Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 909 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 909 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato il 09/06/1973 in TU ( 1/ SI
avverso la sentenza del 13/09/2022 della CORTE APPELLO di VENEZIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata;
lette le conclusioni del difensore della parte civile COGNOME Avv. NOME COGNOME che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio;
letta la memoria presentata dal difensore dei ricorrente, Avv. NOME COGNOME e udite le conclusioni dello stesso,
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13 settembre 2022, la Corte di appello di Venezia confermava la sentenza di primo grado con la quale NOME era stato ritenuto responsabile del reato di estorsione.
1.1 Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il difensore di COGNOME reiterando l’eccezione di erronea applicazione dell’art. 50 della Carta dei Diritt Fondamentali UE e 4 prot.n.7 addizionale alla Convenzione EDU, siccome interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con riferimento all’art. 649 cod. proc. pen.; l’imputato era stato infatti già giudicato in sede disciplinare, ed motivi per i quali la Corte non aveva accolto le censure della difesa erano infondati in quanto:
la Corte di appello aveva ritenuto che vi fosse una connessione sufficientemente ristretta nel tempo, trascurando che una tale conclusione può valere solo quando i due procedimenti abbiano avvio e conclusione in 14 un ambito temporale sostanzialmente unitario; nel caso in esame, alla sanzione immediatamente applicata dal Consiglio di Disciplina dell’istituto penitenziario non era ancora seguita la conclusione del procedimento penale;
la Corte di appello aveva osservato che i due procedimenti perseguono finalità distinte, senza considerare che la tutela convenzionale, che muove esattamente dal presupposto che distinti procedimenti perseguano distinte finalità, mira a tenere indenne il cittadino da una illegittima moltiplicazione istanze punitive, ciascuna sia pure azionata per uno scopo legittimo;
la Corte di appello aveva osservato che le sanzioni inflitte hanno natura, gravità e finalità differenti, senza motivare in alcun modo tale assunto e ad onta di specifico motivo di appello inteso a dimostrare la agevole riconducibilità della sanzione inflitta ex art. 77 D.P.R. 230/2000 nell’ambito della materia penale, posto che il ricorrente aveva subìto limitazioni della propria libertà personale in termini quanti-qualitativi, e quindi essenzialmente penali;
la Corte di appello aveva ritenuto che l’azione amministrativa aveva preso in esame e sanzionato la mera “ricezione del vaglia” da parte del ricorrente, da cui la complementarietà dei due procedimenti, senza considerare che per incorrere nella violazione del principio convenzionale in esame non era affatto necessaria la perfetta sovrapposizione di tutti gli elementi legali e fattuali del fattispecie, essendo sufficiente rinvenire nei due procedimenti anche solo una frazione di una medesima circostanza di fatto.
Totalmente ignorato -prosegue il difensore- era stato l’accertamento della ricorrenza dei meccanismi di compensazione delle due sanzioni distintamente applicate, allo scopo di scongiurare il cumulo di più pene discendenti da più processi : se l’imputato, per effetto della sanzione amministrativa, aveva subito la perdita della possibilità di ridurre la propria pena ex art. 54 legge 354/75, era di tutta evidenza che i giudici di merito avrebbero dovuto farsi carico di fare applicazione del “principio di detrazione” con riferimento alla quantità di pena da scomputare, nonché di provvedere analogamente, in via equitativa, con riferimento alla incidenza peggiorativa del regime di isolamento sul decorso originario della pena in esecuzione.
1.2 Il difensore eccepisce la mancanza di motivazione per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, con riferimento alla violazione della regola di valutazione probatoria di cui all’art. 192 comma 1 cod. proc. pen.: in particolare, con l’atto di appello si era lamentata l’incongruenza delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e i profili di interesse della stessa; Corte di appello si era limitata a richiamare le valutazioni del giudice di primo grado, senza alcuna altra motivazione e senza soffermarsi sulla dedotta complessiva “insufficienza essenziale” della narrazione, intesa quale scarsa attitudine probatoria del prodotto dichiarativo
1.3 Il difensore rileva che la Cori di appello aveva rinvenuto, nel narrato della persona offesa, la manifestazione indiretta di una minaccia, implicita ed indeterminata, ma l’assetto emotivo della persona offesa non era in alcun modo sufficiente ad integrare la condotta tipizzata, visto che era stato riferito pressioni, ma mai della prospettazione, neppure implicita, di alcun male ingiusto discendente da una eventuale disattesa della richiesta; inoltre, la Corte di appello non aveva indicato alcun elemento di prova della ricorrenza certa di un condizionamento ambientale irresistibile, considerato anche che lo stato di detenzione di tutti i soggetti convolti non poteva certo riverberarsi in danno dell’imputato
1.4 Il difensore lamenta l’inosservanza della legge penale con riferimento alla circostanza di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. : la Corte di appello aveva erra sia nel rilevare che il giudice di primo grado aveva già tento conto della esiguità del danno nella concessione delle attenuanti generiche, sia perché non aveva esposto alcun elemento di prova da cui trarre che l’esborso di 150 euro sarebbe stato “non insignificante” per la persona offesa.
1.5 II difensore presentava poi motivi aggiunti con i quali osservava che la Corte Costituzionale, con sentenza n.120 del 2023,aveva affermato che “al pari
dell’art. 630 cod. pen., anche l’art. 629 del medesimo codice è capace di includere nel proprio ambito applicativo «episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira da legislatore dell’emergenza», in particolare «per la più o meno marcata “occasionalità” dell’iniziativa delittuosa», oltre che per la ridotta entità dell’of alla vittima e la non elevata utilità pretesa”; insisteva, pertanto, p raccoglimento del quarto motivo di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
1.1 Si deve infatti ribadire che -Non integra una violazione del principio del “ne bis in idem” l’irrogazione, per il medesimo fatto oggetto di sanzione penale, di una sanzione disciplinare che, per qualificazione giuridica, natura e grado di severità non può essere equiparata a quella penale, secondo l’interpretazione data dalla sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella causa “RAGIONE_SOCIALE” del 4 marzo 2014. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione dal delitto di cui all’art. 337 cod. pen., emessa, nei confronti di un detenuto, su presupposto che per il medesimo fatto gli fosse stata inflitta la sanzione disciplinare prevista dall’art. 39 I. 26 luglio 1975, n. 354)” (Sez.6. n. 1645 d 12/11/2019, dep. 16/01/2020, PG/Montella, Rv. 278099)
Ciò premesso, si deve rilevare come il primo motivo di ricorso è innanzitutto generico, non precisando quale tipo di sanzione disciplinare sia stata inflitta al ricorrente, rendendo così impossibile un raffronto tra sanzione disciplinare e sanzione penale; raffronto che sarebbe comunque impossibile secondo quanto osservato dalla Corte di appello, e cioè che la sanzione sarebbe stata inflitta per la ricezione del vaglia e non per la condotta tenuta nei confront della persona offesa, per cui non sussiste il presupposto del medesimo fatto che sarebbe stato posto a base delle due sanzioni
1.2 Quanto al secondo motivo di ricorso, si deve rilevare che riguardo alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, il collegio condivide la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibili
intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.
Peraltro questa Corte, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l’attendibilità estrinseca della testimonianza dell’offeso attraverso l individuazione di precisi riscontri, si esprime in termini di “opportunità” e non d “necessità”, lasciando al giudice dì merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo della attendibilità nel caso concreto; inoltr costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (ex plurimis Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, COGNOME, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, COGNOME, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, COGNOME, Rv.227493).
Contraddizioni che non si rinvengono nel caso in esame, nel quale la Corte di appello ha fornito congrua motivazione della attendibilità del racconto della persona offesa, evidenziando che le dichiarazioni di COGNOME erano riscontrate dalle lettere dei detenuti che lamentavano che l’imputato ed altri due connazionali compivano estorsioni nei confronti di altri detenuti, e dalle dichiarazioni dei detenuti citati alle pagine 10 e 11 della sentenza impugnata di analogo tenore, oltre al fatto che l’imputato ha ammesso di avere ricevuto la somma dalla persona offesa.
1.3 Sulla sussistenza della minaccia, la motivazione della Corte di appello, contenuta alle pagine 12 e 13 della sentenza, è congrua e coerente con le risultanze processuali, mettendo in evidenza non solo le “pressioni” di cui aveva parlato COGNOME, ma anche che era noto all’interno della struttura penitenziaria che COGNOME e i coimputati facevano uso di lamette per intimorire i detenuti più deboli o anziani, per cui si avvalevano “della forza di intimidazione che avevano acquisito in forza dei comportamenti prevaricatori nei confronti della restante popolazione carceraria”; è quindi evidente che sussisteva quella minaccia implicita, idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui opera.
1.4 Condizioni ambientali che sono state tenute giustamente presenti dalla Corte di appello per negare l’attenuante di cui all’art. 62 n.4 cod. pen., posto che la somma di C 200,00 non può essere considerata insignificante per una persona
ristretta in carcere, dipendente economicamente dalle somme inviate dai familiari; un conto, infatti, è valutare tale somma all’esterno, dove vi è un potere di acquisto molto più significativo, altro discorso è la valutazione della somma nell’ambiente carcerario, dove tale potere è estremamente ridotto in quanto posto in relazione a ciò che si può acquistare all’interno della struttura.
1.5 Infine, il fatto non può essere considerato “di lieve entità”, vista l gravità della condotta di NOME, espressione di un vero e proprio regime di terrore nel quale lui ed altri costringevano a vivere gli altri detenuti, culminato nel “richiesta” formulata alla persona offesa di scrivere una lettera (sotto dettatura di COGNOME e di altro detenuto) con la quale dichiarava che non vi era stata alcuna estorsione, in modo da consentire a COGNOME di rientrare nei circuiti ordinari.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di C 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti; il ricorrente deve inoltr essere condannato, in virtù del principio della soccombenza, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, ammessa al gratuito patrocinio, non sussistendo motivi per la compensazione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOME NOME ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Venezia con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt.82 e 83 D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso il 07/12/2023