Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 18822 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 18822 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME NOME a NAPOLI il DATA_NASCITA COGNOME NOME NOME a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 15/05/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che è stata formulata richiesta di discussione orale ex art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, da ultimo, in forza dell’art. 17 del decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito, con modificazioni, nella legge 10 agosto 2023, n. 112.
Uditi in pubblica udienza il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; per la parte civile RAGIONE_SOCIALE, l’AVV_NOTAIO, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, che ha depositato conclusioni e nota spese.
c/
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza deliberata il 15/05/2023, la Corte di appello di Napoli nei confronti di NOME COGNOME ha accolto la proposta ex art. 599-bis cod. proc. pen., applicandogli la pena concordata, mentre, in riforma della sentenza di primo grado, che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME ex art. 649 cod. proc. pen. in ordine al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. per essere già stato giudicato per il medesimo fatto, ha dichiarato detto imputato colpevole del reato ascrittogli, condannandolo alla pena di giustizia.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, attraverso il difensore AVV_NOTAIO, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. e vizi di motivazione. La sentenza di primo grado aveva ritenuto che il ricorrente fosse stato già giudicato e condanNOME per i medesimi fatti con sentenza del Gip del Tribunale di Napoli del 27/06/2019 per la partecipazione al clan RAGIONE_SOCIALE sostanziatasi nella collaborazione fornita a NOME COGNOME nella gestione delle estorsioni nel territorio di Casoria, non risultando alcuna specificazione circa la decorrenza di tale partecipazione, sicché deve ritenersi che la condanna inflitta riguardi il periodo fino a tutto il 2015, laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che la sentenza del presente procedimento giunga fino a tutto il 2011, mentre la precedente condanna riguardava il periodo “da gennaio 2012 fino a tutto il 2015”, come si evince dal decreto che contiene l’accusa. La sentenza di primo grado aveva rilevato l’esistenza di altro procedimento nei confronti del ricorrente per il medesimo fatto in senso storico-naturalistico, con argomenti che superavano il mero dato temporale della contestazione. Gli elementi posti a fondamento della responsabilità di COGNOME in ordine al precedente procedimento erano contenuti in un’informativa del 2014 ed erano già conosciuti quando si sviluppava l’istruttoria dibattimentale del presente procedimento, sicché il pubblico ministero ha discrezionalmente contestato due distinte ipotesi di reato sebbene COGNOME fosse già stato condanNOME per il reato associativo con condotta perdurante al 2015 sulla scorta degli stessi elementi di prova dell’odierno procedimento, ove la partecipazione al clan è delimitata al 2011, non rilevando, sul punto, le dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME, intervenute successivamente all’emissione del primo titolo restrittivo, facendo esse riferimento a un contesto temporale anteriore all’emissione della prima ordinanza cautelare, mentre le conversazioni intercettate erano anteriori anche
all’emissione di detta ordinanza e il contributo dichiarativo dei collaboranti citati è il medesimo che ha integrato il giudizio di responsabilità nel presente procedimento.
I due procedimenti si caratterizzano per l’identità oggettiva e soggettiva perché contestano a COGNOME la condotta associativa dal 2011 a oggi, ma scientemente spezzati dal pubblico ministero.
2.2. Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine alla sussistenza e alla partecipazione all’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. Pur di superare le critiche dei motivi di gravame, la sentenza impugnata si risolve in affermazioni apodittiche, con riferimento alle intercettazioni, che non riguardano mai il ricorrente, e al travisamento totale delle risultanze investigative, eludendo la valutazione delle generiche e inconferenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Le conversazioni intercettate interessano COGNOME solo indirettamente e in modo poco chiaro e spesso ambiguo, mentre manca qualsiasi motivazione, se non assertiva, circa il coinvolgimento nell’associazione contestata, non risultando alcuna attività a lui ascrivibile e indice di una fattiva partecipazione al clan, non rinvenendosi alcuna spiegazione circa l’inconferenza temporale delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, quali NOME COGNOME, che solo nel 2013 è divenuto intraneo, mentre COGNOME ha dichiarato di essere entrato nel gruppo di NOME COGNOME nel 2012, laddove COGNOME ha riferito di non conoscere il ricorrente.
2.3. Il terzo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione della pena base in misura superiore al minimo edittale.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, attraverso il difensore AVV_NOTAIO, denunciando – nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. – l’illegalità delle pene accessorie, in quanto, in caso di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, occorre fare riferimento al reato più grave e non alla pena complessiva del reato continuato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi non meritano accoglimento.
Il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato, pur presentando plurimi profili di inammissibilità.
2.1. Il primo motivo non è fondato. L’insussistenza della lamentata violazione del divieto di bis in idem discende dalla – sostanzialmente non contestata – divaricazione temporale dei fatti partecipativi e dal netto discrimen che separa il tempus commissi delicti nel primo e nel secondo procedimento, come puntualmente messo in evidenza dalla sentenza impugnata, lì dove ha sottolineato che la chiusura dell’imputazione operata nel precedente procedimento e la delimitazione temporale di cui al capo relativo al reato associativo del presente procedimento escludono in radice la duplicazione dell’addebito. Le censure proposte non scalfiscono il dato centrale valorizzato dalla sentenza impugnata.
L’asserita conoscenza da parte del pubblico ministero degli elementi posti a fondamento della prima condanna quando «si dipanava» l’istruttoria dibattimentale del presente procedimento è del tutto inconferente e sembra riecheggiare argomentazioni proprie dell’istituto delle “contestazioni a catena”, che, tuttavia, non possono in alcun modo rifluire sul terreno del ne bis in idem. D’altra parte, il ricorso stesso evidenzia che il contributo del collaboratore NOME COGNOME (espressamente richiamato dalla sentenza impugnata) è successivo all’emissione del titolo restrittivo del primo procedimento, il che all’evidenza ridimensiona drasticamente la pretesa disponibilità in capo al P.M. degli elementi per sostenere l’accusa nel presente procedimento già al momento (quanto meno della domanda cautelare) del secondo.
Peraltro, l’articolata concatenazione di deduzioni del ricorrente non risulta sorretta da adeguata allegazione, essendosi l’impugnante sottratto all’onere di completa e specifica individuazione degli atti processuali fatti valere (Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011, dep. 2012, Rv. 252349).
2.2. Il secondo motivo non merita accoglimento. La Corte distrettuale premette che la sentenza di primo grado, pur riconoscendo il bis in idem, aveva ritenuto ampiamente provata la partecipazione di COGNOME all’associazione mafiosa contestata. Ciò rimarcato, mette conto sottolineare che le censure relative alle conversazioni intercettate – oltre che, in alcuni passaggi, intrinsecamente contraddittorie – ne mettono in discussione il significato attribuito dai giudici di merito, il che rende ragione dell’inammissibilità delle censure, posto che, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337). Limiti, all’evidenza, non valicati nel caso di specie. Del tutto generiche sono le deduzioni relative ai contributi dei
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collaboratori di giustizia, tanto più che, come si è visto, già la sentenza di primo grado aveva ritenuto ampiamente provata la responsabilità dell’imputato e, comunque, il ricorso si sottrae all’onere di specifica individuazione degli atti su cui si basa la doglianza. La Corte distrettuale ha poi puntualmente delineato il ruolo, in seno al RAGIONE_SOCIALE, del ricorrente, che si “occupava” di estorsioni, in un ben definito ambito territoriale, “maneggiando”, a vari fini (compreso il sostentamento delle famiglie dei partecipi ristretti in carcere) il denaro del gruppo: al riguardo, il ricorso è del tutto carente della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849).
2.3. Manifestamente infondato è il terzo motivo, avendo la Corte distrettuale congruamente motivato in ordine al trattamento sanzioNOMErio (includendo implicitamente, ma univocamente in tale valutazione, anche il diniego dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche), richiamando la forte intensità del dolo, il grande senso di “fedeltà” alla famiglia mafiosa COGNOME e la pericolosità del ricorrente.
Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME è inammissibile, per plurime, convergenti ragioni. In primo luogo, come si desume dalla sintesi dei motivi di appello offerta dalla sentenza impugnata, l’imputato aveva chiesto la continuazione con una sentenza di condanna per estorsione passata in giudicato, ma, con il concordato, ha rinunciato a tutti i motivi di appello, sicché non è dato comprendere a quale reato abbiano riguardo i vari riferimenti al reato continuato sui quali si articola il ricorso: sotto questo profilo, il ricorso è del tutto aspecifi D’altra parte, l’illegalità della pena va intesa come sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero eccedente, per specie e quantità, il limite legale, mentre non rientrano in tale nozione profili commisurativi della stessa ovvero attinenti al bilanciamento delle circostanze del reato o alla misura delle diminuzioni conseguenti alla loro applicazione (Sez. 5, n. 19757 del 16/04/2019, Bonfiglio, Rv. 276509 – 01).
Pertanto, il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condanNOME al pagamento delle spese processuali. Il ricorso di NOME COGNOME, invece, va dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condanNOME al pagamento delle spese processuali e alla somma di euro quattromila a favore della Cassa delle ammende. Il ricorrente COGNOME deve essere condanNOME alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio di legittimità dalla parte civile, liquidate come da dispositivo, mentre non può darsi corso alla
richiesta della stessa nei confronti del ricorrente COGNOME, il cui ricorso verteva esclusivamente sul trattamento sanzioNOMErio, posto che qualora dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione proposta dall’imputato non possa derivare alcun pregiudizio alla stessa, come quando riguardi esclusivamente questioni inerenti la pena, essa, pur se esercita il suo diritto di partecipare allo stesso, non ha titolo alla rifusione delle spese processuali (Sez. 4, n. 22697 del 09/07/2020, Rv. 279514 – 01; conf., in tema di impugnazione concernente il trattamento sanzioNOMErio, Sez. 6, n. 1671 del 20/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258524 – 01).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro quattromila in favore della cassa delle ammende. Condanna il COGNOME alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 02/04/2024.