Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 45801 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 45801 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Di NOME COGNOME NOME nato a Servigliano il 11/09/1967
avverso la sentenza del 10/11/2023 della Corte appello di Ancona visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni scritte rassegnate dal difensore dell’imputato, Avv.to NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa il 10 novembre 2023 la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Macerata – che aveva ritenuto NOME COGNOME NOME COGNOME in qualità di legale rappresentante pro tempore della società “RAGIONE_SOCIALE, responsabile del reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, per aver indicato nelle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, per gli anni 2010, 2011 e 2012, al fine di evadere le dette imposte, elementi attivi per un ammontare inferiore a quelli effettivi, così evadendo imposte tutte superiori a 150.000 euro, e lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi uno di reclusione – ha dichiarato non doversi procedere (perché estinti per prescrizione) in ordine ai reati relativi alle annualità 2010 e 2011 rideterminando la pena, una volta esclusa la continuazione con i fatti dichiarati
estinti, in anni uno di reclusione, disponendo la confisca diretta e per equivalente della somma di euro 724.593,78, confermando nel resto la sentenza.
.2. Avverso l’indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, affidandosi a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, lamenta vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), in relazione all’art. 649 cod. proc. peri. (principio del ne bis in idem). Già nel giudizio di primo grado la difesa dell’imputato aveva prodotto la sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Macerata nei confronti del Di NOME COGNOME per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in qualità legale rappresentante della società “RAGIONE_SOCIALE“, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva indicato nelle dichiarazioni dei redditi relativi agli anni di imposte 2010 e 2011 elementi passivi J fittizi costituiti da fatture peresistentO emesse dalla società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, per complessivi euro 34.690,63 di imponibile ed euro 6.938,13 di IVA e aveva chiesto, al Tribunale prima e alla Corte di appello poi, di non procedere per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, relativamente agli anni 2010 e 2011 ascrittigli nel procedimento oggi al vaglio di questa Corte, in quanto assorbito dalla più grave imputazione di cui all’art. 2 d.lgs. cit, per la quale è intervenuta l seutenza di condanna irrevocabile sopra indicata. Il Tribunale ha disatteso la richiesta, condannando il ricorrente per il reato ascrittogli con riferimento (anche) alhe annualità 2010 e 2011 (oltre alla annualità 2012), non ravvisando la violazione del divieto di né bis in idem e tale valutazione è stata confermata dalla Corte di appello. Il ricorrente reitera quindi la stessa richiesta censurando la violazione del divieto di né bis in idem venendo in rilievo una dichiarazione ritenuta fraudolenta unica (unica era infatti la dichiarazione per gli anni 2010 e 2011) in cui la diversità dei documenti utilizzati per aumentare i costi non giustifica l’affermazione di responsabilità per due reati diversi. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2. Con il secondo motivo, il difensore lamenta mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione in punto di valutazione del materiale probatorio. Si assume che la condanna è stata fondata sugli accertamenti espletati dalla Guardia di Finanza nell’indagine tributaria e quei passaggi investigativi effettuati nel PVC e negli atti acquisiti sono stati ritenuti dalla Corte di appel elementi indiziari, ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. nonostante fossero privi di qualsiasi riscontro e verifica tecnica. Gli atti dell’indagine tributa sono stati, in altri termini, richiamati genericamente ed integralmente, nonostante il costrutto della Guardia di finanza si fondasse solo su valutazioni valide in sede fiscale amministrativa e non anche in sede penale e più in generale su presunzioni tributarie amministrative, che portano all’inversione dell’onere della prova.
Egualmente, si è ritenuto il dolo del reato commesso sol perché la parte non ha allegato alcuna giustificazione.
2.3 Con il terzo motivo del ricorso, si deduce violazione di legge in punto di omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, censurandosi le valutazioni operate sul punto dal giudice di primo e di secondo grado.
Con requisitoria scritta il Sost. Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso
Con conclusioni scritte COGNOME il difensore dell’imputato COGNOME ha COGNOME insistito nell’accoglimento dei motivi del ricorso e ha chiesto dichiararsi la prescrizione per il residuo reato superstite, in quanto prescritto alla data del 30 novembre 2023, ovvero dopo il deposito dei motivi della sentenza di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto è inammissibile per le ragioni di seguito esplicitate.
1.1. Con riferimento alla prima doglianza, ritiene questa Corte che essa sia inammissibile in quanto fondata su un motivo che si risolve nella pedissequa reiterazione di quello già dedotto in appello, oggetto, a sua volta, di richiesta innanzi al Tribunale, e puntualmente disatteso dal Tribunale e dalla Corte di merito, e deve quindi considerarsi aspecifico e meramente apparente, in quanto omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME e altri, Rv. 260608; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME e altri, Rv. 243838).
Il ricorrente contesta nuovamente la violazione del divieto di né bis in idem rappresentando, con riferimento alle due fattispecie per le quali in primo grado è intervenuta condanna (ossia l’omessa dichiarazione riferita alle annualità del 2010 e del 2011), dichiarate comunque prescritte dalla Corte di appello, che l’ipotesi meno grave (l’art. 4 d.lgs. n. 274 del 2000, contestata in questo procedimento) deve ritenersi assorbita in quella per la quale è già intervenuta condanna irrevocabile, in applicazione dell’interpretazione letterale dell’indicata disposizione normativa (“fuori dai casi di cui agli articoli 2 e 3”) e dell’orientament giurisprudenziale sul punto (si cita Sez. 3, n. 28437 del 27/05/2021 e Sez. 3, n. 626 del 21/11/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv 242343 con riferimento alla dichiarazione unica). Si afferma sul punto che quando la dichiarazione ritenuta fraudolenta è unica ed è relativa allo stesso periodo di imposta (e nel caso di specie unica è la dichiarazione per gli anni 2010 e 2011), la diversità dei documenti utilizzati per aumentare i costi non giustifica l’affermazione di responsabilità per due reati diversi.
1.2 Nel reiterare, nei termini indicati, la doglianza anche innanzi questa Corte la parte omette tuttavia, di confrontarsi con le puntuali e logiche argomentazioni dei giudici di merito, che hanno fatto corretta applicazione del principio secondo il quale il carattere residuale del reato di dichiarazione infedele, di cui all’art. 4 d d.lgs n. 74 del 2000, esclude il concorso con il delitto di frode fiscale, previsto dall’art.2 d.lgs. n. 74 del 2000, quando la condotta materiale abbia ad oggetto la medesima dichiarazione, mentre non opera nel caso in cui siano contestate condotte diverse, una per le omissioni di elementi attivi del reddito e l’altra per elementi passivi inesistenti (Sez. 3, n. 41260 del 17/01/2018, S, Rv. 274068-01).
1.3 A parte il rilievo che nel caso di specie la Corte di appello ha comunque dichiarato estinto, sia pur per prescrizione, le condotte relative alle annualità 2010 e 2011, nessuna censura può muoversi al Tribunale (che per quelle ipotesi di reato ha pronunciato condanna) e alla Corte di appello (che le ha dichiarate estinte per prescrizione), laddove hanno disatteso la richiesta di non doversi procedere ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen.
Nel caso in esame, ed in applicazione del principio di diritto soprariportato, non si ravvisa alcuna violazione del divieto di né bis in idem posto che nel procedimento per il quale è intervenuta condanna irrevocabile si contestava l’indicazione di elementi passivi fittizi costituiti da fatture emesse dalla socie RAGIONE_SOCIALE in favore della società RAGIONE_SOCIALE rappresentata dall’imputato, tutte relative ad operazioni inesistenti per complessivi euro 34.690,63 di imponibile ed euro 6.938,13 di IVA nell’anno 2011, mentre nel processo cui il presente ricorso si riferisce riguarda l’omessa indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quelli effettivi, determinando così imposte evase park ad euro 269.849,43 di IRES ed euro 231.772,00 di IVA per l’anno 2010 ed euro 298.530,01 di IRES e euro 217.112, 73 di IVA per l’anno 2011. E’ pertanto evidente, come ritenuto dalla Corte di appello, che vengono in rilievo condotte distinte che, pur se commesse nei medesimi anni di imposta, hanno ad oggetto, rispettivamente, elementi passivi inesistenti e omissioni di elementi attivi di reddito, che come tali escludono l’assorbimento della fattispecie residuale nel reato per il quale è intervenuta condanna irrevocabile, e su queste conclusioni la parte non si confronta criticamente, con conseguente inammissibilità del proposto motivo di censura.
Inammissibile, perché si risolve in una valutazione in fatto, il secondo motivo di censura, posto che con essa si contesta la ricostruzione del fatto e la valenza degli elementi di prova, sindacato, questo, non consentito nel giudizio di legittimità, non essendo possibile in questa sede invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un
giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibé, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260, e più di recente, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 Ud., dep. 2021, F.; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; pronunzie che trovano precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, COGNOME, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507).
2.1 In applicazione di tale principio, e premettendo che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, nel caso in esame ricorre la c.d. “doppia conforme” e la sentenza di appello, nella sua struttura argonnentativa, si salda perfettamente con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale. (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 – 01; in termini conformi, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01), nessuna censura può muoversi ai giudici di merito.
2.2. Diversamente da quanto affermato nel ricorso, i giudici di merito non si sono limitati a recepire gli accertamenti eseguiti dalla Guardia di finanza nell’indagine tributaria ma sono pervenuti alla condanna alla luce delle dichiarazioni rese dal M.NOME NOME COGNOME che, in sede di escussione testimoniale, ha riferito che gli operati hanno accertato l’esistenza e l’ammontare di accreditamenti privi di giustificazione, attraverso il controllo e l’esame dei rapporti finanziari intestati al ricorrente, collegati a movimentazioni riconducibili al società da questi rappresentata e che, rispetto a tali contestazioni, né il curatore fallimentare, né l’imputato sono stati in grado di fornire, anche attraverso la produzione di documentazione contabile, giustificazioni circa l’esistenza e l’entità di tali accreditamenti. Il percorso logico seguito ed i criteri applicati sono dunque corretti, con conseguente inammissibilità anche di questo motivo di ricorso.
3 Riguardo l’omessa applicazione delle circostanze attenuanti generiche il ricorso è parimenti inammissibile perché manifestamente infondato giacché la Corte di appello ha adeguatamente motivato sul punto.
3.1 La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in tema di circostanze attenuanti generiche, che solo la loro concessione necessita di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui
esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento del attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275319, in motivazione;in tali termini già Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, COGNOME, Rv. 192381; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241 e più di recente Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, COGNOME, Rv. 271315; Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, COGNOME, Rv. 270694).
3.2 Nel caso di specie la sentenza impugnata ha evidenziato l’assenza di elementi favorevoli valutabili ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, valorizzando la gravità della condotta tenuta dall’imputato, perpetrata per tre anni consecutivi con evasione di consistenti importi, sicché la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche risulta adeguatamente giustificata, con una motivazione esente da manifesta illogicità, ed è come tale, in applicazione dei principi sopra esposti, insindacabile in cassazione.
Il quarto motivo, avanzato in sede di conclusioni scritte, è manifestamente infondato.
4.1 II termine massimo di prescrizione previsto per il reato in questione, tenuto conto dell’interruzione, è di dieci anni decorrenti dal 30 settembre 2013, ed esso, calcolando l’interruzione e anche il periodo di sospensione ex art. 159 cod. pen. (pari a 63 giorni) per impedimento per motivi di salute del difensore – è decorso il 2 dicembre 2023 e, dunque, dopo la pronuncia della sentenza di appello (emessa il 10 novembre 2023).
4.2 Il reato per il quale è intervenuta condanna, quindi, al momento della pronuncia della sentenza di appello, non era estinto e l’inammissibilità del ricorso preclude il rilievo della prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, D. L., Rv. 217266).
4.3 Secondo il consolidato orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte, infatti, la proposizione di un ricorso inammissibile, come quello in esame, non consente la costituzione di valido avvio della corrispondente fase processuale e determina la formazione del giudicato sostanziale, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione, in quanto non investito del potere di cognizione e decisione sul merito del processo, non può rilevare eventuali cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, 12602 del 17/12/2015, COGNOME, Rv. 266818; Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, COGNOME, Rv. 231164; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D. L., Rv. 217266; Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981; Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, COGNOME, Rv. 199903).
5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere per il ricorrente del pagamento delle spese del procedimento nonché, tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativannente fissata in euro 3.000,00.
Il collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall’art. comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione prevista all’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopraindicate
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende
Così deciso il 11/09/2024.