Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 8602 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 8602  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CATANIA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 28/06/2023 della CORTE APPELLO di CATANIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Procuratore generale, nella persona del sostituto procuratore NOME COGNOME, che ha chiesto, con requisitoria scritta, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza emessa in data 28 giugno 2023 la Corte di appello di Catania, quale giudice dell’esecuzione, ha dichiarato inammissibile l’istanza presentata da NOME COGNOME per la declaratoria di “bis in idem” della condanna a lui inflitta nel processo denominato Carthago 2, ed ha invece accolto l’istanza subordinata di riconoscere il vincolo della continuazione tra i reati giudicati con due sentenze di condanna, emesse l’una dalla Corte di assise di appello di Catania in data 16/12/2020, a conclusione del processo denominato COGNOME, e l’altra emessa dalla Corte di appello di Catania in data 06/07/2020, a conclusione del processo denominato Carthago 2, entrambe di condanna per delitti di associazione mafiosa e di tentata estorsione.
La Corte ha, infatti, ritenuto inammissibile la richiesta di dichiarare violato il divieto di “bis in idem”, ai sensi dell’art. 669 cod.proc.pen., perché tale richiesta è stata oggetto delle impugnazioni nel processo di cognizione COGNOME, ed è stata respinta sulla base del diverso arco temporale dei reati contestati: nei reati permanenti, il divieto di un secondo giudizio riguarda la condotta come delineata nella contestazione, mentre la prosecuzione della stessa condotta costituisce un fatto storico diverso, nei confronti del quale si può procedere con un nuovo giudizio, come avvenuto nel presente caso. L’asserita erroneità della decisione del giudice della cognizione non può essere fatta valere davanti al giudice dell’esecuzione, trattandosi di un argomento di merito, coperto dal giudicato.
La Corte ha riconosciuto, invece, la continuazione tra i delitti contestati nelle due sentenze, per la loro contiguità spazio-temporale, la loro sostanziale omogeneità, l’identità del contesto associativo mafioso esaminato, ed ha rideterminato la pena in complessivi anni 16, mesi 5 e giorni 10 di reclusione.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso NOME COGNOME, per mezzo del suo difensore AVV_NOTAIO, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge, con riferimento all’art. 665, commi 3 e 4, cod.proc.pen.
L’ordinanza è viziata, in quanto emessa da giudice incompetente. L’incidente di esecuzione era stato proposto alla Terza sezione penale della Corte di appello di Catania, che aveva emesso la sentenza divenuta irrevocabile per ultima, ma questa ha trasmesso gli atti alla Prima sezione penale, che aveva emesso sentenza, quale giudice del rinvio disposto dalla Corte di cassazione, però solo in riferimento alla posizione di un diverso imputato. La pronuncia irrevocabile relativa al ricorrente, quindi, è quella emessa dalla Terza sezione
penale, essendo a lui del tutto estranei i punti di quella sentenza annullati dalla Corte di cassazione. Infatti l’incidente di esecuzione è stato proposto quando il giudizio di rinvio non era stato ancora celebrato, essendo la condanna del ricorrente già divenuta irrevocabile.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge con riferimento agli artt. 649 e 669 cod.proc.pen.
Il giudice dell’esecuzione ha respinto l’istanza, sul punto, perché la questione della violazione del divieto di bis in idem era stata già affrontata dal giudice della cognizione, ma non ha valutato che questi ha respinto tale questione solo sulla base del mero dato temporale delle contestazioni, mentre avrebbe dovuto valutare la portata complessiva del fatto storico e tutti gli elementi da cui evincere l’unitarietà della vicenda associativa. La sua valutazione, quindi, è stata di natura formale e non sostanziale, ma solo quest’ultima avrebbe potuto portare ad un giudicato con effetto preclusivo.
2.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena per i reati uniti in continuazione. La Corte di appello ha ritenuto più grave il reato associativo contestato nella seconda sentenza, in quanto aggravato dal ruolo di direttore e organizzatore, per cui tale contestazione, a rigore, non avrebbe potuto essere applicata anche al reato associativo contestato nella prima sentenza, ed ha applicato, per quest’ultimo delitto, un aumento di ben tre anni, ridotto a due per il rito abbreviato, e un aumento di otto anni per la recidiva. Tali aumenti sono del tutto sproporzionati rispetto alle pene irrogate ad altri coimputati, ad esempio a COGNOME NOME, a cui la continuazione tra i reati associativi, sia pure di mera partecipazione, ha portato ad un aumento di soli sei mesi. Anche nell’ambito dei due procedimenti di cognizione sono stati irrogati aumenti più contenuti, per cui il calcolo effettuato dal giudice dell’esecuzione risulta in violazione dei principi di uguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza.
L’ordinanza, inoltre, è priva di motivazione quanto all’entità degli aumenti per ciascun reato-satellite, in violazione del principio stabilito dalla giurisprudenza di legittimità.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato in tutti i suoi motivi, e deve essere rigettato.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Le questioni di competenza possono sorgere solo tra uffici giudiziari diversi, non tra le articolazioni interne di un singolo ufficio, come nel caso prospettato dal ricorrente, essendo la distribuzione degli affari effettuata sulla base di provvedimenti organizzativi interni, non sindacabili dalla Corte di cassazione. La eventuale violazione di tali provvedimenti organizzativi non è, quindi, causa di alcuna nullità (v., con riferimento all’attribuzione degli affari tra sede principale e sede distaccata del medesimo tribunale, Sez. 1, n. 5209 del 11/01/2013, Rv. 254510).
Peraltro, nel presente caso, l’attribuzione della competenza al giudice designato, dalla Corte di cassazione, quale giudice di rinvio in ordine al ricorso presentato da un coimputato, è corretta alla luce del principio di unicità del giudice dell’esecuzione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, «In caso di annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione solo nei confronti di alcuni coimputati, il giudice dell’esecuzione deve essere individuato, per i procedimenti relativi ai computati per i quali la sentenza sia divenuta definitiva, nel giudice di rinvio e ciò anche qualora questi non si sia ancora pronunciato» (Sez. 1. n. 27843 del 03/06/2015, Rv. 264617; Sez. 1, n. 3451 del 27/11/2017, dep. 2018, Rv. 272407).
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
L’intervenuta pronuncia definitiva, da parte del giudice della cognizione, sulla questione già proposta nel corso del giudizio di merito ha un effetto preclusivo, e impedisce al giudice dell’esecuzione di effettuare una nuova valutazione, addirittura in base ad altri parametri come richiesto del ricorrente, circa l’identità o meno dei reati contestati nelle due sentenze messe a confronto, identità che i giudici di merito hanno escluso. L’eventuale vizio della sentenza di merito non può essere emendato dal giudice dell’esecuzione, essendo tale decisione irrevocabile.
Il giudizio espresso dai giudici di merito, peraltro, non appare palesemente erroneo o abnorme, in quanto è giustamente fondato sulle rispettive contestazioni di un analogo delitto associativo. Costituisce, infatti, un consolidato principio di diritto, ribadito recentemente da Sez. 5, n. 18020 del 10/02/2022, Rv. 283371, quello secondo cui «Ai fini della preclusione del giudicato, l’identità del fatto è configurabile solo ove le condotte siano caratterizzate dalle medesime condizioni di tempo, di luogo e di persone, sicché costituisce fatto diverso quello che, pur violando la stessa norma e integrando gli
estremi del medesimo reato, rappresenti ulteriore estrinsecazione dell’attività delittuosa, distinta nello spazio e nel tempo da quella pregressa (Fattispecie relativa a partecipazione ad associazione mafiosa in cui la Corte ha escluso la violazione del principio del “ne bis in idem”, in quanto la contestazione afferiva a un periodo temporale successivo rispetto a quello oggetto del precedente procedimento già definito con sentenza irrevocabile e si fondava su fatti nuovi, indicativi della persistente intraneità del ricorrente)». L’erroneità della tesi sostenuta dal ricorrente è dimostrata anche da un requisito formale: nel caso di contestazione “chiusa” di un reato permanente, indicante cioè un preciso termine della condotta, la condanna che dichiarasse la sussistenza di tale reato anche in un’epoca successiva alla data indicata nell’imputazione, senza una modifica di questa da parte del pubblico ministero, violerebbe l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto dichiarerebbe l’imputato colpevole per una condotta a lui mai contestata (vedi Sez.6, n. 30145 del 28/04/2023, Rv. 284964; Sez. 6, n. 5576 del 26/01/2011, Rv. 249468).
4. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato.
La Corte di appello ha calcolato in modo corretto l’entità della pena-base, indicandola in anni dodici di reclusione in relazione al delitto di cui all’art. 416-bis cod.pen. di cui alla condanna emessa in data 06/07/2020 in cui, come riconosciuto dal ricorrente stesso, gli è stato contestato il ruolo di direttore ed organizzatore dell’associazione mafiosa. L’aumento per la recidiva è stato calcolato nella misura prevista dall’art. 99, commi 2 e 4 cod.pen., e l’aumento per gli altri delitti uniti in continuazione è stato determinato in misura congrua, attesa la loro gravità. L’ordinanza non è priva di motivazione in ordine alla gravità dei predetti reati e alla congruità delle pene irrogate, in quanto la Corte di appello ha esplicitamente rinviato alla valutazione dei parametri di cui all’art. 133 cod.pen. compiuta nelle due sentenze esaminate, condividendola pienamente. Peraltro deve sottolinearsi che la pena-base irrogata è pari al minimo edittale vigente all’epoca della commissione del delitto di cui all’art. 416bis cod.pen., contestato come commesso sino al 15/04/2016, e che gli aumenti per gli altri delitti sono stati contenuti in misura non elevata e ben inferiore ai minimi edittali di ciascuna fattispecie, per cui l’impegno motivazionale in merito ad essi può essere contenuto, apparendo evidente che è stato rispettato il rapporto di proporzionalità tra le pene e il giudice non ha abusato del potere discrezionale attribuitogli dall’art. 132 cod.pen., così come stabilito dalla sentenza Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269.
L’affermazione di irragionevolezza della pena complessiva irrogata, ed in particolare di quella irrogata quale aumento per il reato di cui all’art. 416 cod.pen., fondata sul raffronto con le pene irrogate ad altri coimputati manifestamente infondata per la sua illogicità, risultando evidente, dal ricor stesso, la diversità delle responsabilità attribuite a detti coimputati. Inol già indicata modesta entità sia della pena-base irrogata, sia degli aumenti per reati satellite, esclude la sussistenza di una irragionevole discriminazione confronto alle condanne di altri coimputati, ritenuti colpevoli, per quanto risu dal ricorso stesso, di reati diversi da quelli ritenuti sussistenti a car ricorrente nelle due sentenze citate.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 11 dicembre 2023
Il Consigliere estensore
GLYPH
Il Presidente