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Nesso di causalità: la condotta della vittima

Un automobilista, condannato per la morte di una persona a seguito di un incidente stradale, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo l’interruzione del nesso di causalità a causa della condotta post-operatoria della vittima. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ribadendo un principio fondamentale: la catena causale innescata dall’incidente non viene interrotta da un’eventuale negligenza della vittima nel seguire la terapia prescritta, poiché tale evento non è considerato eccezionale o imprevedibile.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Nesso di causalità: se la vittima non si cura, la colpa è ancora di chi ha causato l’incidente?

Il concetto di nesso di causalità è uno dei pilastri del diritto penale: affinché un soggetto possa essere ritenuto responsabile di un evento, è necessario dimostrare che la sua condotta ne sia stata la causa diretta. Ma cosa accade quando, tra la condotta iniziale e l’evento finale, si inseriscono altri fattori, come il comportamento della stessa vittima? Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su questo tema delicato, chiarendo i limiti della responsabilità di chi provoca un incidente stradale quando la persona offesa, successivamente, non segue adeguatamente le cure mediche.

I fatti di causa

Il caso trae origine da una condanna emessa dalla Corte d’Appello nei confronti di un automobilista, ritenuto responsabile della morte di una persona a seguito di un sinistro stradale. L’imputato, tramite il suo difensore, ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la logicità della motivazione della sentenza. In particolare, la difesa sosteneva che il decesso non fosse direttamente collegato all’incidente, ma a eventi successivi: la vittima, dopo le dimissioni dall’ospedale, avrebbe assunto una terapia a base di eparina. Secondo la tesi difensiva, questa circostanza, o un’eventuale negligenza della vittima nella gestione della terapia, avrebbe dovuto interrompere il nesso di causalità tra l’incidente e la morte.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto categoricamente le argomentazioni dell’imputato, dichiarando il ricorso inammissibile. I giudici hanno qualificato i motivi del ricorso come ‘manifestamente infondati’ e ‘assertivi’, sottolineando come non facessero altro che riproporre questioni già valutate e correttamente risolte nei precedenti gradi di giudizio, senza una critica puntuale e specifica della sentenza impugnata. La decisione della Corte d’Appello, secondo la Cassazione, è apparsa logica, congrua e immune da vizi di legittimità.

Le motivazioni: il nesso di causalità non si spezza facilmente

Il cuore della pronuncia risiede nella conferma di un consolidato orientamento giurisprudenziale. La Corte ha evidenziato come i giudici di merito avessero correttamente applicato i principi che regolano il nesso di causalità. Anche se la vittima avesse omesso di assumere la terapia anticoagulante prescritta, tale comportamento non sarebbe stato sufficiente a interrompere il legame causale con l’incidente.

Il principio, richiamato dalla giurisprudenza citata (in particolare Cass. n. 25560/2017), è chiaro: la catena causale messa in moto dalla condotta illecita dell’imputato si interrompe solo in presenza di un fattore eccezionale, atipico e imprevedibile, che si inserisce e determina l’evento in modo del tutto autonomo. La mancata assunzione di una terapia da parte della vittima, per quanto possa aver contribuito all’esito infausto, non rientra in questa categoria. Si tratta, purtroppo, di una complicanza o di un’evoluzione clinica non imprevedibile nel quadro di una lesione grave causata da un incidente. La condotta della vittima non è stata quindi considerata una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento morte.

Le conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio di grande rilevanza pratica: chi causa un danno grave a una persona con la propria condotta illecita è responsabile di tutte le conseguenze che ne derivano, anche quelle mediate da eventuali complicazioni mediche o da comportamenti non ottimali della vittima stessa durante il percorso di cura. Per escludere la propria responsabilità, l’imputato deve dimostrare che l’evento morte è stato causato da un fattore totalmente anomalo e slegato dalla sequenza di eventi da lui innescata. La negligenza della vittima nel curarsi, in questo contesto, non è considerata tale, consolidando così una visione rigorosa della responsabilità penale in materia di causalità.

La condotta della persona offesa dopo l’incidente può interrompere il nesso di causalità?
No, secondo la Corte la condotta della persona offesa, come la mancata assunzione di una terapia, non interrompe il nesso di causalità a meno che non costituisca un fattore causale eccezionale e imprevedibile, del tutto slegato dalla condotta originaria dell’imputato.

Perché il ricorso in esame è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché ritenuto manifestamente infondato, generico e assertivo. Esso si limitava a riproporre censure già vagliate nei precedenti gradi di giudizio, senza formulare una critica specifica e puntuale alle argomentazioni della sentenza d’appello.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
Comporta che la sentenza impugnata diventi definitiva. Inoltre, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria (in questo caso, tremila euro) in favore della cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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