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Ne bis in idem: no se i fatti sono in tempi diversi

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18822/2024, ha rigettato il ricorso di un imputato condannato per associazione di tipo mafioso, chiarendo i limiti del principio del ‘ne bis in idem’. La Corte ha stabilito che non sussiste violazione se le condotte, sebbene dello stesso tipo, si riferiscono a periodi temporali nettamente distinti e non sovrapponibili. La sentenza affronta anche temi come l’inammissibilità del ricorso per motivi generici e la corretta valutazione delle pene accessorie in caso di reato continuato.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ne bis in idem: quando due processi per lo stesso reato sono legittimi?

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 18822 del 2024, è tornata a pronunciarsi su un principio cardine del nostro ordinamento: il divieto di ne bis in idem. Questa regola fondamentale, sancita dall’articolo 649 del codice di procedura penale, stabilisce che una persona già assolta o condannata non può essere nuovamente processata per lo stesso identico fatto. La pronuncia in esame offre un importante chiarimento sui limiti di applicazione di tale principio, specialmente in contesti di criminalità organizzata dove le condotte illecite si protraggono nel tempo.

I Fatti del Processo

Il caso riguarda due imputati condannati dalla Corte di Appello di una grande città del Sud Italia per reati legati all’appartenenza a un noto clan camorristico.

Il primo imputato, dopo essere stato assolto in primo grado proprio in virtù del principio del ne bis in idem, era stato condannato in appello. Secondo la sua difesa, egli era già stato giudicato con una sentenza definitiva per la sua partecipazione al medesimo clan. Il secondo imputato, invece, aveva raggiunto un accordo sulla pena in appello (c.d. concordato), ma ha comunque presentato ricorso in Cassazione lamentando l’illegalità delle pene accessorie applicate.

Entrambi hanno quindi impugnato la decisione davanti alla Suprema Corte, sollevando questioni distinte ma ugualmente rilevanti.

La Decisione della Corte e il principio del ne bis in idem

Il fulcro della sentenza ruota attorno al ricorso del primo imputato e alla sua doglianza sulla violazione del divieto di ne bis in idem. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna.

La Corte ha chiarito che, per stabilire se si tratti del “medesimo fatto”, non basta guardare alla tipologia di reato contestata (in questo caso, associazione di tipo mafioso), ma è necessario analizzare la condotta specifica in senso storico-naturalistico. Nel caso di specie, la precedente condanna riguardava la partecipazione al clan in un periodo di tempo ben definito (dal gennaio 2012 a tutto il 2015), mentre il procedimento attuale si riferiva a una condotta associativa tenuta in un arco temporale precedente (fino al 2011).

Secondo la Cassazione, questa “divaricazione temporale dei fatti partecipativi” e il “netto discrimen” che separa i due periodi sono sufficienti a escludere che si tratti dello stesso fatto. Di conseguenza, non vi è alcuna violazione del principio del ne bis in idem.

Altri motivi di ricorso: la valutazione delle prove e la pena

La Corte ha inoltre respinto gli altri motivi del ricorso. Sulla valutazione delle prove, come le intercettazioni telefoniche e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, i giudici hanno ribadito che l’interpretazione del loro contenuto è di competenza esclusiva dei giudici di merito e non può essere rivalutata in Cassazione, se non in caso di manifesta illogicità della motivazione, qui non riscontrata.

Per quanto riguarda il ricorso del secondo imputato, relativo all’illegalità delle pene accessorie, la Corte lo ha dichiarato inammissibile. Il ricorso è stato giudicato aspecifico, poiché, avendo l’imputato rinunciato a tutti gli altri motivi di appello con il concordato, non era chiaro a quale reato si riferissero le doglianze. Inoltre, la Corte ha specificato che una presunta erronea applicazione delle pene accessorie non rientra nella nozione di “pena illegale” che può essere contestata in Cassazione in questi termini.

Le motivazioni

Le motivazioni della Suprema Corte si fondano su una rigorosa interpretazione del concetto di “medesimo fatto”. I giudici hanno sottolineato che la chiusura dell’imputazione nel precedente procedimento a una data specifica e la delimitazione temporale del reato nel procedimento attuale creano una barriera netta che impedisce la sovrapposizione delle condotte. L’argomento della difesa, secondo cui il pubblico ministero avrebbe artificiosamente “spezzato” la contestazione (le c.d. “contestazioni a catena”), è stato ritenuto irrilevante ai fini dell’applicazione del ne bis in idem. La Corte ha inoltre evidenziato come le prove emerse nel secondo processo, come le dichiarazioni di un nuovo collaboratore, fossero successive alla chiusura delle indagini del primo, giustificando ulteriormente la separazione dei procedimenti.

Le conclusioni

La sentenza n. 18822/2024 consolida un importante orientamento giurisprudenziale: il divieto di ne bis in idem non opera quando, pur in presenza dello stesso titolo di reato, le condotte criminose si collocano in periodi temporali distinti e non sovrapponibili. Questa decisione ha implicazioni significative, soprattutto nei processi per reati associativi e permanenti, dove la condotta illecita si protrae nel tempo. Essa riafferma la possibilità per l’autorità giudiziaria di perseguire un soggetto per la sua partecipazione a un’associazione criminale in un determinato periodo, anche se già condannato per la stessa appartenenza in un periodo differente.

Quando si può essere processati due volte per lo stesso tipo di reato senza violare il principio del ne bis in idem?
Secondo la sentenza, ciò è possibile quando le condotte contestate, pur riferendosi allo stesso titolo di reato (es. associazione mafiosa), si sono svolte in periodi temporali nettamente distinti e non sovrapponibili. La diversità del tempus commissi delicti (il tempo in cui il reato è stato commesso) esclude che si tratti del ‘medesimo fatto’ ai sensi dell’art. 649 c.p.p.

Perché il ricorso di uno degli imputati è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per plurime ragioni. In primo luogo, era aspecifico: l’imputato aveva concordato la pena in appello, rinunciando agli altri motivi, e nel ricorso non ha chiarito a quale specifico reato si riferisse la sua contestazione sulle pene accessorie. In secondo luogo, il presunto errore nel calcolo delle pene accessorie non costituisce una ‘pena illegale’ nel senso stretto che ne consentirebbe la contestazione in Cassazione in determinate circostanze.

La Corte di Cassazione può riesaminare il contenuto delle intercettazioni telefoniche?
No, la Corte di Cassazione non può riesaminare nel merito le prove, come le intercettazioni. L’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni sono questioni di fatto rimesse alla competenza esclusiva del giudice di merito (Tribunale e Corte d’Appello). Il giudizio della Cassazione si limita a un controllo sulla logicità e coerenza della motivazione, senza poter entrare nel merito delle scelte valutative.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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