Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 17909 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 17909 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli nei confronti di
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 05/09/1956
COGNOME NOMECOGNOME nato a Afragola il 16/05/1963
COGNOME NOMECOGNOME nato a Casoria il 12/03/1966
NOME NOMECOGNOME nato a Afragola il 14/01/1959
avverso la sentenza del 28/03/2024 della Corte di appello di Napoli
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME
COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori:
Avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’Avv. NOME COGNOME per la parte civile A.L.I.L.A.C.C.O. RAGIONE_SOCIALE che ha chiesto il rigetto dei ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME
Avv. NOME COGNOME e Avv. NOME COGNOME per COGNOME, che hanno chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale;
Avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME,
Avv. NOME COGNOME Procentese per Franzese NOMECOGNOME COGNOME NOME e COGNOME FilippoCOGNOME
Avv. COGNOME in sostituzione dell’Avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME e COGNOME FilippoCOGNOME che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza del 28 marzo 2024 la Corte di appello di Napoli, a seguito di appello – per quanto in questa sede di interesse – del Pubblico Ministero e degli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso la sentenza emessa il 15 aprile 2022 dal locale Tribunale:
ha rigettato l’appello del Pubblico Ministero avverso l’assoluzione di NOME COGNOME dal reato di cui al capo 1 (art. 416-bis cod. pen., con ruolo apicale) ascrittogli, in relazione al periodo temporale dal 2000 al 2010, per non aver commesso il fatto;
in riforma della decisione, ha assolto NOME COGNOME dal reato di cui al capo 1 (art. 416-bis, cod. pen., con ruolo apicale) ascrittogli, limitatamente al periodo temporale 2010-2013, per non aver commesso il fatto;
ha rideterminato la pena nei confronti di NOME COGNOME riconosciuto colpevole del reato sub 1)(art. 416-bis cod. pen. quale partecipe);
ha confermato la decisione nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME riconosciuti colpevoli del reato di cui al capo 1 (art. 416-bis, cod. pen. con ruolo apicale) loro ascritto e condannati a pena di giustizia.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli e gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il Procuratore generale, con il proprio atto, ricorre limitatamente al rigetto dell’appello del Procuratore della Repubblica nei confronti di COGNOME NOME e alla
assoluzione di questi dal reato di cui al capo 1 con riguardo al periodo 2010/2013, deducendo i seguenti motivi.
3.1. Con il primo motivo, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (artt. 416-bis cod. pen., 192, 195, 210 cod. proc. pen.) nonché inosservanza di norma processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità e inammissibilità nonché vizio cumulativo della motivazione.
La sentenza si è limitata a richiamare per relationem le argomentazioni difensive, ripetutamente dichiarando il proprio apprezzamento, e in maniera assertiva, ha ritenuto di:
a) negare qualsiasi valutazione, dichiarandolo apoditticamente “mentitore” all’apporto dichiarativo di NOME COGNOME, giudicato credibile non soltanto in decine di sentenze che in procedimenti diversi dal presente lo hanno ritenuto decisivo in quanto intrinsecamente attendibile ed intrinsecamente riscontrato, nel ruolo di storico “senatore” del clan COGNOME ed anche decisivo nel presente procedimento a carico dei coimputati del COGNOME, separatamente giudicati con rito abbreviato.
b) omettere di procedere ad una rielaborazione esaustiva del materiale probatorio esaminato dal giudice di primo grado, limitandosi a critiche generiche di dissenso;
c) omettere di confrontarsi con le dettagliate argomentazioni della sentenza di primo grado e con quelle offerte dal Pubblico ministero, richiamando “in bianco” le memorie della difesa.
Così procedendo, la sentenza non solo esclude la responsabilità del COGNOME ma giunge ad individuare un nuovo sodalizio criminoso di stampo mafioso, un nuovo clan COGNOME senza i membri della famiglia COGNOME, nel quale – tuttavia – sarebbe inserito, come capo e promotore, il cognato dei fratelli COGNOME, NOME COGNOME, di cui si conferma la condanna.
La Corte ha ripetutamente operato una non consentita e fuorviante atomizzazione e parcellizzazione delle fonti di prova per non aver dato esaustivo conto della convergenza delle dichiarazioni dei collaboranti, del riscontro offerto a tali dichiarazioni dalle intercettazioni nell’abitazione di NOME COGNOME, in carcere di NOME COGNOME, nell’abitazione di NOME COGNOME, del poliziotto NOME COGNOME; dell’ulteriore riscontro fornito dalla documentazione sequestrata relativa ai cc.dd. pizzini rinvenuti alla figlia di NOME COGNOME dopo il colloquio in carcer tra i due.
Nel rifiutare di valutare la decisiva funzione di riscontro di numerose intercettazioni rispetto a una dichiarazione di un propalante, ha affermato sbrigativamente la genericità del narrato, confondendo tale concetto con la necessità di individuarne i riscontri e senza considerare il consolidato giudizio di
attendibilità – salvo che per lo COGNOME – dei collaboranti, così pervenendo a del tutto illogiche conclusioni – indicate dal ricorrente (v. pg. 9 dell’atto di ricorso) difformità dai criteri ermeneutici espressi dalle richiamate sentenze di legittimità, escludendo la sovrapponibilità delle dichiarazioni senza considerare il diverso ruolo dei dichiaranti nel clan, la data delle stesse dichiarazioni, il loro possibi frazionamento (v. dich. COGNOME e COGNOME, del tutto eliminati dal compendio probatorio).
La Corte ha poi violato le regole di sussunzione in relazione agli elementi di fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., soprattutto per quanto riguarda la figura del capo e promotore, svalutando illegittimamente il poderoso compendio probatorio che dimostrava quanto NOME COGNOME fosse costantemente percepito e ritenuto capo dei sodali (v. pg. 12 dell’atto di ricorso), rifacendos immotivatamente alla versione difensiva secondo la quale egli fosse un capo “a sua insaputa” o, addirittura, contro la sua volontà.
Ha, inoltre, travisato il compendio probatorio che restituisce una struttura fortemente piramidale del clan COGNOME, nell’ambito del quale i vertici assoluti, tra i quali NOME COGNOME non erano mai a diretto contatto con i sottoposti attraverso una assoluta cautela comunicativa tenuta tramite fiduciari, rispetto alla quale la “dissociazione” e l’allontanamento da Afragola di NOME COGNOME erano, in realtà, strumenti per garantire la propria segretezza operativa.
In particolare, si deduce l’illogica svalutazione dei pizzini sequestrati solo per il COGNOME, non considerando la pregnanza del testo e il riferimento all’altro soggetto graficamente indicato, NOME COGNOME a lui collegato, stigmatizzandosi l’opposta valutazione dello stesso documento a base della assoluzione dello stesso imputato dal reato di calunnia, avallando una reazione del COGNOME senza considerare la abituale condotta simulatoria della sua estraneità al clan mafioso, deprivando la valenza criminale del contatto con il COGNOME, invece documentata da molte intercettazioni.
Si censura, inoltre, il circuito relazionale autodimostrativo, adottato dalla Corte, secondo il quale l’estraneità del COGNOME al clan è dimostrata dalla mancata prova della responsabilità dei “mediatori”, contemporaneamente alla affermazione che la mancata responsabilità di questi deriva dalla mancata responsabilità del terminale ultimo NOME COGNOME.
Contraddittoria è poi la dismissione della allegazione difensiva secondo la quale il soggetto “a 200 Km” era il Senese con l’affermazione, in sede di valutazione delle dichiarazioni di NOME COGNOME secondo la quale da Roma il clan era comandato dal COGNOME e non dal COGNOME.
Quanto alla valutazione delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME, completamente erronea è la valutazione della irrilevanza in quanto
ferme al 2007, dovendosi valutarle rispetto al reato permanente in contestazione e non dipendendo la valutazione dalla assoluzione del COGNOME per l’omicidio Natale, essendo contraddittorio affermare che il collaboratore non attribuiva ordini specifici al COGNOME, allorché poco prima si era fatto riferimento al mandato omicidiario ai danni del COGNOME.
Quanto alla valutazione delle dichiarazioni di NOME COGNOME, non solo non è considerato il suo spessore criminale di appartenente al clan COGNOME fino al 2011, ma neanche tutte quelle dichiarazioni che fanno capo al ruolo di capo clan del COGNOME, limitando l’esame alla sola vicenda del tentativo di corruzione del predetto collaboratore di giustizia per farlo ritrattare, di cui è accertata sussistenza, però del tutto illogicamente svalutandola rispetto allo stesso NOME COGNOME.
Quanto alla valutazione delle dichiarazioni di NOME COGNOME, esse sono sottratte al quadro probatorio complessivo sia rispetto alle dichiarazioni del fratello NOME che al comune giubilo per la scarcerazione dell’associato NOME COGNOME.
Quanto a quella delle dichiarazioni di NOME COGNOME, la sbrigativa valutazione di genericità e ininfluenza, elide illegittimamente la valenza del mandato omicidiario da parte dell’imputato e i suoi contatti con affiliati di rango del cla COGNOME, COGNOME e COGNOME, avallando ingiustificatamente la versione difensiva della esistenza di piccoli gruppi che millantavano il legame con i COGNOME.
Quanto alla valutazione delle dichiarazioni di NOME COGNOME nessuna considerazione vi è del suo spessore criminale in ragione della sua partecipazione al clan fino al 2011 con qualifica direttiva, erronea la affermazione secondo la quale egli non si incontrava con i “senatori”, immotivata quella secondo la quale egli si riferisce a “vicende non qualificanti dal punto di vista criminoso”. Ancora, distonica rispetto al quadro complessivo è la decisività della incensuratezza dei c.d. tramiti, risultando dalla prima sentenza e dall’appello del P.M. la contraria propensione a ciò del clan.
Quanto a NOME COGNOME, si censura – innanzitutto – la mancata rinnovazione istruttoria richiesta dal Pubblico Ministero sulla base di ragioni in fatto contrastanti con la sentenza di condanna dello stesso COGNOME e con altri accertamenti definitivi, oltre che con il rinvenimento di ulteriori fonti probatori (pizzini, intercettazioni, dichiarazioni).
Inoltre, il giudizio di “contraddittorietà temporale” risulta frutto di travisamento della prova e, comunque, di una errata valutazione di inattendibilità per la sola natura de relato della dichiarazione.
Immotivato è il giudizio di falsità delle dichiarazioni e della natura inquinata delle stesse, in contrasto con la condanna del propalante e quelle degli altri accoliti sulla base delle sue dichiarazioni, violandosi – per il dichiarato rifiuto di individua
riscontri esterni – i canoni ermeneutici posti dagli artt. 191, 192 e 195 cod. proc. pen. ed affermandosi apoditticamente la esistenza di ragioni di astio del propalante nei confronti del COGNOME.
3.2. Con il secondo motivo, inosservanza degli artt. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. in quanto la rinnovazione della prova richiesta (escussione di NOME COGNOME) e omessa è stata di fatto decisiva per la decisione di ribaltamento della condanna in primo grado per il periodo 2011/2013 e di conferma dell’assoluzione per il periodo 2000/2010.
3.3. Con il terzo motivo, inosservanza degli artt. 591 e 593 cod. proc. pen. in relazione alla ritenuta “inammissibilità sostanziale” dell’appello del Pubblico Ministero, avendo l’appello – invece – considerato tutte le statuizioni della prima sentenza per confutarle, senza che la Corte di appello lo abbia effettivamente considerato. A dimostrazione dell’assunto, si riportano brani dell’atto relativo alla confutazione della ritenuta inattendibilità di NOME COGNOME.
Nell’interesse di NOME COGNOME con atto per Avv. NOME COGNOME si deducono i seguenti motivi.
4.1. Con il primo motivo, vizio della motivazione e violazione del ne bis in idem in relazione alla ritenuta legittimità dell’azione penale in relazione alla imputazione di cui al capo 1 relativamente al periodo 2010-febbraio 2015 con riferimento alla sovrapponibilità della condotta contestata con quella oggetto del procedimento n. 65092/2004 R.G.N.R., definito con sentenza emessa il 9 marzo 2016 dal Tribunale di Napoli, fino al 4 febbraio 2015.
Il giudice di appello ha travisato la pertinente deduzione difensiva e l'”invito” del Giudice di legittimità, il quale riteneva precluso un accertamento di responsabilità del ricorrente per sovrapponibilità delle condotte contestate, almeno fino al 4 febbraio 2015, data in cui veniva modificata e chiusa l’originaria contestazione “aperta” nel predetto procedimento – definendola a tutto il 2010 – , pur essendo il Pubblico Ministero in possesso delle intercettazioni risalenti al 2012 e dei “pizzini” che il giudice di appello, invece, utilizza proprio per attualizzare condotta del ricorrente.
La questione era stata sottoposta alla Corte di cassazione, a seguito della ordinanza cautelare emessa il 5.1.2018 a carico di COGNOME con riferimento alla sua posizione apicale nel clan COGNOME per il periodo dal 2011 alla metà del 2015, in relazione alla contestazione mossa nell’attuale procedimento.
Ebbene, la considerazione espressa dalla Corte di cassazione di una “sovrapponibilità delle condotte fino al febbraio 2015” e il rilievo che la nuova contestazione cautelare per partecipazione fino alla metà del 2015, non poteva dar luogo alla consumazione del potere cautelare, avrebbe dovuto condurre la Corte di appello ad espungere dalla valutazione della prova tutti gli elementi a
carico del Favella con riguardo al periodo antecedente al 4.2.2015 e, in riforma della sentenza impugnata, determinare una pronuncia per il periodo di non luogo a procedere perché l’azione penale non poteva essere esercitata per effetto della preclusione processuale e, comunque, assolvere lo stesso, in quanto formula più favorevole, per non aver commesso il fatto.
4.2. Con il secondo motivo mancanza e manifesta illogicità della motivazione e violazione degli artt. 111 Cost., 125, 546 e 598 cod. proc. pen. in relazione alla affermazione di responsabilità.
La Corte di appello manca, in modo evidente, di qualsivoglia richiamo alle doglianze difensive, se non per definirle genericamente “non idonee a scardinare un così granitico quadro probatorio”, posto che le stesse non rappresentavano mera riproposizione di questioni di fatto già esaminate e risolte dal primo Giudice.
In particolare, la difesa evidenziava non solo che la pregnanza probatoria dei contenuti dei “pizzini” dovesse essere ridimensionata e una estrema genericità del narrato di NOME COGNOME, ma veniva evidenziata l’irrilevanza delle intercettazioni in atti, richiamando le pertinenti deduzioni in appello, con le quali la Corte non si è confrontata.
4.3. Con il terzo motivo violazione di legge penale e vizio della motivazione in relazione alla denegata rideterminazione del minimo aumento per il riconosciuto vincolo della continuazione tra i fatti per i quali è processo e quelli della sentenza “COGNOME ed altri” del 9.3.2016, non essendo considerato – per quanto detto nel precedente motivo – l’avvenuto giudicato fino al febbraio 2015 e della contestazione delimitata alla metà dello stesso anno in questo processo.
Nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME con unico atto per Avv. NOME COGNOME si deducono i seguenti motivi.
5.1. Con il primo motivo violazione di legge penale in relazione alla determinazione della pena inflitta al Franzese individuata attraverso il minimo edittale di anni 10 di reclusione introdotto solo con la legge n. 69/2015, trattandosi di condotta circoscritta all’arco temporale 2010-metà 2015, dovendosi – invece considerare il minore minimo edittale di anni sette di reclusione.
5.2. Con il secondo motivo, in relazione alla affermazione di responsabilità di COGNOME, violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. e omessa motivazione in relazione alle censure difensive in appello in ordine all’asserito “elemento di novità” costituito dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME
La sentenza impugnata, rispetto alla precedente condanna irrevocabile del COGNOME in relazione al periodo precedente 2004/2010, conferisce rilievo dirimente a carico del ricorrente dei “pizzini”, facendo sovrapporre gli elementi probatori della prima sentenza con quelli dell’attuale processo, non corrispondendo al vero l’assunto della sentenza di primo grado, richiamata dalla sentenza impugnata, che
i “pizzini” non erano già nella disponibilità dei Giudici del processo “COGNOME Giovanni ed altri” emessa il 9 marzo 2016 dal Tribunale di Napoli, essendo stati ampiamente esaminati e posti a base della predetta sentenza di condanna.
Inoltre, la sentenza impugnata indica quale secondo elemento di novità, dotato di efficacia dimostrativa della nuova contestazione, il contributo dichiarativo del collaboratore di giustizia NOME COGNOME rispetto al quale la Corte si è sottratta al confronto con le deduzioni difensive circa la sua attendibilità soggettiva e alla credibilità del dichiarato.
Cosicché risulta infondata la pretesa esistenza di elementi nuovi a sostegno della nuova e successiva contestazione associativa, rispetto alla condanna divenuta definitiva.
5.3. Con il terzo motivo violazione di legge penale per omessa specificazione della disciplina sanzionatoria applicata, tenuto conto della delimitazione temporale dell’accusa, e vizio della motivazione in relazione all’aumento di pena operato, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., a titolo di continuazione esterna per il Favella.
Nell’interesse di NOME COGNOME con atto per Avv. NOME COGNOME si deduce con unico motivo violazione di legge penale in relazione alla determinazione della pena individuata attraverso il minimo edittale di anni 10 di reclusione introdotto solo con la legge n. 69/2015, avendo il primo giudice delimitato la condotta criminosa secondo il previgente paradigma temporale.
Nell’interesse di NOME COGNOME si deducono i seguenti motivi.
7.1. Con il primo motivo si propone la deduzione di cui al primo motivo del ricorso di Favella.
7.2. Con il secondo motivo vizio cumulativo della motivazione e violazione degli artt. 111 Cost., 125, 546 e 598 cod. proc. pen. in relazione alla affermazione di responsabilità.
La Corte di appello manca, in modo evidente, di qualsivoglia richiamo alle doglianze difensive, anche solo per disattenderle.
In particolare, il riferimento – in relazione al ruolo apicale del ricorrente – a COGNOME del COGNOME è frutto di una evidente svista non riguardando l’attuale ricorrente; né riguardano il ricorrente le intercettazioni presso l’abitazione di Modestino COGNOME.
La difesa aveva evidenziato non solo l’estrema genericità del narrato di NOME COGNOME ma anche la mancanza di altri elementi in cui trovare conforto e l’irrilevanza delle intercettazioni.
A tal proposito si richiamano i rilievi difensivi trascurati dal Giudice di appello e prima ancora dal Tribunale (v. pg. 24 e ss. del ricorso).
7.3. Con il terzo motivo violazione di legge penale e vizio della motivazione in relazione alla denegata rideterminazione del minimo aumento per il riconosciuto vincolo della continuazione tra i fatti per i quali è processo e quelli della sentenza “COGNOME ed altri” del 9.3.2016, non essendo considerato – per quanto detto nel precedente motivo – l’avvenuto giudicato fino al febbraio 2015 e della contestazione delimitata alla metà dello stesso anno in questo processo.
Il P.G. ha depositato memoria scritta a sostegno del rigetto di tutti i ricorsi.
Sono pervenute conclusioni scritte della parte civile Comune di Crispano.
I difensori di NOME COGNOME hanno depositato due distinte memorie a sostegno della inammissibilità del ricorso del Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del Procuratore generale è inammissibile.
1.1. Il primo e terzo motivo di ricorso possono essere congiuntamente valutati, dovendosene rilevare la inammissibilità, purtuttavia secondo distinte ragioni rispetto alle due diverse decisioni impugnate, riguardanti condotte associative nei distinti periodi dal 2000 al 2010, rispetto alle quali vi è stata una doppia conforme assoluzione, e dal 2010 al 2013, rispetto alle quali è stata riformata in senso assolutorio la prima decisione di condanna.
1.2. La sentenza impugnata, al di là dei rilevati profili di inammissibilità, ha rigettato l’appello del P.M. nei confronti dell’assoluzione di NOME COGNOME in relazione al reato di cui al capo 1, limitatamente al periodo 2000-2010, coincidente con la sua detenzione, (v. pg. 24 e ss.) censurando il sostanziale rinvio dell’appellante alle ragioni della requisitoria con minima considerazione delle ragioni poste a base dal Tribunale e sollecitando la rivalutazione di elementi probatori posti a base della sentenza di condanna per il periodo 2010-2013, che la stessa Corte ha ritenuto di valutare in modo diverso (pervenendo alla assoluzione, per questa parte, del COGNOME).
La Corte, peraltro, rileva la evidente lacuna della motivazione assolutoria proveniente dalla limitata considerazione dei periodi detentivi del COGNOME e dalla successione al vertice del clan di numerosi personaggi, individuando in tale lacuna la necessità dell’appellante di riproporre tutto il compendio probatorio a fondamento della impugnazione. Di qui la necessità, per la Corte di appello, di analisi delle singole fonti di prova, che designa l’aspecificità del terzo motivo di ricorso.
Quanto alle propalazioni dei collaboratori di giustizia, dopo una generale considerazione circa la prevalente genericità delle dichiarazioni nei confronti del COGNOME, la Corte di appello segnala la poco agevole loro valutazione in ragione delle opposte conclusioni alle quali è pervenuto lo stesso Tribunale che ha considerato il COGNOME non partecipe alla associazione per dieci anni e partecipe per i successivi tre anni, allorché egli era allontanato dal territorio e sottoposto alla sorveglianza speciale nel Lazio.
La sentenza procede, poi, ad esaminare il contributo dichiarativo di ciascun collaboratore di giustizia (COGNOME – pg. 32 e ss. -, COGNOME – pg. 40 e ss., COGNOME – pg. 42 e ss., COGNOME – pg. 43 e ss., COGNOME – pg. 47 e ss., COGNOME Marcello – pg. 48 e ss., COGNOME Domenico COGNOME – pg. 58 e ss., COGNOME – pg. 60 e ss., COGNOME – pg. 61 e ss., COGNOME – pg. 63 e ss.); esamina le intercettazioni e i controlli sul territorio (v. pg. 69 e ss.); esamina i c.d. “pizzini” di NOME COGNOME (v. pg.8 e ss.) e, infine, vengono esaminati i rapporti tra il COGNOME e gli appartenenti al clan (v. pg.86 e ss.).
La conclusione di quella che si palesa come una analitica e completa disamina del compendio probatorio (v. pg. 99, ibidem) è quella della sua fragilità intrinseca con la sostanziale non conciliabilità degli esiti investigativi veicolati in giudizio ritenersi oggettivamente dissonanti tra loro o addirittura ambivalenti, così da pervenire alla riforma assolutoria.
1.3. Le censure mosse dal ricorrente riguardano indistintamente la doppia conforme assoluzione del COGNOME e la riforma della prima assoluzione, senza considerare i diversi limiti impugnatori previsti per le due ipotesi.
Quanto alla doppia conforme assoluzione, da un lato, osta alla deduzione del vizio di motivazione il disposto dell’art. 608, comma 1-bis, cod. proc. pen., dall’altro, dovendosi escludere da quello ammesso ai sensi dell’art. 606 lett. c) cod. proc. pen. la dedotta violazione degli artt. 192, 195 e 210 cod. proc. pen. in quanto in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limit all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) d lla medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità(Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 04).
Cosicché esulano dalle ipotesi ammesse dall’art. 608, comma 1-bis, cod. proc. pen. tutte le censure articolate dal ricorrente aventi ad oggetto la valutazione del compendio probatorio (dichiarativo, captativo e documentale) che avanzano
insufficienze e contraddittorietà della motivazione a riguardo, che non possono essere valorizzate neanche ai fini della residua dedotta violazione dell’art. 416-bis cod. pen. – segnatamente con riguardo alla dedotta disapplicazione degli elementi della fattispecie con riferimento al ruolo apicale – in quanto, secondo il ricorrente, il Giudice di appello avrebbe omesso di collocare il dato probatorio acquisito all’interno degli elementi tipici della fattispecie: censura del ricorso che, in realt maschera il dissenso valutativo sulla prova, posto che – secondo la sentenza impugnata – è proprio la mancanza del dato probatorio a sostanziare la pronuncia liberatoria.
In conclusione, per questa parte, si palesa la inammissibilità del ricorso proposto dal Procuratore generale. 1.4. Quanto al ricorso avverso la riforma in chiave assolutoria della prima decisione di condanna del COGNOME limitatamente al periodo 2010/2013, le censure mosse dal ricorrente si collocano nell’ambito di un inaccessibile quadro di rivalutazione probatoria, dovendosi ribadire lo jus receptum secondo il quale eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti ne compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal test impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Conf.: Sez. 6, n. 5334 del 1993, Rv. 194203-01)(Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556). Invero, manca nel ricorso proposto dal Procuratore generale quel necessario raffronto comparativo delle decisioni di segno opposto, volto ad evidenziare le ragioni in forza delle quali la sentenza d’appello, per manifesta illogicità, per travisamento del dato probatorio o per aver tralasciato aspetti valutativi decisivi della statuizione del primo giudice, non sia idonea a scalfire il giudizio di responsabilità già reso (Sez. 6, n. 4000 del 13/12/2023, dep. 2024, P., Rv. 286201 – 01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.5. Incensurabile è la valutazione delle singole dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, priva di vizi logici e giuridici.
La sentenza impugnata si è conformata al principio di legittimità secondo il quale nel valutare le dichiarazioni dei collaboranti di giustizia il giudice di merit non può integrare con proprie congetture eventuali vuoti nelle propalazioni di accusa, ma gli è concesso interpretare quelle dichiarazioni, coordinandole in
ragione della particolare prospettiva del dichiarante che attribuisce a quel narrato un significato particolare; ne consegue, che nella verifica di contrasti rilevabili nell diverse rappresentazioni dei fatti, la valutazione non può essere asettica e passiva, impegnando, invece, necessariamente, coscienza, sensibilità e cultura del giudice, le cui argomentazioni, in sede di legittimità, possono essere sottoposte solo ad un controllo esteriore e non sostitutivo, di mera ragionevolezza e plausibilità. (Sez. 6, n. 35034 del 18/05/2005, Lo, Rv. 232573 – 01); nonché a quello secondo il quale la dichiarazione accusatoria de relato, resa da un collaboratore di giustizia, può integrare la prova della colpevolezza solo se è sorretta da adeguati riscontri estrinseci che – a differenza di quanto è richiesto per la chiamata in correità devono riguardare specificatamente il fatto che forma oggetto dell’accusa e la persona dell’incolpato, in quanto il minore tasso di affidabilità di una dichiarazione resa su accadimenti non direttamente percepiti dal dichiarante rende necessaria l’individualizzazione del riscontro. (Sez. 1, n. 17804 del 07/12/2001, dep. 2002, COGNOME, Rv. 221695 – 01)
Quanto al censurato “rifiuto” della Corte di individuare riscontri a quelle dichiarazioni segnate da genericità, deve essere ribadito il principio, affermato in sede cautelare, ma a maggior ragione valevole in sede dibattimentale, secondo il quale le dichiarazioni provenienti dai collaboratori di giustizia possono fornire un adeguato supporto indiziario anche quando siano riscontrate esclusivamente attraverso l’incrocio di dichiarazioni provenienti da soggetti diversi, tuttavia è necessario che i fatti riferiti abbiano almeno potenzialmente una qualche idoneità probatoria e che tali dichiarazioni siano sufficientemente precise e definite da prestarsi alla conferma o alla smentita(Sez. 6, n. 662 del 14/02/1997, COGNOME, Rv. 208123 – 01), cosicché deve ritenersi del tutto appropriato l’approccio della sentenza impugnata alle dichiarazioni genericamente connotate e, per questo, inidonee a consentire un successivo approfondimento alla ricerca di riscontri che, ovviamente, non può essere invocata per superare la genericità delle propalazioni.
Quanto alle dichiarazioni di NOME COGNOME, generica è la censura che si appunta sul rilievo della loro risalenza temporale al 2007 rispetto, invece, alla complessiva analisi condotta dalla sentenza in ordine alla natura delle dichiarazioni – dirette solo per un breve periodo, risultando de relato per il periodo della sua carcerazione – e, soprattutto, per la mancanza di specifici episodi criminosi riconducibili al COGNOME, come pure per la mancanza di conoscenza da parte sua del contenuto di qualcuna delle “imbasciate” che potessero dirsi sintomatiche di una persistente adesione del predetto al sodalizio, con confermato ruolo di vertice. A tal riguardo, risulta palesemente generico il riferimento al mandato per l’omicidio NOME, avendo la sentenza annotato la smentita proveniente dalla assoluzione del COGNOME per tale delitto.
Quanto alle dichiarazioni di NOME COGNOME, parimenti generica è la censura sullo spessore criminale del propalante e sul contenuto delle sue dichiarazioni che attingono direttamente NOME COGNOME rispetto alla censurata assoluta genericità e decontestualizzazione di queste ultime; come pure del tutto generica è la censura sulla valutazione dell’episodio corruttivo al quale la sentenza, cogliendone la valenza, conduce un’approfondita valutazione che, senza incorrere in vizi logici e giuridici, conduce alla irrilevanza rispetto al tema partecipativ ascritto a NOME COGNOME.
Quanto, ancora, alle dichiarazioni di NOME COGNOME Domenico – estraneo al clan COGNOME – generica è la dedotta sottrazione di queste al compendio probatorio non considerandosi lo specifico giudizio di mancanza di effettivi apporti, tenuto conto della co-detenzione con il COGNOME nel 2007, segnatamente con riguardo al periodo dal 2000 al 2010, limitati alla magnificazione da parte del COGNOME del ruolo del fratello NOME nel clan e alla manifestata soddisfazione per la scarcerazione del COGNOME – non potendosi, ovviamente, dare accesso alla censura laddove esprime dissenso rispetto a tali non illogiche valutazioni.
Ancora, quanto alle dichiarazioni di NOME COGNOME, genericamente volta alla loro rivalutazione è la censura mossa dal ricorrente, rispetto alla affermata assoluta genericità, anzi inconsistenza, delle dichiarazioni de relato, tale per cui il riscontro invocato risulterebbe unica fonte a carico.
Quanto a quelle di NOME COGNOME, parimenti generiche e in fatto sono le censure del ricorrente pubblico. La Corte, facendosi carico del contraddittorio realizzatosi su tali dichiarazioni tra l’accusa e la difesa, dopo aver evidenziato gli specifici apporti dichiarativi, segnala che il giudizio di attendibilità espresso da Tribunale non ha consentito andare oltre – per il periodo 2000/2010 – la decisione assolutoria per la quale l’appello del PM non aveva apportato doglianze dirimenti ed annota che le dichiarazioni di COGNOME in cui questi menziona espressamente NOME COGNOME non solo deve fare i conti con i periodi di detenzione di questi, ma richiamano, evidentemente, vicende non qualificate sul piano criminoso, rimanendo approssimative e prive di riscontri quelle che ne attualizzano il contributo, evocando riunioni romane con la partecipazione del COGNOME, soggetto incensurato di cui parla solo COGNOME e l’inattendibile COGNOME.
Del resto, l’assunto accusatorio, riproposto dal ricorrente in chiave interpretativa, secondo il quale il COGNOME abbia proceduto ad una strategia di inabissamento, si scontra con l’argomentato articolato giudizio espresso dalla sentenza impugnata secondo il quale l’assunto rimane indimostrato (v. pg. 72 e sg. della sentenza) in mancanza di informazioni decisive sugli incontri romani del COGNOME e della prova dell’uso di intermediari per svolgere il presunto suo ruolo apicale, non illogicamente essendo considerato che due di essi, NOME COGNOME
e NOME COGNOME sono stati assolti sin dal primo grado dalla accusa associativa nel presente procedimento.
Infine, quanto alle censure riguardanti le dichiarazioni di NOME COGNOME, a parte la questione in ordine alla mancata rinnovazione istruttoria di cui appresso 4i tratterà in relazione allo specifico motivo di ricorso, generico è l’asserit contrasto delle ragioni in fatto per le quali la rinnovazione è stata negata dalla Corte di appello che ha stigmatizzato l’assenza, nella richiesta di “eventuale” riassunzione delle dichiarazioni dello COGNOME, senza alcun riferimento a NOME COGNOME (v. ordinanza del 16/11/2023, riportata a pg. 33 della sentenza impugnata). Quanto, poi, alla loro valutazione manifestamente infondato è il loro travisamento e genericamente volta in fatto la censura di erroneità in base alla natura de relato.
Invero, la Corte di appello, nel confermare il medesimo giudizio di inattendibilità del propalante espresso dal Tribunale, ha evidenziato sia la mancanza di specificità per i fatti più recenti oggetto del procedimento sia quella di qualificazione – per il definitivo allontanamento dal sodalizio e per le menzogne e falsità narrative indicate in cui reiteratamente incorreva (v. pg. 35 e ss. della sentenza impugnata), designandosi la sua inaffidabilità in quanto una parte delle sue propalazioni facevano riferimento a conoscenze de relato assertivamente affermate e risultando traccia di un suo inquinamento del sapere nel precisare fatti e vicende databili oltre l’anno 2000, senza esserne perfettamente a conoscenza, risultando a quella data un “senatore” a riposo. Come pure, la puntuale verifica della indicazione proposta dal PM appellante di elementi probatori nuovi, consistenti in intercettazioni, in grado di valorizzare la credibilità del propalante verifica naufragata nella acclarata assoluta falsità dell’assunto secondo il quale lo COGNOME sarebbe stato autorizzato da NOME COGNOME alla gestione delle attività estorsive (v. pg. 36 e ss., ibidem), facendo emergere la evidente tendenza al mendacio e forti motivi di astio e rancore dello stesso propalante nei confronti del COGNOME. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Cosicché, sul punto, incensurabile è il giudizio di genericità dello stesso appello del Pubblico Ministero e l’invocazione da parte del ricorrente – per le ragioni in diritto già ricordate – della mancata ricerca di riscontri esterni.
1.6. Generico è il riferimento alla valenza probatoria delle conversazioni intercettate, rispetto alla cui valutazione il ricorrente non spende articolate censure avverso la già richiamata valutazione della sentenza impugnata a riguardo degli incontri romani del Moccia. Come pure con riguardo alle captazioni poste a sostegno dei presunti rapporti tra il COGNOME e gli appartenenti al clan (NOME, COGNOME e COGNOME) la cui valenza, invece, è motivatamente disattesa dalla Corte di
appello attraverso una analisi delle conversazioni priva di vizi logici e giuridici senza che il ricorrente pubblico si confronti con le opposte ragioni esposte.
1.7. Infine, non è illogica la valutazione espressa dalla Corte della non dirimenza, a carico del COGNOME, del contenuto del pizzino proveniente dal COGNOME: sia in relazione alla assenza di indici sull’accoglimento della indicazione di questi di accettare i consigli del COGNOME, sia rispetto alla reazione violenta dello stesso COGNOME alla notizia del rinvenimento del pizzino con tale indicazione a lui riferita. Anche per questo aspetto generica è la censura della sua illogica svalutazione, senza alcun confronto con l’argomentato percorso valutativo condotto dalla sentenza impugnata (v. pg. 82 e ss. della sentenza impugnata).
Il secondo motivo è manifestamente infondato e genericamente proposto, rispetto al corretto rigetto della istanza di rinnovazione istruttoria. La novell legislativa dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. introdotta con Divo 150/2022 ha limitato la rinnovazione istruttoria ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado. Tale disposizione va letta alla luce del dettato dell’art. 190-bis c.p.p. secondo cui la prova dichiarativa costituita dall’esame del collaboratore di giustizia è assunta nel contraddittorio solo su fatti e circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti ex art. 238 c.p.p., pienamente utilizzabili ai fini della decisione in quanto il P.M. non ha indicato le ragioni circa decisività dell’audizione del collaboratore COGNOME COGNOME (pagg.32 – 39 della sentenza impugnata).
Né la rinnovazione istruttoria invocata è implicata dal ribaltamento assolutorio della prima condanna, in costanza dell’autorevole orientamento secondo il quale il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272430 – 01), in presenza – per quanto sopra già detto – della adeguata e completa motivazione data dalla sentenza di appello sull’esito assolutorio al quale si è pervenuto.
Il ricorso di NOME COGNOME (per atti degli Avv.ti COGNOME e COGNOME) è complessivamente infondato e deve essere respinto.
3.1. Il primo motivo dell’atto per Avv. COGNOME e il secondo motivo dell’atto per Avv. Procentese, che possono essere congiuntamente trattati in quanto sovrapponibili, sono infondati.
3.1.1. La Corte di appello ha rigettato la deduzione difensiva della violazione del ne bis in idem rispetto alla precedente condanna del COGNOME per il medesimo reato associativo come temporalmente delimitato in quel processo, a seguito di precisazione del tempus commissi delicti da parte del Pubblico Ministero, all’udienza del 4 febbraio 2015, “fino al dicembre 2010” – rispetto alla originaria contestazione “aperta” – deducendo la sovrapponibilità delle due accuse fino alla data del 4 febbraio 2015 e facendo leva sugli argomenti della decisione resa, in sede cautelare, da Sez. 6, n. 51803 del 17/10/2018, Iazzetta.
La ragione del rigetto – secondo la Corte di appello – si fonda, a prescindere dalla non sovrapponibilità sul piano formale delle due contestazioni, sulla sopravvenienza, rispetto alla precedente decisione, di elementi probatori nuovi e significativi dopo il 2011 (v. pg. 109 e sg. della sentenza) in precedenza non scrutinati, costituiti da compendio dichiarativo (dichiarazioni di COGNOME e COGNOME), dati captativi e rinvenimenti documentali (c.d. pizzini).
3.1.2. E’ incontroverso che l’azione penale nei confronti del ricorrente in ordine alla fattispecie associativa oggetto del presente processo, riguardante il periodo temporale dal 2011 a metà del 2015, è stata esercitata dopo la rideterminazione da parte del Pubblico ministero nel corso del dibattimento del precedente processo del tempus commissi delicti a tutto il 2010 recepita nella decisione di quel giudice della cognizione, risultando la condanna passata in giudicato al momento del giudizio di primo grado del presente processo.
3.1.3. La questione del frazionamento processuale del reato permanente e dei suoi rapporti con il principio del ne bis in idem è stata oggetto dell’autorevole intervento della Corte costituzionale che con la sentenza n. 53 del 8 marzo 2018 – con riferimento anche proprio al reato associativo mafioso – ha esaminato le relazioni dei profili di diritto sostanziale e processuale, delineando il quadro sistematico all’interno del quale risolvere la questione oggi posta.
L’incipit della autorevole decisione indica la «tematica complessa e spigolosa: la difficoltà di coniugare la configurazione teorica del reato permanente, come reato unico a consumazione prolungata nel tempo, con una realtà giudiziaria che conosce ampiamente – e spesso “esige” – giudizi di cognizione frazionati su singoli segmenti temporali della condotta illecita» ricordando che «in qual modo il principio del ne bis in idem interagisca con i reati permanenti è uno degli interrogativi “storici” generati da tale categoria di reati». Esaminando, poi, le due diverse modalità di contestazione del reato permanente – quella secondo la contestazione “aperta” e quella secondo la contestazione “chiusa” – la Corte delle leggi ha affermato che «lo sbarramento del ne bis in idem opera, nel caso di contestazione di tipo “chiuso”, con riguardo alla condotta posta in essere nel periodo indicato nel capo di imputazione (Corte di cassazione, sezione seconda
penale, sentenza 20 aprile-19 maggio 2016, n. 20798; sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479), salvo, s’intende, che sia intervenuta una contestazione suppletiva; nel caso di contestazione di tipo “aperto”, in rapporto alla condotta realizzata dalla data iniziale indicata nel capo di imputazione a quella della pronuncia della sentenza di primo grado (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 22 marzo-14 giugno 2012, n. 23695; sezione sesta penale, sentenza 4 ottobre-29 novembre 2000, n. 12302). Le conclusioni giurisprudenziali ora ricordate rispondono ad esigenze pratiche evidenti e difficilmente eludibili. Per quanto attiene alla ritenuta possibilità di procedere pe la condotta successiva alla sentenza di primo grado, è palese che, se così non fosse, detta sentenza si tradurrebbe in un inaccettabile “salvacondotto” per chi intenda continuare a violare la legge penale. E ciò quantunque si discuta di condotta che non avrebbe potuto in nessun caso essere giudicata nel processo già definito. Quanto, poi, alla possibilità di procedere per la condotta successiva alla data finale della contestazione “chiusa”, ancorché anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado (condotta che pure, in linea teorica, avrebbe potuto essere giudicata con tale sentenza, ove il pubblico ministero avesse proceduto a una contestazione suppletiva), si reputa egualmente illogico che il reo possa godere di una “franchigia penale” riguardo alla perdurante condotta illecita per il mero fatto che l’accertamento giudiziario abbia riguardato solo un segmento temporale del reato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479). Come già accennato, la frammentazione delle iniziative giudiziali nell’ipotesi considerata può dipendere – e solitamente dipende – dal fatto che il pubblico ministero ha acquisito in tempi diversi la prova della responsabilità dell’agente con riguardo ai singoli segmenti temporali». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La Corte costituzionale ha poi esaminato «il fenomeno della cosiddetta interruzione giudiziale della permanenza: ossia l’indirizzo giurisprudenziale, ampiamente consolidato, secondo il quale la permanenza può cessare, oltre che per cause “naturalistiche” – l’esaurirsi della condotta tipica – anche per cause giudiziarie, connesse alle modalità di accertamento dell’illecito, che frantumano l’unità del reato permanente, facendo sì che la protrazione successiva della condotta integri un reato distinto e autonomo, pur se omologo.», considerando che «l’istituto dell’interruzione giudiziale della permanenza è stato elaborato, sin da tempi remoti, dalla giurisprudenza in precipuo collegamento con la problematica cui si è fatto riferimento in precedenza: ossia proprio al fine di giustificare, sul piano teorico, la possibilità di giudicare in modo separato singoli segmenti temporali del reato permanente senza incorrere nella violazione del divieto di bis in idem, evitando effetti di “immunità penale”. In questa ottica, è del tutto logico che le meccaniche operative del fenomeno dell’interruzione giudiziale
vadano di pari passo con quelle del ne bis in idem, rimanendo perciò collegate alle modalità di formulazione (“chiusa” o “aperta”) dell’ accusa. Sarebbe, del resto, singolare, se non anche contraddittorio, che un segmento del reato permanente debba essere considerato fatto diverso e autonomo, ai fini dell’esclusione dell’operatività del ne bis in idem, malgrado il principio di unitarietà di tale categoria di reati, e, al contrario, porzione del fatto già giudicato – in no di quello stesso principio – quando si tratti di stabilire se si sia al cospetto di reato unico o di una pluralità di reati. Se si riconosce alle modalità dell’accertamento giudiziario (fattore di tipo processuale) la capacità di frantumare l’unità sostanziale del reato permanente – in risposta alle esigenze pratiche cui si è fatto cenno, giudicate ineludibili – ciò non può non valere su entrambi i versanti».
3.1.4. In sede di legittimità è stato autorevolmente stabilito che non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. La non procedibilità consegue alla preclusione determinata dalla consumazione del potere già esercitato dal P.M., ma riguarda solo le situazioni di litispendenza relative a procedimenti pendenti avanti a giudici egualmente competenti e non produttive di una stasi del rapporto processuale, come tali non regolate dalle disposizioni sui conflitti positivi di competenza, che restano invece applicabili alle ipotesi di duplicazione del processo innanzi a giudici di diverse sedi giudiziarie, uno dei quali è incompetente. (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, COGNOME, Rv. 231800).
Nella stessa autorevole sede è stato contestualmente affermato che, ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, COGNOME, Rv. 231799), cosicché la «identità del fatto», che rileva ai fini dell’operatività del principio del “ne bis in idem”, non sussiste con riguardo ad uno stesso reato permanente contestato in relazione a periodi diversi (Sez. 2, n. 33838 del 12/07/2011, COGNOME, Rv. 250592) e il divieto di un secondo giudizio riguarda la condotta delineata nell’imputazione ed accertata con sentenza, di condanna o di assoluzione, divenuta irrevocabile e non anche la prosecuzione della stessa condotta o la sua ripresa in epoca successiva, giacché si tratta di “fatto storico” diverso non coperto dal giudicato (Sez. 3, n. 9988 del
19/12/2019, GLYPH dep. GLYPH 2020, GLYPH La, GLYPH Rv. GLYPH 278534;conf. GLYPH ex GLYPH multis Sez. 6, n. 20315 del 05/03/2015, L., Rv. 263546).
3.1.5. All’interno di questo quadro sistematico si pone la soluzione data da questa Corte alla questione sulla natura ed effetti della retrodatazione del tempus commissi delicti nel corso del processo da parte del Pubblico Ministero, sollevata dalla difesa nell’ambito del precedente processo a carico del ricorrente che darebbe fondamento della deduzione in esame, dovendosi richiamare la condivisibile decisione che ha definitivamente confermato la legittimità della retrodatazione operata dal Pubblico ministero e gli effetti da essa prodotti ai fini della delimitazione, in quel processo, del thema decidendum.
Con Sez. 2, n. 36376 del 23/06/2021, COGNOME, Rv. 282015, che ha definito il precedente processo a carico del ricorrente, è stato affermato che la delimitazione del tempus commissi delicti del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso inizialmente contestato in forma “aperta”, operata dal pubblico ministero in udienza, non integra una ritrattazione dell’azione penale, atteso che per tale deve intendersi solo l’iniziativa unilaterale del pubblico ministero volta ad eliminare elementi essenziali o circostanziali dell’imputazione sottoposta al vaglio del giudice con l’esercizio dell’azione penale.
E’ stato spiegato dalla decisione che la “ritrattazione” si riferisce esclusivamente alla revoca dell’atto di esercizio dell’azione penale ed è sempre illegittima, essendo la scelta relativa all’azione penale pacificamente irretrattabile (Sez. 1, n. 6999 del 09/12/1999 Cc., dep. 2000, Rv. 215235; Sez. 3, n. 129 del 16/01/1996, Rv. 204344). Una volta che il pubblico ministero chiede la verifica giudiziale sull’ipotesi di accusa sintetizzata nell’imputazione, il vaglio del giudice è infatti ineludibile Tanto premesso, si ritiene che la ridefinizione del tempo d commissione del delitto associativo attraverso un intervento di “chiusura” dell’imputazione inizialmente strutturata come “aperta”, non sia in alcun modo riconducibile al richiamato paradigma, dato che la perimetrazione temporale dell’accusa non si traduce nella revoca né integrale, né parziale della richiesta che siano sottoposte a vaglio giudiziale le condotte contestate, immutate, pur nella loro ridefinita dimensione temporale. La “chiusura” di una imputazione “aperta” riferita ad un reato tendenzialmente permanente come quello associativo, piuttosto che in una illegittima ritrattazione della richiesta di giudizio sul ipotetiche condotte consumate nell’arco temporale che intercorre tra la data in cui si è verificata la “chiusura” e la pronuncia della sentenza di primo grado (evento che avrebbe, comunque, “chiuso” formalmente l’imputazione), si risolve piuttosto nella delimitazione temporale della condotta delittuosa, che resta immutata nei suoi essenziali elementi costitutivi. . Inoltre, «la modifica di tempus commissi delicti “non sempre” integra una “modifica dell’imputazione”, che impone il rispetto
della procedura prevista dal codice di rito: l’identificazione precisa del tempo in cui si è manifestata la condotta illecita infatti non sempre ha rilevanza decisiva per l’identificazione della condotta contestata; e soprattutto non sempre la sua modifica, o precisazione, produce una violazione del diritto di difesa. la circoscrizione temporale del delitto associativo piuttosto che complicare, o impedire la reazione difensiva, la semplifica, in quanto riduce l’arco temporale entro il quale, secondo l’accusa sono state poste in essere le condotte contestate e, a ben guardare, consente una difesa più specifica e mirata».
Quanto alla dedotta violazione del ne bis in idem, già prospettata in quel processo, la Corte ha ritenuto che «non si sia verificata alcuna violazione del divieto di secondo giudizio dato che il presente procedimento è “il primo” in ordine temporale e la dedotta violazione del principio del ne bis in idem (correlato all’apertura di un nuovo procedimento relativo alle condotte poste in essere successivamente al 2010) non è sorretta, in questa sede, da alcun interesse processuale ipoteticamente rinvenibile solo nel “secondo” procedimento», che è, appunto, quello all’odierno esame di questo Collegio.
3.1.6. Il Collegio ritiene di doversi conformare al quadro ermeneutico delineato dalle richiamate decisioni nell’affrontare l’ulteriore specifica questione della incidenza, rispetto al tema proposto, della intervenuta delimitazione temporale dell’accusa recepita nella precedente decisione – i cui effetti, secondo la difesa, dovrebbero essere limitati alla condotta successiva al 4.02.2015 (e fino alla metà dello stesso anno), essendosi verificata, per quella precedente a tale data, la preclusione dell’azione penale con la correlata violazione del ne bis in idem.
Secondo questo Collegio, invece, le richiamate decisioni designano la piena legittimità e conforme efficacia temporale del frazionamento giudiziale della condotta del reato associativo mafioso ascritta al ricorrente in relazione al precedente processo, così da potersi affermare il legittimo esercizio dell’azione penale, nell’ambito del presente processo, nei confronti del ricorrente per la medesima condotta associativa ricompresa per il distinto e successivo periodo temporale, con esclusione della dedotta violazione del ne bis in idem da parte della sentenza impugnata.
3.1.7. Deve essere osservato che effettivamente eccentrico, rispetto alla allegata decisione di legittimità con la quale la Corte si confronta, è il rilievo dat dalla sentenza impugnata al profilo della novità delle acquisizioni probatorie, alla base del rigetto della deduzione difensiva.
Invero, tale profilo è del tutto estraneo alle ragioni del precedente di legittimità espresso da Sez. 6, COGNOME sul quale la difesa fa leva, appartenendo piuttosto alla declinazione del motivo difensivo ancora oggi riproposta, fino a
sostenere l’obbligo di espunzione della valutazione probatoria tutti gli elementi acquisiti anteriormente al 4 febbraio 2015.
Anche secondo questo Collegio il tema probatorio non è affatto dirimente rispetto a quello proposto, essendo irrilevante – da un lato – la deduzione difensiva volta a evidenziare il fatto che l’Accusa fosse già in loro possesso all’atto della retrodatazione dibattimentale del tempus commissi delicti nel precedente processo o – dall’altro – l’assunto, anche genericamente proposto, che alcune di esse in tale processo fossero state già valutate.
Il quadro ermeneutico già sopra delineato, ancorché consideri connaturate sottese esigenze probatorie dell’Accusa, non pone queste esigenze quale condizione di legittimità dell’esercizio della facoltà di frazionamento della contestazione da parte del pubblico ministero, richiedendo la loro allegazione o, ancor di più, la loro prova e – per converso – non ne sanziona la loro mancanza o infondatezza.
E’, invece, dirimente, che la prima decisione sul reato associativo ha riguardato il periodo temporale delimitato dal Pubblico Ministero, dovendosi pertanto escludere la ricorrenza, in tutto o in parte, della preclusione del ne bis in idem in quanto l’azione penale, nel presente processo, è stata esercitata – dopo l’avvenuta retrodatazione e la conseguente cristallizzazione del thema decidendum nel precedente processo – per la partecipazione associativa dello stesso ricorrente riguardante un periodo temporale successivo.
3.1.8. A completamento del quadro ermeneutico che fonda la riconosciuta fisiologica legittimità del frazionamento giudiziale della condotta del reato permanente (Corte Cost. n. 53 del 2018) anche da parte del pubblico ministero nel corso del dibattimento (v. anche Sez. 1, n. 8759 del 25/10/2022, dep. 2023, Crea, Rv. 284212 – 01), deve essere considerato il condivisibile principio affermato da Sez. 5, n. 20045 del 26/04/2023, COGNOME, Rv. 284674 – 01 – parenteticamente osservato dalla stessa Sez. 6, Iazzetta -, che non possono essere ammesse incursioni valutative da parte del giudice del successivo procedimento sulle valutazioni adottate dal giudice del processo precedente – in relazione al quale si deduce la preclusione – dopo che questo giudice della cognizione abbia recepito la delimitazione temporale del reato permanente da parte del pubblico ministero, così definendo il thema decidendum, in quanto «certo è che, in questa sede, non può essere consentita una sovrapposizione alle valutazioni del giudice della cognizione, dominus del processo principale, pena l’effetto “paradossale e abnorme” (in motivazione, Sez. 1 n. 8759 del 25/10/2022, dep. 2023, Crea, cit.) che sarebbe il giudice di un altro procedimento, peraltro accessorio, a stabilire i confini del primo processo in difformità dalle determinazioni assunte dal dominus,
con il pericolo di creare spazi di impunità, ravvisando duplicazioni di processi lì dove gli stessi giudici della cognizione le hanno escluse».
La conclusione della richiamata decisione, riferita ai rapporti tra le valutazioni del giudice dell’ accessorio incidente cautelare e quelle del giudice della cognizione, a maggior ragione vale in relazione a due distinti giudizi della cognizione – quello del processo che avrebbe determinato la pretesa preclusione e quello in cui tale pretesa preclusione è dedotta – non potendosi, quindi, sindacare, da parte del giudice del successivo processo, le ragioni che hanno determinato il Pubblico ministero a “chiudere” ad una certa data la originaria contestazione “aperta” nel precedente processo, facoltà per il cui esercizio – peraltro – non è prevista dalla legge processuale l’autorizzazione da parte del giudice procedente, al quale, invece, spetta solo di assicurare la corretta instaurazione del contraddittorio rispetto alla modifica temporale apportata all’accusa.
3.1.9. Le ragioni esposte non consentono di condividere l’orientamento espresso – all’esito di una ampia disamina che ha pur considerato orientamenti sopra richiamati – dalla recente decisione di Sez. 1 n. 10313 del 18/12/2024, dep. 2025, COGNOME non mass., richiamata nel corso della discussione dalla difesa, che non solo prospetta la possibilità da parte del pubblico ministero di modificare, nel corso del processo, il tempus commissi delicti del reato permanente senza addurre motivazione solo per porzioni temporali non ancora verificate, ma richiede – per quelle già trascorse – la necessità di «adeguati elementi giustificativi», in mancanza dei quali l’interruzione della condotta «deve considerarsi prodotta a decorrere dall’udienza in cui la parte pubblica ha manifestato la volontà di sottrarre alla cognizione di quel giudizio gli accadimenti futuri».
Deve essere osservato che l’operazione ermeneutica alla base di queste affermazioni si fonda sulla individuazione della esigenza di «recuperare ogni utile spazio per il controllo da parte del giudice sull’intervento della parte pubblica», imponendosi «una verifica della rispondenza della specificazione alle finalità del giudizio e alle garanzia dell’imputato e il giudice deve verificare, nel contraddittorio, che il pubblico ministero non sposti né arbitrariamente né per immotivato esercizio discrezionale gli ambiti temporali senza confrontarsi con esse» e da effetti processuali di sistema derivanti dalla “consustanziale” perduranza della condotta del reato permanente (v. par. 6 della sentenza).
Secondo questo Collegio, le conclusioni alle quali perviene la richiamata decisione limitano, condizionandolo, l’indiscussa facoltà, rientrante nel suo potere di azione, del pubblico ministero di ridefinire temporalmente l’accusa formulata e fissano correlativi termini dell’efficacia temporale del suo esercizio, senza una base normativa che – oltre alla assicurazione del contraddittorio sulla nuova formulazione temporale dell’accusa – obblighi il giudice procedente ad una verifica
delle ragioni dell’esercizio della facoltà, in contrasto con la titolarità esclusi dell’azione penale in capo al pubblico ministero e senza che sia prevista una autorizzazione da parte del giudice che procede, rispetto alla incondizionata legittimità del frazionamento processuale della condotta con riguardo al reato permanente.
3.1.10. Quanto fin qui detto non consente di dare seguito alla argomentazione sviluppata nell’ambito della decisione di legittimità resa in sede cautelare da Sez. 6 Iazzetta sulla quale fa leva la deduzione difensiva.
La decisione ha espresso il condiviso principio per il quale, in tema di contestazione in forma cosiddetta “aperta”, la “identità del fatto”, che rileva ai fin dell’operatività del principio del ne bis in idem, non sussiste qualora, in relazione a due diversi reati permanenti relativi alla partecipazione alla stessa associazione in periodi diversi, per uno sia intervenuta sentenza di accertamento della responsabilità e per il secondo sia, successivamente, stata applicata una misura cautelare.
Tuttavia questo Collegio, per quanto sopra detto, ritiene di non condividere il rilievo dato da questa decisione – senza che esso abbia esplicato effetto sulla decisione cautelare – all’originario esercizio in forma “aperta” dell’azione penale nel precedente processo rispetto al successivo momento dibattimentale della definizione “chiusa” della stessa accusa – tanto da indicare tale momento ai fini della delimitazione della frazione di condotta rispetto alla quale si sarebbe verificata la preclusione.
Deve – invece – essere affermata la legittima proposizione dell’azione nei confronti del ricorrente nel presente processo per una condotta associativa tenuta in un successivo periodo temporale, quando si era già giudizialmente cristallizzata nel primo processo quella relativa al precedente e non sovrapponibile periodo temporale.
Diversamente opinando, la partecipazione associativa apicale dell’imputato realizzata successivamente al dicembre 2010 e fino al 4 febbraio 2015 sarebbe definitivamente sottratta all’accertamento giudiziale, dopo essere stata esclusa dalla prima decisione che ha recepito la rideterminazione del tempus commissi delicti da parte del Pubblico ministero – non potendo quel giudice estendere la cognizione ad un successivo periodo (Sez. U, n. 11930 del 11/11/1994, COGNOME, Rv. 199171).
3.2. Il secondo motivo dell’atto per Avv. COGNOME è genericamente proposto rispetto alla ricostruzione, priva di vizi logici e giuridici, svolta dalla Cort appello, condividendosi il principio per il quale l’omesso esame di un motivo di appello da parte del giudice dell’impugnazione non dà luogo ad un vizio di motivazione rilevante a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente assorbito e disatteso dalle spiegazioni svolte nella motivazione in quanto incompatibile con la struttura e con l’impianto della stessa nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima(Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593).
3.2.1. Invero, dopo la condanna definitiva del ricorrente per associazione camorristica con i relativi reati-fine, in cui veniva acclarato il suo ruolo di stori senatore del clan fino al 2010, risultano considerati e valutati nuovi elementi di prova a sostegno della condotta, relativa al periodo 2010/2015, della partecipazione con ruolo apicale al clan COGNOME. In tal senso, sono considerate le propalazioni di NOME COGNOME che secondo informazioni ricevute dallo stesso ricorrente nel periodo di co-detenzione ne ribadisce il ruolo di vertice e organizzatore mostrando di conoscere la vicenda dei pizzini; la conversazione ambientale del 25.05.2012 tra COGNOME e COGNOME sul metodo del ricorrente per gestire i suoi contatti con gli affiliati; le conversazioni tra COGNOME e NOME COGNOME, diretto referente del COGNOME circa il suo avallo alla sostituzione di NOME COGNOME con NOME COGNOME atteso il contrasto insorto; le conversazioni tra COGNOME e COGNOME sui “premi” – oltre gli stipendi – meritati dal COGNOME per l’attività vertice svolta; le ambientali captate presso l’abitazione di Modestino COGNOME, tra le quali quella esemplificativamente richiamata del 11.06.2012, in cui emergono le indicazioni prese con il COGNOME e l’indirizzo di questi nella gestione delle estorsioni nel territorio di Casoria; infine, quella che è considerata “prova regina inconfutabile” rappresentata dai pizzini, affidati in data 15.03.2012 dall’imputato, durante la sua detenzione in carcere e approfittando dei colloqui, alla figlia NOME i cui messaggi – destinati a raggiungere i propri sodali – mettono in luce il ruolo di spicco rivestito dal COGNOME e le modalità esecutive suggerite per la gestione degli affari comuni (v. pg. 108 e ss. della sentenza impugnata). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.2.2. Rispetto a tale complessiva incensurabile valutazione del convergente molteplice dato probatorio a sostegno dell’accusa la Corte di merito sinteticamente assume, del tutto correttamente, l’inidoneità delle doglianze difensive a scardinarne la portata sia in ragione della loro forza e pregnanza, sia per la totale assenza di elementi, fattuali o logici, di segno contrario (v. pg. 116 e sg., ibidem), limitandosi il ricorrente ad opporre la mancata considerazione delle sue diverse valutazioni in fatto, peraltro sul generico assunto (v. pg. 21 del ricorso) secondo il quale gli elementi considerati fossero «fuori contestazione (4.2.2015-metà 2015)», evidentemente con riferimento alla disattesa tesi difensiva circa l’intervenuto ostativo bis in idem.
Invero, in relazione al dedotto cumulativo vizio della motivazione segnatamente riguardante la sua mancanza e manifesta illogicità – nel richiamare e riproporre le proprie diverse valutazioni in fatto non solo non rispetta l’onere sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quant i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione (Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, COGNOME, Rv. 277518 – 02), ma non attacca, sotto il profilo dedotto e giustificandone specificamente la valenza disarticolante, le ragioni poste a base della conferma della responsabilità del ricorrente.
3.3. Il terzo motivo dell’atto per Avv. COGNOME è genericamente proposto rispetto al periodo temporale della condotta riconosciuto in sentenza.
3.4. Il terzo motivo dell’atto per Avv. Procentese è generico e, comunque, manifestamente infondato rispetto all’indicato riferimento, da parte della prima sentenza, ai limiti edittali previgenti (v. pg. 1052 della prima sentenza) e alla articolata motivazione giustificativa dell’incremento di pena applicato, anche in considerazione dell’ampio periodo per il quale è intervenuta condanna (v. pg .117 della sentenza impugnata), in alcun modo attinta dal ricorso.
Il ricorso di NOME COGNOMEper atto dell’Avv. COGNOME e in relazione al primo motivo dell’atto dell’Avv. Procentese) è fondato e deve essere accolto.
Invero, la prima sentenza dopo aver affermato la responsabilità del ricorrente – secondo la contestazione – individuandone la posizione apicale con ruolo organizzativo e dirigenziale all’interno del clan COGNOME con riferimento alla gestione dell’area di Casoria (v. pg. 920 della prima sentenza), all’atto della determinazione della pena – e dopo la generale premessa di considerare i limiti edittali previgenti alla riforma del 2015 – abbandona tale qualificazione della condotta partecipativa, considerando e indicando l’imputato quale “partecipe”, applicando la pena base di anni dieci di reclusione (v. pg. 1053, ibidem), in conformità con il dispositivo di condanna del Franzese quale partecipe (v. pg. 1061, ibidem).
Della rilevata distonia vi è traccia nella stessa epigrafe della sentenza di appello che, nell’indicare le determinazioni della prima decisione, indica l’imputato condannato in quanto rivestente ruolo direttivo (v. pg. 4 della sentenza impugnata), senza che alcun riferimento sia poi operato a tale posizione apicale
nella motivazione, essendo stata definita la posizione del COGNOME sulla base della sua rinuncia ai motivi di appello in tema di responsabilità e senza alcun riferimento alla posizione apicale.
Ritiene questo Collegio che la riqualificazione della partecipazione del ricorrente in chiave meramente partecipativa, intervenuta con la sentenza di primo grado – in quanto non oggetto di impugnazione da parte del Pubblico ministero deve ritenersi definitiva, così dovendosi ad essa parametrare la determinazione della pena.
Ebbene, così definita la posizione del ricorrente, a fronte della istanza difensiva in appello di applicare il minimo della pena, errata è la risposta della Corte di appello che, dopo aver riconosciuto le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, afferma «stabilita nel minimo la pena base in anni 10 di reclusione» dichiarata congrua ai sensi dell’art. 133 cod. pen. (v. pg 101 e sg. della sentenza impugnata), dovendosi, invece, considerare – secondo le indicazioni della stessa sentenza di primo grado – il previgente minimo edittale di sette anni di reclusione.
Pertanto, la sentenza deve essere annullata in ordine alla determinazione della pena con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, dichiarando irrevocabile la dichiarazione di responsabilità.
Il ricorso di NOME COGNOME è fondato per quanto di ragione e deve essere accolto.
5.1. Quanto al primo motivo, si richiama quanto detto in relazione al sovrapponibile primo motivo proposto nell’interesse di COGNOME, dovendosene affermare l’infondatezza.
5.2. Il secondo motivo è fondato.
La sentenza, dopo aver specificato che si tratta del periodo successivo a quello oggetto della precedente condanna, individua (v. pg. 104 e sgg.) una partecipazione associativa apicale del ricorrente – segnatamente nel senso della riorganizzazione del clan e nella gestione delle attività estorsive e nel traffico di stupefacenti, evidenziando una sua capacità di svincolarsi dai vertici storici richiamando i contenuti captativi del 2012 presso la abitazione del Pellino indicati della prima sentenza (che documentano, secondo la sentenza, la spartizione delle somme provento delle attività illecite, destinate, tra gli altri al ricorrente, al tem detenuto – in ragione della sua posizione apicale) e, essenzialmente, la prova dichiarativa del collaboratore di giustizia COGNOMEche, quale cassiere del clan nel 2014, riferisce della spartizione dei proventi tra COGNOME e gli altri sodal raccontando della decisione di COGNOME di incassare somme senza farlo sapere a NOME e NOME COGNOME; raccontava, inoltre, dei suoi rapporti con NOME COGNOME e
COGNOME fino a dopo il 2014), nonché la captazione in carcere tra il ricorrente e la moglie NOME COGNOME (che fa emergere una ammissione della sua posizione di vertice del clan).
La sentenza richiama anche i pizzini sequestrati alla figlia del COGNOME, senza peraltro indicarne la valenza a carico del ricorrente e rinviando ad una successiva “evidenziazione” di cui manca l’esplicitazione (segnatamente con riferimento alla dettagliata analisi condotta sui pizzini in relazione alla successiva posizione del COGNOME).
In appello la difesa aveva dedotto sulla responsabilità dell’imputato, detenuto fino al 9.7.2014 (v. pg. 9 e ss. dell’atto di appello), sul senso e contesto delle intercettazioni – segnatamente con riguardo alla effettività della esistenza di somme da spartire e della loro destinazione, escludendo la difesa la esistenza di una attuale attività di traffico di droga, non esistendo alcun riferimento a condotte delittuose del ricorrente, né potendovi essere contatti tra COGNOME e COGNOME, tenuto conto dei rispettivi periodi di detenzione e dell’omicidio del primo il 24 luglio 2012 – e sulle dichiarazioni di NOME, che mancherebbero di riscontri e sarebbero inquinate, volte a censurare l’assunto del primo giudice circa una attività direttiva del ricorrente nel periodo considerato: ebbene, a tali specifiche deduzioni, in grado di scardinare l’assunto accusatorio poggiato – come riconosce la stessa Corte – su sole due fonti probatorie, delle quali una -peraltro – necessitante il riscontro, la sentenza di appello non dedica alcuna considerazione.
Deve pertanto, essere riconosciuto il dedotto vizio di motivazione della sentenza impugnata dovendosi ribadire il principio secondo il quale sussiste il vizio di mancanza di motivazione, ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., quando le argomentazioni addotte dal giudice a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività(Sez. 5, n. 2916 del 13/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 257967).
5.3. Il terzo motivo è assorbito dall’accoglimento del precedente motivo.
Al rigetto del ricorso di COGNOME consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Al rigetto del ricorso di COGNOME e, quanto alla responsabilità, del ricorso di COGNOME consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute nel grado dalla parte civile A.L.I.L.A.C.C.O. SOS Impresa che si stima equo determinare come in dispositivo. Quanto alla parte civile Comune di Crispano, non può darsi accesso alla istanza di condanna alle spese in mancanza della sua costituzione nel giudizio di legittimità, tenutosi con trattazione orale, secondo l’autorevole principio per il quale nel giudizio di cassazione con trattazione orale non va disposta la condanna dell’imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che non sia intervenuta
nella discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l’allegazione di
nota spese (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, COGNOME
Rv. 286581 – 03)
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME nonché, limitatamente alla determinazione della pena, nei confronti di COGNOME NOME
e rinvia per nuovo giudizio nei confronti dei predetti ad altra sezione della Corte di pe
appello di Napoli. Dichiara irrevocabile nei confronti di COGNOME l’accertamento di responsabilità. Rigetta il ricorso di COGNOME NOME che condanna al pagamento
delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso del P.G. nei confronti di
COGNOME NOME. Condanna COGNOME e COGNOME a rifondere le spese di rappresentanza e difesa della parte civile A.L.I.L.A.C.C.O. RAGIONE_SOCIALE, che
liquida in euro 3.686,00 oltre accessori.
Così deciso il 28 marzo 2025.