, oggettivo e soggettivo, escludendo che l’esimente della buona fede possa essere integrata dal semplice comportamento passivo
dell’agente, essendo, invece, necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi all’ordinamento giuridico, ad esempio, informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia.
Il reato, inoltre, è stato qualificato come omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, COGNOME, Rv. 256655) e, ricordando la differenza intercorrente con i reati omissivi propri «naturali», si è preso in considerazione l’elemento soggettivo, evidenziando come l’accertamento della coscienza e volontà della condotta debba effettuarsi considerando lo specifico contesto in cui il comportamento omissivo, meramente «formale», si è concretamente realizzato e le peculiarità scaturenti dagli specifici connotati che caratterizzano l’inosservanza dell’obbligo di fare imposto e rimasto inadempiuto, giungendo, sulla base di tali considerazioni, alla conclusione, in fattispecie relativa a misura cautelare reale, che il reato può ritenersi sussistente, quanto al suo fumus, in presenza di una semplice condotta omissiva riconducibile ad un fatto volontario, residuando in capo all’autore del fatto omissivo un onere di allegazione di circostanze che valgano ad escludere, in termini di evidenza, la coscienza e volontà del fatto-reato.
Sulla base del tenore letterale dell’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 (dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990) si è pure ritenuto (Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, COGNOME, Rv. 272311) che l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali decorre dal momento in cui la misura è diventata definitiva e non da quello in cui la stessa è posta in esecuzione, che può essere anche diverso e successivo.
Tale obbligo, peraltro, sorge con riferimento a qualsiasi modifica dell’assetto patrimoniale non inferiore alla soglia individuata dalla legge e non limitata a quelle che comportano un effettivo incremento, assumendo rilievo anche quelle in apparenza ininfluenti sull’entità del patrimonio, in quanto costituite da elementi contrapposti che entrano in compensazione, ed anche di quelle passive, che comunque incidono sulla consistenza dei beni posseduti e, quindi, sulla composizione del patrimonio e valgono a segnalare perdite fittizie o illeciti trasferimenti di componenti attivi, sicché, oltre ai finanziamenti sotto qualsiasi forma, privati o pubblici ed i conti correnti, anche il mutuo, l’affidamento bancario ed il mutuo ipotecario restano soggetti all’obbligo di comunicazione (così, Sez. 6, n. 31817 del 22/04/2009, COGNOME, Rv. 244404. Conf. Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, COGNOME, Rv. 251724).
9. Va a questo punto considerata anche la lettura delle disposizioni in esame offerta dalla Corte costituzionale, più volte chiamata a verificare la legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, dichiarando, in un
primo tempo, manifestamente infondate le questioni proposte (ordinanze n. 442 del 2001 e n. 362 e 143 del 2002), considerando che le disposizioni scrutinate «costituivano esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni» e dando conto del fatto che la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto conforme a Costituzione una interpretazione delle stesse che escludeva la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e, dunque, sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione.
Con una successiva pronuncia (sent. n. 81 del 2014) veniva dato atto di un diverso indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo il quale il delitto deve ritenersi configurato anche nel caso in cui l’omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente né ad opera del pubblico ufficiale rogante, né di altri.
Nella citata sentenza veniva altresì ricordata la natura di reato di pericolo presunto che la medesima giurisprudenza aveva attribuito al delitto in esame, attraverso il quale si è inteso garantire una effettiva e sollecita conoscenza, da parte del nucleo di polizia tributaria, delle variazioni patrimoniali relative a soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che le possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa), nonché l’obbligatorietà, per l’amministrazione, di una verifica, altrimenti solo eventuale (v., in tema, Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro’, Rv. 247570; Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, COGNOME, Rv. 221494), specificando che l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, caratterizzato dalla mera cognizione della qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato e del superamento della soglia di rilevanza dell’operazione, presupposti di fatto da cui sorge l’obbligo di comunicazione, senza che sia necessario il perseguimento del fine di occultamento delle informazioni, con l’ulteriore precisazione che l’ignoranza, da parte dell’interessato, della stessa esistenza dell’obbligo di comunicazione va ritenuta non scusabile, trattandosi di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto penale (in tal senso, v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015 – dep. 2016, Artale, Rv. 266381, con richiami ai precedenti)
Da ultimo (sent. n. 99 del 2017), considerando la legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge n. 646 del 1982, laddove indica, come penalmente rilevante, anche l’omessa comunicazione relativa a variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici, soggette a trascrizione nei registri immobiliari e a registrazione a fini fiscali, ritenute, per tale ragione, inoffensive, la Corte
costituzionale, ribadendo quanto già osservato nella sentenza n. 81 del 2014, ha respinto tale assunto, richiamando, ancora una volta, la giurisprudenza di legittimità, la quale ha individuato le finalità della norma incriminatrice nel consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite, escludendo che tale scopo possa essere raggiunto per la pubblicità dell’atto dispositivo, che non implica una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione e non consente un constante monitoraggio, dovendosi anche escludere che gravi sul destinatario della comunicazione un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri.
La Corte costituzionale ha comunque precisato come – sempre che non possa escludersi il dolo – spetti comunque al giudice di rilevare la offensività in concreto della condotta con riferimento al caso specifico, verificando se la singola omissione sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma, tenendo conto delle finalità che la stessa persegue.
10. Tanto premesso, la Corte ritiene di condividere il secondo degli indirizzi interpretativi in precedenza richiamati.
L’estensione ad altri soggetti, operata dalla legge 1362010 degli obblighi di comunicazione è pacificamente indicativa di una scelta del legislatore di ampliare l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice.
Occorre tuttavia stabilire se tale intervento abbia o meno inciso sulla struttura essenziale del reato, integrando il precetto penale ed a tale domanda deve darsi risposta negativa.
Deve ritenersi che, riguardo al reato in esame, la selezione dei fatti penalmente rilevanti è stata operata dal legislatore facendo riferimento ai sottoposti a misura di prevenzione (o ai condannati con sentenza definitiva), posizione soggettiva preventivamente individuata, che resta indifferente ad eventuali modifiche normative riguardanti le preliminari condizioni per la sua attribuzione, la quale, a sua volta, è conseguenza di un provvedimento giudiziale ormai definitivo, così come del tutto immutata resta l’essenza stessa del reato.
In altre parole, la condizione di sottoposto a misura di prevenzione (o condannato definitivo) è del tutto indipendente dal contenuto delle disposizioni che ne disciplinano l’applicazione, costituendo un mero presupposto per l’insorgenza degli obblighi comunicativi e rispetto al quale la fisionomia del reato e le finalità perseguite dal legislatore restano inalterate, poiché l’incidenza degli interventi
normativi succedutesi nel tempo ha solo ridefinito l’ambito di operatività del precetto.
La condotta sanzionata è, infatti, quella di chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti i limiti indicati e le modifiche apportate nel tempo hanno riguardato esclusivamente il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo, intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla sua osservanza, lasciando però inalterata la struttura della fattispecie ed il giudizio di disvalore formulato dal legislatore.
Le finalità perseguite dal legislatore, lo si è detto, sono quelle di assicurare un capillare e continuativo controllo patrimoniale su soggetti ritenuti pericolosi al fine di verificare se le operazioni compiute siano correlate con attività illecite e ciò avviene mediante l’imposizione di un obbligo di comunicazione.
Non si pone, conseguentemente, un problema di applicabilità dell’art. 2, comma quarto cod. pen., che presuppone una modifica della fattispecie incriminatrice che le richiamate disposizioni non hanno determinato.
Va a tale proposito rilevato che la giurisprudenza di legittimità è pervenuta, in diverse occasioni, a conclusioni analoghe, seppure alla luce delle specifiche caratteristiche delle disposizioni prese in esame nel caso trattato.
In tema di infortuni sul lavoro, ad esempio, si è affermato che le disposizioni che disciplinano gli obblighi ai quali devono uniformarsi i soggetti cui è demandata la tutela della salute dei lavoratori non hanno una funzione integratrice del precetto penale, poiché si limitano ad individuare le persone cui è attribuito il compito di osservare e fare osservare le regole cautelari, sicché una rimodulazione degli obblighi dei vari soggetti non può avere, quale conseguenza, quella di rendere legittima una condotta precedentemente vietata al fine di valutare la responsabilità dell’imputato (Sez. 4, n. 2604 del 25/10/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 235780)
Riguardo al delitto di cui all’art. 464 cod. pen. si è affermato che la legge sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice quanto all’individuazione solo dei valori di bollo, non pure dei casi in cui ne è richiesto l’uso, con la conseguenza che la modificazione o l’abrogazione della disciplina di tali casi non configura una successione di leggi penali ai sensi dell’ art. 2 cod. pen., in quanto la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dall’entrata in vigore della legge successiva o dall’emanazione del successivo provvedimento amministrativo di attuazione e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (Sez. 5, n. 18068 del 03/04/2002, Versace, Rv. 221917; conf. Sez. 5,
n. 4634 del 18/12/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 227454; Sez. 5, n. 26652 del 07/05/2004, COGNOME, Rv. 229880).
A conclusioni analoghe si era in precedenza pervenuti in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel d.m. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal d.m. 25 gennaio 2001, osservando che la normativa secondaria richiamata nella rubrica di reato, successivamente abrogata, aveva avuto incidenza esclusivamente sulla portata del comando, modificato nel suoi contenuti a far data dal provvedimento innovativo, lasciando però inalterato il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il controllo sull’antigiuridicità della condotta andava effettuato sul perimetro dei divieti esistenti al momento del fatto (Sez. 3, n. 18193 del 12/3/2002, Pata V, Rv. 221943).
La necessaria distinzione tra norme integratici del precetto penale e quelle che non sono tali è stata posta in evidenza anche dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, P.G. in proc. COGNOME, Rv. 238197, che individua le prime come modificazioni mediate della norma incriminatrice, da trattare, alla stregua dell’art. 2 cod. pen. come una successione di norme penali. e Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, COGNOME, Rv. 239398 che la richiama), mentre altre pronunce delle sezioni semplici, giunte sostanzialmente alle medesime conclusioni, hanno riguardato, ad esempio, la materia degli stupefacenti (Sez. 4, n. 17230 del 22/02/2006, Sepe, Rv. 234029), l’introduzione di armi in area protetta (Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, Guttà, Rv. 250119), l’usura (Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, COGNOME, Rv. 252194), la bancarotta (Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266474); il reato di cui all’art. 16, comma 1, del decreto legislativo n. 96 del 2003 (Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, COGNOME Rv. 270335).
12. Resta da considerare che la soluzione interpretativa adottata non sembra porsi in contrasto con i principi stabiliti dalla Corte EDU con riferimento all’art. 7 della Convenzione e richiamati dalla Sezione rimettente sotto il profilo della concreta prevedibilità della sanzione (si richiama, a tale proposito, la sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21/10/2013).
Invero, per le ragioni dianzi esposte, il precetto penale è chiaro nell’individuare, quali obbligati alle comunicazioni delle variazioni patrimoniali oltre una determinata soglia di valore, le persone sottoposte a misura di prevenzione (o a condanna), che restano soggette a tale obbligo per un periodo di tempo anch’esso specificato. L’inosservanza dell’obbligo è penalmente sanzionata.
La fattispecie incriminatrice è pertanto sufficientemente definita (anche nei termini individuati dalle sentenze della Corte EDU COGNOME c. Italia del 17/9/2009 e De Tommaso c. Italia del 23/2/2017) e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una sua inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati, essendo altrettanto chiaramente indicato dalla norma che l’obbligo di comunicazione permane per dieci anni.
Analogamente, deve escludersi che abbia avuto in qualche modo incidenza negativa la sussistenza del contrasto giurisprudenziale che ha condotto all’odierna decisione, essendo sufficiente richiamare quanto condivisibilmente ribadito in una recente pronuncia (Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, COGNOME, Rv. 273876), richiamata anche nell’ordinanza di rimessione, osservando, dopo aver richiamo plurimi precedenti, che la non prevedibilità di una decisione giudiziale che ne preclude l’applicazione retroattiva deve certamente escludersi in una situazione di contrasto giurisprudenziale, in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente, come avvenuto nel caso in esame, peraltro con un numero di decisioni decisamente contenuto.
Alla stregua di quanto precede, può enunciarsi il seguente principio di diritto: l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.
Venendo all’esame dei motivi di ricorso, va preliminarmente rilevato, con riferimento alla posizione del ricorrente, che allo stesso, secondo quanto emerge dal provvedimento impugnato, sono attribuite le condotte omissive oggetto di provvisoria incolpazione riguardanti operazioni economiche poste in essere tra il 2012 ed il 2017, quando il termine decennale relativo agli obblighi di comunicazione conseguenti alla misura di prevenzione cui era stato sottoposto non era ancora spirato.
Ciò posto ed avuto riguardo alla soluzione adottata, deve rilevarsi la infondatezza del terzo motivo di ricorso, dovendosi escludere la dedotta violazione dell’art. 2 cod. pen.
Parimenti, deve escludersi la questione, pure dedotta, della prevedibilità delle conseguenze sfavorevoli dell’omissione, atteso che la fattispecie incriminatrice per le ragioni già dette, era compiutamente delineata.
Per ciò che concerne le ulteriori doglianze, deve rilevarsi, quanto al primo motivo di ricorso, che lo stesso è pure infondato.
La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata, nell’ambito della valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato, anche la verifica dell’eventuale difetto dell’elemento soggettivo del reato, purché di immediata evidenza (Sez. 6, n. 16153 del 6/2/2014, COGNOME, Rv. 259337; Sez. 2, n. 2808 del 2/10/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 242650; Sez. 4, n. 23944 del 21/5/2008, COGNOME, Rv. 240521; Sez. 1, n. 21736 del 11/5/2007, Citarella, Rv. 236474).
Tale immediata evidenza avrebbe dovuto essere rilevata, secondo il ricorrente, dal contenuto di documentazione allegata ai motivi di riesame, indicativa della liceità e la natura delle provviste per mezzo delle quali erano avvenute le variazioni patrimoniali, elementi da valutare unitamente alle modalità di acquisizione dei singoli beni ed in rapporto al loro valore.
Si tratta, tuttavia, di una verifica che esula dal concetto di «immediata evidenza» delineato dalla richiamata giurisprudenza e che, soprattutto, non tiene conto del fatto che, per la configurabilità del reato è richiesto, come si è detto, il dolo generico (essendo sufficiente che la condotta omissiva dipenda da un fatto volontario) e che la finalità della norma incriminatrice è quella di assicurare un controllo sulle variazioni patrimoniali, indipendentemente dalla liceità delle operazioni e dalla provenienza delle somme utilizzate perla loro effettuazione.
Anche il secondo motivo di ricorso risulta infondato, perché la motivazione del provvedimento impugnato non può certo dirsi apparente, dovendosi pacificamente intendere come tale quella priva dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l’iter logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli, Rv. 269656 ed altre prec. conf.).
Quanto alla dedotta ignoranza scusabile del precetto penale, va ricordato che la questione, attinente alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, richiede la immediata evidenza, richiamata dalla giurisprudenza precedentemente citata e che i giudici del riesame hanno motivatamente escluso.
20. Parimenti infondato risulta il quarto motivo di ricorso, laddove si sostiene che la spontanea denuncia di una sola tra le operazioni patrimoniali compiute abbia di fatto consentito di realizzare lo scopo perseguito dalla disposizione penale che si assume violata, palesando, così, la inoffensività della condotta dal momento che avrebbe reso possibile il controllo da parte della polizia tributaria, avendo invece le precedenti omissioni impedito la conoscenza ed informazione sulle variazioni patrimoniali da parte dei soggetti preposti.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 31/01/2019.